Candidati all'Oscar come Miglior Attore Non Protagonista
Vincitore: Christoph Waltz, Django Unchained
Django Unchained - di Quentin Tarantino con Jamie Foxx, Leonardo Di Caprio,
Samuel L. Jackson, Christoph Waltz, Franco Nero, Don Johnson ****
Rilettura, omaggio, rielaborazione colta e divertita, parodia travolgente e critica sociale, Tarantino nel suo personalissimo western porta tutto il suo bagaglio culturale, tutto il suo genio creativo, tutto il divertimento di chi ama fare e guardare cinema allo stato puro e tutto il desiderio di dare vita - ridare vita - ad un genere che non è solo western, che non è solo epico, non è solo di denuncia, non è solo d'avventura, non è solo romantico e non è solo buddy buddy. Perchè Tarantino non è solo regista, è anche grandissimo sceneggiatore (e infatti puntualmente è arrivato il Golden Globe per la sceneggiatura) e quindi porta i suoi dilatatissimi dialoghi in un contesto palesemente d'azione, ed è anche un cultore del passato, e quindi porta quel gusto old style di titoli rosso fuoco Anni 70, di musiche evocative a dir poco, di sguardi di ghiaccio e pistole di fuoco che nelle sue mani diventano materia nuova plasmata dalla sua arte. La scena si apre su una fila di schiavi condotti in catene nella notte. Da lontano arriva un uomo su un carretto sormontato da un dente, tale dottor King Schultz (un perfetto e carismatico Christoph Waltz appena premiato con il Golden Globe per questo ruolo), pesante accento tedesco (se potete godetevi il film in originale perchè i tanti accenti sono una chicca in più) e aria pacata e signorile, che non esita a far fuoco con una freddezza ed una precisione impressionante però, pur di liberare uno schiavo che può aiutarlo a catturare tre banditi. Perchè il mite dottore in realtà è un cacciatore di taglie spietato e meticoloso, e il nero Django è l'unico che conosce il volto dei fratelli Brittle., su cui pende una sstanziosa taglia. E così comincia un sodalizio umano e professionale fra i due, tanto più che Schultz promette a Django di aiutarlo a ritrovare la moglie Broomhilda, schiava in qualche piantagione del Sud. Col passare dei mesi Django apprende a sparare, a filosofeggiare, a vestire come un damerino del Settecento e più di tutto ad uccidere chi lo merita. Quando i due finalmente troveranno Broomhilda a Candyland, la tenuta di cui è proprietario Calvin Candie (un a dir poco strepitoso, diabolico e psicopatico Leo di Caprio) ci sarà una lunghissima, sanguinosissima e appassionatissima resa dei conti. Cinema allo stato puro quello di Tarantino, cinema d'evasione, perchè le battute sono tanto glaciali quanto fulminanti, cinema d'impegno, perchè la condizione degli schiavi è sottolineata con serietà e senso morale, cinema pulp come ci si aspetta dal re del pulp, con litri di sangue, pallottole che attraversano almeno tre corpi e lo stesso Tarantino - in una celebrativa partecipazione - che fa scintille grazie alla dinamite, ma soprattutto cinema di sostanza, con i dialoghi tarantiniani, con i personaggi tarantiniani - lo schiavo Stephen su tutti, ambiguo, sospettoso, maestoso nello sguardo torvo di Samuel L. Jackson - e la capacità di far sembrare 165 minuti un battito di ciglia, perchè il film vola talmente alto e talmente libero e talmente elegante che si desidera accompagnare Django ancora per un po' sul suo cammino di uomo cosciente di sè e del suo potere, libero e fiero, ma ancora capace di un gesto d'affetto per il suo amico Schultz in sottofinale. Immenso Tarantino che sfracella corpi, ci delizia con dialoghi degni di Beckett, ci ricorda l'orrore della schiavitù con poche crude scene spesso lasciate fuori campo come lo sbranamento da parte dei cani di uno schiavo fuggiasco, ma che sa con due o tre pennellate schive parlare d'amore e di amicizia come pochi altri.
The Master - di Paul Thomas Anderson con , Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Laura Dern ***
Grandissima prova attoriale dei due protagonisti nel nuovo film di Anderson, un duetto-duello fra Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman che lascia però un po' l'amaro in bocca per l'andamento della sceneggiatura che accompagna l'evoluzione del rapporto maestro allievo, ma senza picchi emotivi o slanci narrativi. Freddie Quell torna dalla seconda guerra mondiale con quello che oggi chiameremmo disturbo da stress post traumatico, e naturalmente gli psichiatri dell'esercito poco possono contro la sua rabbia e la sua inquietudine, i lavori si susseguono ai lavori, le risse alle risse, l'abuso di alcool si trasforma in una sperimentazione di misture fortissime. L'incontro con Lancaster Dodd però cambia la sua vita, perchè Dodd è un uomo carismatico, affabulatore, manipolatore ed è a capo di una specie di setta, "La Causa", fatta da familiari ed amici, in cui professa la reincarnazione, la psicanalisi da strapazzo, la cura della leucemia con il recupero dei ricordi di vite precedenti e l' educazione emotiva attraverso l'ipnosi e un morbido quanto insistente lavaggio del cervello fatto di sedute, confronti dialettici ed esperimenti improvvisati. Freddie si lascia sedurre dall'idea di appartenere a qualcuno, di non essere più un solitario sbandato e nevrotico, e così si unisce a Dodd e ai suoi seguaci, non riuscendo però a controllare la violenza, gli attacchi di rabbia, lo scetticismo profondo. I due uomini sono uno di sostegno all'altro, perchè non esiste maestro senza allievo, non esiste plagio senza qualcuno che si faccia plagiare, e non esiste forza senza debolezza con cui confrontarsi, perciò è vero che Freddie ha bisogno di Dodd per placare i suoi istinti sessuali e la rabbia che lo divora, ma altrettanto Dodd ha bisogno di Freddie, come dei tanti adepti che si sottopongono alle sue sedute, per esistere, per avere un ruolo, per non scomparire. C'è una grande tristezza nell'animo dei due uomini, che si aggrappano l'un l'altro e ogni tanto si sfidano e si allontanano senza mai riuscire a staccarsi del tutto, mentre le figura della moglie di Dodd, una Amy Adams dura e se possibile anche più manipolatrice del marito, del figlio che non crede ai sermoni del padre e del genero che cerca invece di accattivarselo, ci riportano alle miserie e alla quotidiana meschinità familiare, perchè dietro ad un guru che forse crede davvero alle proprie teorie e forse no, c'è pur sempre un uomo che ha paura della solitudine e del fallimento. L'impianto narrativo, estremamente lento non aiuta ad "entrare" nel film, ma l'interpretazione complementare ed ipnotica di Phoenix e Seymour Hoffman trascina il film e lo mantiene ad uno standard non originale ma coinvolgente, non inquietante ma struggente, e il confronto finale in penombra fra due vite irrecuperabili è di perfetto equilibrio emotivo.
Lincoln - di Steven Spielberg con Daniel Day-Lewis, Tommy Lee Jones, Sally Field, Lee Pace, Joseph Gordon-Levitt ***
Stilisticamente impeccabile, tecnicamente magistrale - luci, scene, costumi e fotografia da Oscar - politicamente corretto e misurato, se fosse un documentario della History Channel il "Linclon" di Spielberg sarebbe un capolavoro, ma la magia del cinema dov'è? Nell'epopea che racconta la ratifica del XIII Emendamento che nel 1865 abolirà la schiavitù dei neri manca la scintilla pulsante che accende il cuore dei grandi capolavori nonostante la recitazione impeccabile di Day Lewis, della Field e di Tommy Lee Jones e nonostante la regia attenta e meticolosa di Spielberg. La scelta di concentrare l'azione in un pugno di mesi sulla carta si prospetta interessante (la sceneggiatura è tratta da "Team of Rivals" di Kushner) per non appesantire la biografia di Lincoln con anni ed anni di avvenimenti, ma nonostante questo le dispute parlamentari e gli interminabili approfondimenti sui dettagli del trattato appesantiscono la prima parte del film oltre misura, la guerra resta sullo sfondo e tristemente apprendiamo che la firma della pace fu solo una pedina di scambio sul tavolo delle trattative per arrivare ad avere la maggioranza il giorno della votazione, maggioranza ottenuta con i peggiori voti di scambio, con corruzione, con minacce e con sotterfugi, ma si sa, la Storia non si fa con le mani pulite. Lincoln è carismatico sì, ma fin troppo ieratico, perso dietro i suoi pensieri e intento a raccontare le sue astruse storie (che fosse un fan di Tarantino e dei suoi dialoghi strampalati ma ben più divertenti?) il Thaddeus Stevens di Tommy Lee Jones è paradossale e sopra le righe - fortuna per noi perchè ci regala qualche sorriso - ma tende al macchiettistico, Sally Field regala l'unica scena di cinema vero, quando si inginocchia davanti al marito confessando tutto il suo dolore e strappando al presidente l'unico guizzo di umanità che Spilberg gli concede (troppo poco noi italiani conosciamo della storia americana per sapere se davvero il carattere dell'uomo che "ha fatto l'America" fosse così controllato) e tutto il cast fa il suo lavoro con precisione e mestiere, ma nulla più, non si sussulta, non si palpita, non ci si emoziona e non ci si commuove, nè quando l'emendamento viene approvato, nè quando Lincoln viene ucciso, e neanche quando i generali degli eserciti del Nord e del Sud si incontrano alla fine della guerra. E invece sono scene che dovrebbero far venire i brividi in un film di Spielberg, perchè di brividi emozioni e lacrime ce ne ha regalate tante nei suoi precedenti capolavori, ma è come se nelle due ore e mezzo che dura il film (e si sentono tutte alla fine, mentre per esempio le due ore e tre quarti di "Django" scappano via fin troppo veloci) il regista di "E.T." e di "Shindler's List" volesse metterci di fronte ad un minuzioso trattato di storia, dove diligentemente apprendiamo che anche i grandi uomini devono scendere a compromessi per ottenere grandi vittorie che cambieranno il futuro di una nazione, dove scopriamo che i deputati sono disposti a vendere il proprio voto in cambio di un qualche favore, che la politica è sporca e che la guerra fa soffrire milioni di famiglie - cose talmente lapalissiane da essere trascurabili in una ricostruzione filmica - mentre noi avremmo voluto assistere ad un grande capolavoro cinematografico, epico, retorico forse, ma che ci facesse provare quel brivido che invece rimane frustrato nell'occhio dello spettatore, appagato da tanta perfezione tecnica ma deluso dall'impostazione documentaristica di un film candidato a ben 12 Oscar.
Il Lato Positivo - Silver Linings Playbook - di David O. Russell con Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Jackie Weaver - Sentimentale - Usa - 2012 (Uscita in Italia 7 Marzo 2013) ***
Due cuori - folli - e il bisogno di vivere nonostante il disagio psicologico, l'amore quasi come una sfida e una minaccia, il dramma che come un cielo in primavera si apre improvvisamente e fa intravedere il sereno, l'equilibrio magico di alcune pellicole americane che non hanno paura di sterzare dagli ospedali psichiatrici alle sale da ballo, riuscendo a commuovere senza spingere sul pedale del sentimentalismo bieco, ma regalando emozioni sincere. "Il lato positivo" è un concentrato di stili e di generi, con partenza cupa e dolente perchè il protagonista Pat ha passato gli ultimi otto mesi in un istituto psichiatrico per aver massacrato di botte l'amante della moglie. Ha problemi a controllare la rabbia, è affetto da disturbo bipolare e ha un'ossessione per l'ex moglie Nikki che vuole a tutti i costi riconquistare. In queste condizioni torna a casa dai genitori che assistono alle sue scenate maniacali notturne con dolore e disagio, cercando di aiutarlo ma trovandosi impreparati ad arginare un fiume di dolore così tangibile e incrollabile. Corre Pat, corre per dimenticare la scena che ha mandato in frantumi la sua vita corre per riconquistare la forma fisica e tornare a corteggiare Nikki, corre per scappare dalla paura di tornare a vivere, paura che si concretizza nella conoscenza con Tiffany, sorella di un'amica, rimasta vedova da poco, arrabbiata con il mondo e con se stessa, reduce anche lei da un percorso psichiatrico dopo che aveva tentato di superare la morte del marito con ripetute avventure sessuali. Si incontrano e si scontrano Pat e Tiffany, lui trincerato dietro il suo mantra "Io sono sposato", lei nascosta dietro la rabbia che riserva a tutto e tutti. Fanno un patto però: lei consegnerà a Nikki una lettera di Pat se lui la aiuterà a partecipare ad una gara di ballo. E così inizia una fase di conoscenza più sincera, in cui interagiscono fratelli, padri, amici dell'ospedale psichiatrico e psichiatri tifosi di football, in una sarabanda divertente e romantica che si conclude con una girandola di passi di danza, lettere false e lettere vere e una vita che torna a vivere, con i dolori e le gioie di ogni vita, finalmente libera dal passato. Lieve in alcuni passaggi familiari, dolente e sincero nel maneggiare la tematica del disagio psichico senza retorica, romantico venato di brillante nei duetti Pat-Tiffany (nella sala da ballo si accorgono di essersi presi per mano e uno "accusa" l'altra di averlo fatto per primo, incapaci di manifestare i propri sentimenti anche a se stessi tanto l'amore è stato devastante per loro fino a quel momento) il film di Russell ha i tempi giusti, gli interpreti perfetti, - candidati all'Oscar sia Brdley Cooper che la bellissima Jennifer Lawrence - gioca a carte scoperte con i sentimenti e non ha paura di iniziare con un pugno nello stomaco per poi finire con una carezza mostrando un equilibrio di emozioni e timbri recitativi che solo pochi film hanno. Due parole a parte merita Robert De Niro - candidato agli Oscar dopo miriade di film inutili - che ha per gran parte del film un ruolo caricaturale ma che in due tre scene tira fuori sguardi e gesti che ci ricordano il grande attore che è.
Argo - di Ben Affleck con Bryan Cranston, Ben Affleck, John Goodman, Alan Arkin, Michael Cassidy, Taylor Schilling ***
Solido film d'azione, perfetta ricostruzione di un'epoca, intensa denuncia storica. Argo è un concentrato dei migliori stilemi di questi generi, e anche di molti altri, perchè non manca la suspence nei momenti topici, non manca la battuta ad effetto dei fool shakesperiani resi magistralmente da due gigioni come John Goodman e Alan Arkin, non manca l'emozione liberatoria nel classico finale da "arrivano i nostri" - poco conta che non siano eserciti a cavallo a salvare i protagonisti ma una prenotazione aerea - resta la sensazione di film saldamente ancorato a quel classico impianto narrativo che da sempre sorregge i migliori film statunitensi che raccontano con orgoglio la loro capacità operativa. L'azione si svolge in Iran, 1979, subito dopo la fuga dello Scia Pahlavi negli Stati Uniti. Khomeyni sale al potere, la popolazione insorge e prende d'assalto l'ambasciata statunitense a Teheran sequestrando più di sessanta persone fra impiegati ed ospiti. Solo sei diplomatici riusciranno a fuggire e a rifugiarsi temporaneamente a casa dell'ambasciatore canadese. Come riportarli a casa è la domanda che tormenta ministri e statisti, finchè non si decide di coinvolgere la Cia e in particolare l'agente Tony Mendez, esperto di situazioni critiche. L'idea che Mendez proporrà agli scettici politici è tanto strampalata che finisce per essere accettata: inventare la realizzazione di un film di fantascienza - Argo appunto - per giustificare l'entrata e soprattutto l'uscita di cittadini occidentali da Teheran. Un regista disincantato e un Premio Oscar per gli effetti speciali saranno il trait d'union fra Hollywood e la Cia per rendere l'idea più credibile possibile. Mendez va a Teheran, fa imparare ai sei diplomatici le parti che dovranno interpretare - registi, produttori, locations manager e operatori di ripresa che non sanno neanche tenere in mano un esposimetro - e in un crescendo di colpi di scena e di tensione degni di un thriller riuscirà a far rientrare i sei in patria, salvo dover restituire la medaglia al valore che gli verrà assegnata perchè l'operazione verrà secretata e gli Stati Uniti non figureranno come partecipanti all'azione, lasciando che siano i canadesi a prendersi tutto il merito, per non rischiare di mettere in pericolo i rimanenti ostaggi che verranno rilasciati solo dopo 444 giorni di prigionia. Sarà solo con la presidenza Clnton che i fatti verranno resi noti a livello inernazionale. Storia più cinematografica non si poteva trovare per costruire un film che raccontasse la storia ma anche il cinema, che svelasse gli intrighi politici ma anche la passione degli uomini che agiscono nel silenzio e nel buio dello spionaggio, che facesse spettacolo con personaggi quasi surreali per l'entusiasmo con cui partecipano ad un'azione del genere come se fosse un gioco - o un vero film . Attori perfettamente in parte, con Ben Affleck nel doppio ruolo di regista ed attore che regala al suo Tony Mendez una misura e un sangue freddo che non nascondono le emozioni, i dubbi e le passioni che lo agitano e sa dirigere con mano ferma il resto del cast costruendo una girandola di azioni ed emozioni degne di un regista di esperienza ben superiore alla sua. Un film vecchio stile si potrebbe dire, capace di coniugare lo spettacolo con l'impegno, la tensione con la riflessione, l'attenzione alla storia con la cura dei personaggi.