Candidati all'Oscar per il Miglior Attore Protagonista
Vincitore: Daniel Day Lewis, Lincoln
Lincoln - di Steven Spielberg con Daniel Day-Lewis, Tommy Lee Jones, Sally Field, Lee Pace, Joseph Gordon-Levitt ***
Stilisticamente impeccabile, tecnicamente magistrale - luci, scene, costumi e fotografia da Oscar - politicamente corretto e misurato, se fosse un documentario della History Channel il "Linclon" di Spielberg sarebbe un capolavoro, ma la magia del cinema dov'è? Nell'epopea che racconta la ratifica del XIII Emendamento che nel 1865 abolirà la schiavitù dei neri manca la scintilla pulsante che accende il cuore dei grandi capolavori nonostante la recitazione impeccabile di Day Lewis, della Field e di Tommy Lee Jones e nonostante la regia attenta e meticolosa di Spielberg. La scelta di concentrare l'azione in un pugno di mesi sulla carta si prospetta interessante (la sceneggiatura è tratta da "Team of Rivals" di Kushner) per non appesantire la biografia di Lincoln con anni ed anni di avvenimenti, ma nonostante questo le dispute parlamentari e gli interminabili approfondimenti sui dettagli del trattato appesantiscono la prima parte del film oltre misura, la guerra resta sullo sfondo e tristemente apprendiamo che la firma della pace fu solo una pedina di scambio sul tavolo delle trattative per arrivare ad avere la maggioranza il giorno della votazione, maggioranza ottenuta con i peggiori voti di scambio, con corruzione, con minacce e con sotterfugi, ma si sa, la Storia non si fa con le mani pulite. Lincoln è carismatico sì, ma fin troppo ieratico, perso dietro i suoi pensieri e intento a raccontare le sue astruse storie (che fosse un fan di Tarantino e dei suoi dialoghi strampalati ma ben più divertenti?) il Thaddeus Stevens di Tommy Lee Jones è paradossale e sopra le righe - fortuna per noi perchè ci regala qualche sorriso - ma tende al macchiettistico, Sally Field regala l'unica scena di cinema vero, quando si inginocchia davanti al marito confessando tutto il suo dolore e strappando al presidente l'unico guizzo di umanità che Spilberg gli concede (troppo poco noi italiani conosciamo della storia americana per sapere se davvero il carattere dell'uomo che "ha fatto l'America" fosse così controllato) e tutto il cast fa il suo lavoro con precisione e mestiere, ma nulla più, non si sussulta, non si palpita, non ci si emoziona e non ci si commuove, nè quando l'emendamento viene approvato, nè quando Lincoln viene ucciso, e neanche quando i generali degli eserciti del Nord e del Sud si incontrano alla fine della guerra. E invece sono scene che dovrebbero far venire i brividi in un film di Spielberg, perchè di brividi emozioni e lacrime ce ne ha regalate tante nei suoi precedenti capolavori, ma è come se nelle due ore e mezzo che dura il film (e si sentono tutte alla fine, mentre per esempio le due ore e tre quarti di "Django" scappano via fin troppo veloci) il regista di "E.T." e di "Shindler's List" volesse metterci di fronte ad un minuzioso trattato di storia, dove diligentemente apprendiamo che anche i grandi uomini devono scendere a compromessi per ottenere grandi vittorie che cambieranno il futuro di una nazione, dove scopriamo che i deputati sono disposti a vendere il proprio voto in cambio di un qualche favore, che la politica è sporca e che la guerra fa soffrire milioni di famiglie - cose talmente lapalissiane da essere trascurabili in una ricostruzione filmica - mentre noi avremmo voluto assistere ad un grande capolavoro cinematografico, epico, retorico forse, ma che ci facesse provare quel brivido che invece rimane frustrato nell'occhio dello spettatore, appagato da tanta perfezione tecnica ma deluso dall'impostazione documentaristica di un film candidato a ben 12 Oscar.
The Master - di Paul Thomas Anderson con , Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Laura Dern ***
Grandissima prova attoriale dei due protagonisti nel nuovo film di Anderson, un duetto-duello fra Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman che lascia però un po' l'amaro in bocca per l'andamento della sceneggiatura che accompagna l'evoluzione del rapporto maestro allievo, ma senza picchi emotivi o slanci narrativi. Freddie Quell torna dalla seconda guerra mondiale con quello che oggi chiameremmo disturbo da stress post traumatico, e naturalmente gli psichiatri dell'esercito poco possono contro la sua rabbia e la sua inquietudine, i lavori si susseguono ai lavori, le risse alle risse, l'abuso di alcool si trasforma in una sperimentazione di misture fortissime. L'incontro con Lancaster Dodd però cambia la sua vita, perchè Dodd è un uomo carismatico, affabulatore, manipolatore ed è a capo di una specie di setta, "La Causa", fatta da familiari ed amici, in cui professa la reincarnazione, la psicanalisi da strapazzo, la cura della leucemia con il recupero dei ricordi di vite precedenti e l' educazione emotiva attraverso l'ipnosi e un morbido quanto insistente lavaggio del cervello fatto di sedute, confronti dialettici ed esperimenti improvvisati. Freddie si lascia sedurre dall'idea di appartenere a qualcuno, di non essere più un solitario sbandato e nevrotico, e così si unisce a Dodd e ai suoi seguaci, non riuscendo però a controllare la violenza, gli attacchi di rabbia, lo scetticismo profondo. I due uomini sono uno di sostegno all'altro, perchè non esiste maestro senza allievo, non esiste plagio senza qualcuno che si faccia plagiare, e non esiste forza senza debolezza con cui confrontarsi, perciò è vero che Freddie ha bisogno di Dodd per placare i suoi istinti sessuali e la rabbia che lo divora, ma altrettanto Dodd ha bisogno di Freddie, come dei tanti adepti che si sottopongono alle sue sedute, per esistere, per avere un ruolo, per non scomparire. C'è una grande tristezza nell'animo dei due uomini, che si aggrappano l'un l'altro e ogni tanto si sfidano e si allontanano senza mai riuscire a staccarsi del tutto, mentre le figura della moglie di Dodd, una Amy Adams dura e se possibile anche più manipolatrice del marito, del figlio che non crede ai sermoni del padre e del genero che cerca invece di accattivarselo, ci riportano alle miserie e alla quotidiana meschinità familiare, perchè dietro ad un guru che forse crede davvero alle proprie teorie e forse no, c'è pur sempre un uomo che ha paura della solitudine e del fallimento. L'impianto narrativo, estremamente lento non aiuta ad "entrare" nel film, ma l'interpretazione complementare ed ipnotica di Phoenix e Seymour Hoffman trascina il film e lo mantiene ad uno standard non originale ma coinvolgente, non inquietante ma struggente, e il confronto finale in penombra fra due vite irrecuperabili è di perfetto equilibrio emotivo.
Flight - di Robert Zemeckis con Denzel Washington, Kelly Reilly, Don Cheadle, John Goodman, Melissa Leo, Bruce Greenwood ***
Le prima inquadrature del film, con Denzel Washington che si alza dal letto, beve un drink e sniffa cocaina è indizio più che palese della tematica - unica nonostante alcune pur importanti digressioni - del nuovo film di Zemeckis che ci trascina in un vortice di azioni e reazioni per due ore e un quarto nel seguire le vicende di Whip Whitaker, pilota di linea con dipendenza da alcool e droga. Nel primo quarto d'ora il film è un perfetto disaster movie, con Whip che pilota nel mezzo di una tempesta e all'improvviso si trova a gestire un guasto tecnico che lo costringe ad una manovra tanto azzardata quanto vincente (rovesciare l'aereo e atterrare lontano dalla città di Atlanta). Celebrato come eroe dai media mondiali - solo sei sono state le vittime grazie alla sua perizia - Whip giace contuso in ospedale e apprende che il suo esame tossicologico è risultato positivo - cosa che non lo stupisce ovviamente - e che probabilmente verrà processato per questo, tanto più che alla compagnia aerea non sembra vero di poter concentrare l'attenzione sul pilota e sviarla dalle proprie responsabilità sui pezzi malfunzionanti dell'aereo. Un collega e amico gli procurerà un avvocato che cercherà di far escludere l'esame tossicologico dal processo per alcuni vizi formali e Whip si avvia ad affrontare l'indagine dell'NTSB - la commissione di controllo degli incidenti aerei - trasferendosi nella casa di campagna del padre morto da poco per evitare i fotoreporter appostati davanti alla sua casa. Lì cercherà di curare le sue ferite fisiche ma soprattutto affronterà la sua dipendenza, con gli inevitabili fallimenti, con scatti d'ira, con propositi e promesse regolarmente infranti e rimpianti che bruciano l'anima. In questo percorso lo affianca Nicole, fotografa tossicodipendente conosciuta in ospedale, che inizialmente andrà a vivere con Whip ma che si allontanerà a causa delle continue ricadute di lui. Le ultime scene, in albergo la sera prima del processo, e in tribunale il giorno dopo sono decisamente le più elettriche, le più intense, le più convincenti. Tutto il percorso precedente, seppure ben recitato, ben diretto e ben scritto, è forse un po' troppo prevedibile e lento per appassionare fino in fondo, anche se la sensazione di film "old style" ha un suo fascino. L'idea di mantenere costantemente Whip sul bordo del baratro non è certo nuova, ma Washington padroneggia con disinvolta pigrizia il suo personaggio, concedendo pochi sguardi e pochi gesti, ma suscita comunque empatia e si riscatta in finale assumendosi le proprie responsabilità e affrontando le conseguenze del proprio alcolismo, riuscendo così a recuperare il rapporto con il figlio abbandonato anni prima e con Nicole. Non si può negare che "Flight" sia un film che , sia pure nella sua esagerata lunghezza, si segue piacevolmente, capace come è di passare con disinvoltura dalle scene d'azione dell'aereo che precipita a quelle serrate di interrogatorio processuale passando per gli svenimenti alcolici, ma quando in finale il figlio di Whip rivela al padre che, dovendo scrivere un tema sulla persona più interessante che abbia mai conosciuto, ha deciso di incentrarlo sulla figura dell'ex alcolista ci si chiede - forse ingenuamente nel retorico mondo cinematografico - perchè un pilota dedito al bere che alla fine si disintossica debba essere tanto interessante, al di là del fatto che lo interpreta il sempre carismatico e affascinante, seppure un po' troppo appesantito al giro vita, Denzel Washington.
Les Miserables - di Tom Hooper con Hugh Jackman, Anne Hathaway, Russell Crowe, Amanda Seyfried, Helena Boham Carter, Sacha Baron Cohen, Eddie Redmayne *****
Un romanzo fra i più significativi della letteratura mondiale, un musical che da trent'anni entusiasma il pubblico, una storia che sembra fatta apposta per il grande cinema sembrerebbero motivi sufficienti a dare vita ad un capolavoro, ma il film di Tom Hooper brilla di luce propria creando una magia rara, plasmando scena dopo scena personaggi immortali ed immergendoli in un'epoca di sofferenza e miseria che se nella pagina di Hugo incombeva come una nube nera qui esplode come il cuore di una nazione. La scelta di aderire al musical anche nella parti recitate, che quindi risultano cantate - e da qui il consiglio di vedere il film in originale o al massimo con i sottotitoli per godere della messa in scena e della bravura degli interpreti - rende l'opera ancora più palpitante ed emozionante. La storia è ambientata in Francia, nel 1815, e segue le vicende di Jean Valjean che dopo 19 anni di prigione per aver rubato del pane si trova in libertà ma impossibilitato a ritrovare la propria dignità perchè perennemente rifiutato per il proprio passato. Il suo alter ego è Javert, guardia del carcere e sua ombra anche quando, dopo aver ricevuto un gesto caritatevole da padre Myriel che nasconde un suo furto, Valjean cambia e si dedica a fare il bene della comunità, diventando sindaco di Montreuil con il nome di Madeleine. Qui incontrerà Fantine, costretta a prostituirsi per mantenere la figlia Cosette, e poco prima della morte di lei le promette di prendersi cura della bambina, e per far questo fugge ancora dal proprio passato, inseguito dall'ossessione di Javert. Gli anni passano, i moti rivoluzionari degli studenti agitano Parigi e Cosette di innamora di Marius, giovane manifestante, amato anche da Eponine, figlia dei due locandieri che avevano cresciuto Cosette. Sarà Valjean a salvarlo dalla battaglia e a riunire i due giovani prima di morire riconciliato con se stesso. Sorte diversa avrà la sua nemesi Javert, che dopo essere stato catturato dai rivoltosi e liberato proprio da Valjean, non riuscirà ad accettare la fine del proprio odio, al contrario di Valjean che muore dicendo "sono un uomo che ha imparato a non odiare". La storia è potente, emozionante e coinvolgente, ma la grandiosità della musica, sia negli assoli sia nei duetti (che a volte diventano dialoghi amorosi e a tre o quattro con picchi di intensità magistrale) alza la temperatura emotiva, e porta sullo schermo le voci dolenti dei poveri, la redenzione di Valjean, l'ossessione di Javert, la passione di Cosette e la disperazione di Fantine con un crescendo visivo e sonoro che lascia senza fiato. Impossibile non rimanere incantati davanti alle scene corali, teatrali nell'impostazione ma totalmente cinematografiche nella realizzazione, impossibile non partecipare al crescente sussulto popolare e al dramma tutto intimo di un'uomo divorato dai sensi di colpa, assolutamente incantevoli le parti brillanti affidate a Thénardier e alla moglie (interpretati in modo semplicemente strepitoso da Helena Boham Carter e Sacha Baron Cohen) due fool shakesperiani colorati e surreali che irrompono nel dramma con tempi comici perfetti. E indimenticabili rimangono le canzoni, l'assolo di Fantine, l'accorata preghiera di Valjean, la disperata presa di coscienza di Javert, interpretate con coraggio, intensità e vitalità da tre interpreti in stato di grazia, una Anne Hathaway essenziale e scarnificata, uno Hugh Jackman tormentato e coraggioso e un Russel Crowe impeccabile nel tratteggiare un uomo ancorato alle regole e schiavo del dovere. Tra i giovani la parte di Eponine, e la sua canzone d'amore, sono una gemma di dolore sincero e puro, che tocca nel profondo. Finale arioso, lirico, poetico e corale, magnifico come tutto il film candidato ad otto meritatissimi Premi Oscar.
Il Lato Positivo - Silver Linings Playbook - di David O. Russell con
Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Jackie Weaver - Sentimentale - Usa 2012 (Uscita in Italia 7 Marzo 2013) ***
Due cuori - folli - e il bisogno di vivere nonostante il disagio psicologico, l'amore quasi come una sfida e una minaccia, il dramma che come un cielo in primavera si apre improvvisamente e fa intravedere il sereno, l'equilibrio magico di alcune pellicole americane che non hanno paura di sterzare dagli ospedali psichiatrici alle sale da ballo, riuscendo a commuovere senza spingere sul pedale del sentimentalismo bieco, ma regalando emozioni sincere. "Il lato positivo" è un concentrato di stili e di generi, con partenza cupa e dolente perchè il protagonista Pat ha passato gli ultimi otto mesi in un istituto psichiatrico per aver massacrato di botte l'amante della moglie. Ha problemi a controllare la rabbia, è affetto da disturbo bipolare e ha un'ossessione per l'ex moglie Nikki che vuole a tutti i costi riconquistare. In queste condizioni torna a casa dai genitori che assistono alle sue scenate maniacali notturne con dolore e disagio, cercando di aiutarlo ma trovandosi impreparati ad arginare un fiume di dolore così tangibile e incrollabile. Corre Pat, corre per dimenticare la scena che ha mandato in frantumi la sua vita corre per riconquistare la forma fisica e tornare a corteggiare Nikki, corre per scappare dalla paura di tornare a vivere, paura che si concretizza nella conoscenza con Tiffany, sorella di un'amica, rimasta vedova da poco, arrabbiata con il mondo e con se stessa, reduce anche lei da un percorso psichiatrico dopo che aveva tentato di superare la morte del marito con ripetute avventure sessuali. Si incontrano e si scontrano Pat e Tiffany, lui trincerato dietro il suo mantra "Io sono sposato", lei nascosta dietro la rabbia che riserva a tutto e tutti. Fanno un patto però: lei consegnerà a Nikki una lettera di Pat se lui la aiuterà a partecipare ad una gara di ballo. E così inizia una fase di conoscenza più sincera, in cui interagiscono fratelli, padri, amici dell'ospedale psichiatrico e psichiatri tifosi di football, in una sarabanda divertente e romantica che si conclude con una girandola di passi di danza, lettere false e lettere vere e una vita che torna a vivere, con i dolori e le gioie di ogni vita, finalmente libera dal passato. Lieve in alcuni passaggi familiari, dolente e sincero nel maneggiare la tematica del disagio psichico senza retorica, romantico venato di brillante nei duetti Pat-Tiffany (nella sala da ballo si accorgono di essersi presi per mano e uno "accusa" l'altra di averlo fatto per primo, incapaci di manifestare i propri sentimenti anche a se stessi tanto l'amore è stato devastante per loro fino a quel momento) il film di Russell ha i tempi giusti, gli interpreti perfetti, - candidati all'Oscar sia Brdley Cooper che la bellissima Jennifer Lawrence - gioca a carte scoperte con i sentimenti e non ha paura di iniziare con un pugno nello stomaco per poi finire con una carezza mostrando un equilibrio di emozioni e timbri recitativi che solo pochi film hanno. Due parole a parte merita Robert De Niro - candidato agli Oscar dopo miriade di film inutili - che ha per gran parte del film un ruolo caricaturale ma che in due tre scene tira fuori sguardi e gesti che ci ricordano il grande attore che è.