Ipotesi
(Primi 4 Racconti)
Bill e Blue Eyes
I retrobottega è il suo regno. Lì Bill pulisce le gabbie, prepara le ciotole con il cibo, spazzola i cuccioli. Bill ha quattordici anni e lavora in un negozio di animali. Sta lì da qualche mese e comincia a non far più caso al chiasso che c’è perennemente in negozio, quel chiasso che i primi giorni lo faceva impazzire. Ora riesce perfino a distinguere chi è che abbaia. Il padrone è un tipo di poche parole, ma questo a Bill non da’ fastidio, è abituato a suo padre, in casa c’è sempre silenzio. Quando non si urla. Il lavoro Da fare in negozio è sempre molto, ma Bill non è tipo da spaventarsi, si rimbocca le maniche e a testa bassa si mette all’opera. I cuccioli di pastore tedesco sono i suoi preferiti, così diversi dagli adulti, teneri e spauriti, così malinconici in vetrina. Bill sa che non deve affezionarsi agli animali e non deve neanche dar loro un nome, però da qualche tempo c’è un cucciolo particolare, solitario e indifferente al mondo esterno, e Bill non po’ fare a meno, quando il padrone esce per andare al bar, di tirarlo fuori dalla gabbia e coccolarlo un po’. Gli ha dato anche un nome, Blue Eyes, per via dei suoi liquidi occhi tristi, e sente di volergli bene, molto bene. Non è tipo da abbandonarsi a facili emozioni Bill, ma per Blue Eyes ha una vera passione, un affetto che lo fa sentire ricco. Prima di tornare a casa la sera Bill controlla che ogni animale abbia cibo e acqua a sufficienza, poi va nel piccolo bagno e si guarda. Spazzola con cura i lunghi capelli neri, l’unica cosa bella che abbia, li guarda, lucidi ed ondulati e pensa ai rimproveri del padre per quella pettinatura a suo dire “da piccolo delinquente”. Ma Bill non rinuncerà mai ai propri capelli, non alle onde nero blu, non con quel viso scialbo e pieno di brufoli, non con quel corpo cresciuto troppo in fretta e senza muscoli nei posti giusti. No, non rinuncerà mai a quei magici capelli così simili a quelli che aveva sua madre, quei capelli che gli fanno compagnia nelle sere in cui si sente solo, che lo proteggono dalle cattiverie quotidiane di chi non ha altro da fare nella vita che prendersela con lui. Dopo essersi pettinato Bill infila il vecchio giubbotto ed esce. Non prima di aver incontrato lo sguardo di Blue Eyes ed avergli sorriso. Una sera alle televisione ha sentito alcuni ragazzi parlare della noia, della mancanza di stimoli, di novità. Bill non ha capito bene il senso di quel discorso, certo anche lui vorrebbe poter fare qualcos’altro e vorrebbe essere altrove, ma da quando si può scegliere la propria vita? Forse quei cuccioli scelgono di passare giornate intere in una vetrina aspettando che qualcuno li compri? Certamente no, e allora? A Bill per essere felice basta poco, per esempio non sentire le urla di suo padre già fuori dalla porta. Non capita spesso però, specie negli ultimi tempi, perché sua sorella Susan è cresciuta e rientra tardi la sera, dopo di lui. E la quel punto comincia ogni sera una discussione feroce ed inutile fra lei e suo padre che la accusa di ogni nefandezza, dai vestiti troppo corti, agli amici sbagliati. . Bill cerca di difenderla, ma il più delle volte gli resta solo l’impronta di cinque dita sul volto a ricordo del proprio gesto coraggioso. Bill sogna spesso di prendere Susan e Blue Eyes e portarli lontano, in un bel giardino fiorito, dove correre e rotolarsi nell’erba ridendo, ma si sveglia sempre. Si lava e si veste in silenzio, poi va in negozio. Indossa una vecchia felpa, i guanti ed inizia a lavare le gabbie. Così tutti i giorni, tranne la domenica. La domenica si lava e si veste in silenzio, poi va in negozio. In realtà dovrebbe solo dar da mangiare e da bere agli animali, ora il padrone si fida di lui e gli lascia le chiavi, però Bill da un paio di settimane, dopo aver sistemato le ciotole, stacca un guinzaglio dalla parete, prende Blue Eyes e lo porta a spasso. Vanno al parco, corrono e si rotolano nell’erba calda di sole. Ha deciso di portare anche Susan una volta, è troppo bello. Perfino Blue Eyes sembra animarsi un po’, però non abbia, non scodinzola, non fa feste. Bill lo capisce, anche per lui è difficile essere felice sapendo di dover poi dimenticare la libertà e tornare a casa. E infatti rientra solo al calar del sole. Sa che questo farà andare su tutte le furie suo padre, sa che dovrà ascoltare in silenzio i suoi astiosi rimproveri, ma non gli importa, ha ancora negli occhi quella luce viva e pulsante, quell’aria lucida come uno specchio e la sensazione di morbidezza che il pelo di Blue Eyes gli trasmette quando lo accarezza, niente può rovinargli il ricordo di quella giornata, il calore dell’estate che se mette una mano sui capelli riesce ancora a sentire.
E’ tardi quando arriva in negozio. Tiene la testa bassa. I lungi e lucenti capelli neri scendono sulla guancia e nascondono l’occhio gonfio. Susan era andata al cinema con un’amica. Suo padre non l’aveva presa bene. Quando una mano si era alzata per colpirla Bill aveva urlato contro il padre tutta la sua rabbia. Forse per lo stupore lui si era fermato, dimenticando Susan per un attimo. Poi si era avvicinato a Bill e gli aveva detto “Se hai deciso di comportarti da uomo e non da ragazzo va bene, ma sappi che questo è quello che ho da dire ad un uomo che non è d’accordo con me”. Il pugno era stato uno solo, diretto e preciso. Bill aveva incassato bene, senza neanche indietreggiare. Però ora l’occhio è gonfio e gli fa male. A niente è servito il ghiaccio che Susan con le lacrime agli occhi gli ha offerto.
Bill entra in negozio e saluta il padrone seduto alla scrivania con gli occhiali sul naso e il registro dei conti davanti. Lui guarda l’occhio ammaccato e non dice niente. Bill si infila la felpa e scruta la gabbia di Blue Eyes, in vetrina. Una fitta all’occhio lo fa vacillare.
“Dove è il cucciolo?” domanda con un filo di voce.
“L’ho venduto …” risponde il padrone continuando a scrivere chissà cosa.
Bill si passa una mano tra i morbidi setosi capelli che sua madre tanto amava accarezzare, poi si infila i guanti ed inizia a pulire le gabbie.
E’ ora di pranzo, il padrone è uscito, ma Bill non ha fame, continua a guardare la gabbia di Blue Eyes. Pensa al cucciolo, a dove sarà adesso, a dove sarà per il resto della sua vita. E pensa a tutto ciò che ha perso senza aver mai avuto. E a tutto ciò che mai avrà. E’ un attimo. Apre lo sportello e a fatica entra. Si accuccia e chiude gli occhi. Sente il profumo dei propri capelli, sente l’odore di sua madre che lo cullava fino a pochi giorni prima di morire. Sente di non avere la forza per scappare dalla propria gabbia, di non aver abbastanza coraggio per tornare a casa, o per scappare. Sente di essere trasparente, incorporeo. E forse è meglio così. Nei confini angusti di quella gabbia per cani non c’è spazio per niente altro che un corpo vuoto, neanche per il dolore.
I retrobottega è il suo regno. Lì Bill pulisce le gabbie, prepara le ciotole con il cibo, spazzola i cuccioli. Bill ha quattordici anni e lavora in un negozio di animali. Sta lì da qualche mese e comincia a non far più caso al chiasso che c’è perennemente in negozio, quel chiasso che i primi giorni lo faceva impazzire. Ora riesce perfino a distinguere chi è che abbaia. Il padrone è un tipo di poche parole, ma questo a Bill non da’ fastidio, è abituato a suo padre, in casa c’è sempre silenzio. Quando non si urla. Il lavoro Da fare in negozio è sempre molto, ma Bill non è tipo da spaventarsi, si rimbocca le maniche e a testa bassa si mette all’opera. I cuccioli di pastore tedesco sono i suoi preferiti, così diversi dagli adulti, teneri e spauriti, così malinconici in vetrina. Bill sa che non deve affezionarsi agli animali e non deve neanche dar loro un nome, però da qualche tempo c’è un cucciolo particolare, solitario e indifferente al mondo esterno, e Bill non po’ fare a meno, quando il padrone esce per andare al bar, di tirarlo fuori dalla gabbia e coccolarlo un po’. Gli ha dato anche un nome, Blue Eyes, per via dei suoi liquidi occhi tristi, e sente di volergli bene, molto bene. Non è tipo da abbandonarsi a facili emozioni Bill, ma per Blue Eyes ha una vera passione, un affetto che lo fa sentire ricco. Prima di tornare a casa la sera Bill controlla che ogni animale abbia cibo e acqua a sufficienza, poi va nel piccolo bagno e si guarda. Spazzola con cura i lunghi capelli neri, l’unica cosa bella che abbia, li guarda, lucidi ed ondulati e pensa ai rimproveri del padre per quella pettinatura a suo dire “da piccolo delinquente”. Ma Bill non rinuncerà mai ai propri capelli, non alle onde nero blu, non con quel viso scialbo e pieno di brufoli, non con quel corpo cresciuto troppo in fretta e senza muscoli nei posti giusti. No, non rinuncerà mai a quei magici capelli così simili a quelli che aveva sua madre, quei capelli che gli fanno compagnia nelle sere in cui si sente solo, che lo proteggono dalle cattiverie quotidiane di chi non ha altro da fare nella vita che prendersela con lui. Dopo essersi pettinato Bill infila il vecchio giubbotto ed esce. Non prima di aver incontrato lo sguardo di Blue Eyes ed avergli sorriso. Una sera alle televisione ha sentito alcuni ragazzi parlare della noia, della mancanza di stimoli, di novità. Bill non ha capito bene il senso di quel discorso, certo anche lui vorrebbe poter fare qualcos’altro e vorrebbe essere altrove, ma da quando si può scegliere la propria vita? Forse quei cuccioli scelgono di passare giornate intere in una vetrina aspettando che qualcuno li compri? Certamente no, e allora? A Bill per essere felice basta poco, per esempio non sentire le urla di suo padre già fuori dalla porta. Non capita spesso però, specie negli ultimi tempi, perché sua sorella Susan è cresciuta e rientra tardi la sera, dopo di lui. E la quel punto comincia ogni sera una discussione feroce ed inutile fra lei e suo padre che la accusa di ogni nefandezza, dai vestiti troppo corti, agli amici sbagliati. . Bill cerca di difenderla, ma il più delle volte gli resta solo l’impronta di cinque dita sul volto a ricordo del proprio gesto coraggioso. Bill sogna spesso di prendere Susan e Blue Eyes e portarli lontano, in un bel giardino fiorito, dove correre e rotolarsi nell’erba ridendo, ma si sveglia sempre. Si lava e si veste in silenzio, poi va in negozio. Indossa una vecchia felpa, i guanti ed inizia a lavare le gabbie. Così tutti i giorni, tranne la domenica. La domenica si lava e si veste in silenzio, poi va in negozio. In realtà dovrebbe solo dar da mangiare e da bere agli animali, ora il padrone si fida di lui e gli lascia le chiavi, però Bill da un paio di settimane, dopo aver sistemato le ciotole, stacca un guinzaglio dalla parete, prende Blue Eyes e lo porta a spasso. Vanno al parco, corrono e si rotolano nell’erba calda di sole. Ha deciso di portare anche Susan una volta, è troppo bello. Perfino Blue Eyes sembra animarsi un po’, però non abbia, non scodinzola, non fa feste. Bill lo capisce, anche per lui è difficile essere felice sapendo di dover poi dimenticare la libertà e tornare a casa. E infatti rientra solo al calar del sole. Sa che questo farà andare su tutte le furie suo padre, sa che dovrà ascoltare in silenzio i suoi astiosi rimproveri, ma non gli importa, ha ancora negli occhi quella luce viva e pulsante, quell’aria lucida come uno specchio e la sensazione di morbidezza che il pelo di Blue Eyes gli trasmette quando lo accarezza, niente può rovinargli il ricordo di quella giornata, il calore dell’estate che se mette una mano sui capelli riesce ancora a sentire.
E’ tardi quando arriva in negozio. Tiene la testa bassa. I lungi e lucenti capelli neri scendono sulla guancia e nascondono l’occhio gonfio. Susan era andata al cinema con un’amica. Suo padre non l’aveva presa bene. Quando una mano si era alzata per colpirla Bill aveva urlato contro il padre tutta la sua rabbia. Forse per lo stupore lui si era fermato, dimenticando Susan per un attimo. Poi si era avvicinato a Bill e gli aveva detto “Se hai deciso di comportarti da uomo e non da ragazzo va bene, ma sappi che questo è quello che ho da dire ad un uomo che non è d’accordo con me”. Il pugno era stato uno solo, diretto e preciso. Bill aveva incassato bene, senza neanche indietreggiare. Però ora l’occhio è gonfio e gli fa male. A niente è servito il ghiaccio che Susan con le lacrime agli occhi gli ha offerto.
Bill entra in negozio e saluta il padrone seduto alla scrivania con gli occhiali sul naso e il registro dei conti davanti. Lui guarda l’occhio ammaccato e non dice niente. Bill si infila la felpa e scruta la gabbia di Blue Eyes, in vetrina. Una fitta all’occhio lo fa vacillare.
“Dove è il cucciolo?” domanda con un filo di voce.
“L’ho venduto …” risponde il padrone continuando a scrivere chissà cosa.
Bill si passa una mano tra i morbidi setosi capelli che sua madre tanto amava accarezzare, poi si infila i guanti ed inizia a pulire le gabbie.
E’ ora di pranzo, il padrone è uscito, ma Bill non ha fame, continua a guardare la gabbia di Blue Eyes. Pensa al cucciolo, a dove sarà adesso, a dove sarà per il resto della sua vita. E pensa a tutto ciò che ha perso senza aver mai avuto. E a tutto ciò che mai avrà. E’ un attimo. Apre lo sportello e a fatica entra. Si accuccia e chiude gli occhi. Sente il profumo dei propri capelli, sente l’odore di sua madre che lo cullava fino a pochi giorni prima di morire. Sente di non avere la forza per scappare dalla propria gabbia, di non aver abbastanza coraggio per tornare a casa, o per scappare. Sente di essere trasparente, incorporeo. E forse è meglio così. Nei confini angusti di quella gabbia per cani non c’è spazio per niente altro che un corpo vuoto, neanche per il dolore.
Arriveranno Ancora le Undici
Si alza ogni sera alle undici. Né un minuto prima né un minuto dopo. La precisione per lui è importante, la puntualità determinante. Cinque minuti di ritardo e potrebbe saltar tutto, potrebbe sfumare quell’appuntamento atteso con ansia per tutto il giorno. Le ore sferzate dalla luce del sole si dilatano, scorrono lente, lentissime, Franz sente le proprie ossa invecchiare e ogni scricchiolio lo preoccupa più del precedente, ma quando la luce del giorno diminuisce ed il cielo accende le proprie fiammelle lui ritrova tutta la sua energia e anche il respiro si fa più regolare. Quando non è proprio necessario durante il giorno Franz non esce. Non servirebbe: Se ne sta seduto nella sua poltrona a leggere qualcosa fin quando non sente gli occhi protestare, allora smette. Guarda l’ora e si accorge di avere ancora tante ore da far passare. Mangiare non è un problema per lui, mette sul fuoco una pentola con dell’acqua cala un pugno di pasta ed è fatta, un giorno asciutta e un giorno come minestra, anche il pranzo è sistemato. Per la cena schiaccia un paio di patate lesse, oppure prende una tazza di latte con i biscotti, come un bambino. Neanche la solitudine gli pesa più di tanto, ci è abituato, sa come si fa a mangiare senza avere qualcuno di fronte, conosce tutti i trucchi, tutti gli stratagemmi per on pensarci. E poi nessuno o obbliga a sedersi a tavola, e infatti speso non lo fa, se ne resta raggomitolato sulla poltrona e si sbrodola un po’ nel tentare di tenere ferma la scodella con le mani tremanti. Se solo le ore di luce scorressero più veloci, se non dovesse passare ogni giorno attraverso quei minuti inutili e le undici arrivassero in uno schioccar di dita allora Franz non potrebbe desiderare di più. Comunque c’è solo da aver pazienza, prima poi le undici arrivano sempre. E allora può alzarsi lentamente da letto dove si era steso dopo cena per accumulare le forze, recuperare un respiro regolare e preparare il caffè. Solo un goccio, certo, ma ci vuole proprio. Indossa la camicia e con attenzione allaccia i gemelli. Poi fa il nodo al papillon. Prima lo portava sempre nero, ma ultimamente ne ha comprati alcuni a pois e gli piace quel tocco di nuovo, lo fa sentire più giovane, più giovane dei suoi vent’anni più pochi spiccioli spesi senza risparmi, e non sempre nei posti giusti. Il caffè lo beve prima di indossare la giacca dello smoking, in maniche di camicia, poi pettina con cura i resti di un esercito un tempo folto e ribelle e finalmente è pronto: D’inverno indossa un cappotto di cammello molto elegante, una fortunata liquidazione di qualche anno prima che resiste orgogliosa agli attacchi atmosferici. Ma ora che la notte ha il profumo di luglio inoltrato non ne ha bisogno. Deve solo togliere dal vaso il bocciolo di rosa e asciugarne il gambo. Poi può uscire, Scende le scale vicino alla ringhiera, a quell’ora è buio e una caduta alla sua età sarebbe fatale. Nell’androne trova la sua vecchia bicicletta, la spinge fuori a mano e chiude il portone. Dopo che gli inquilini hanno protestato perché di notte restava spesso aperto Franz lo chiude sempre. Con molta attenzione. Quando è fuori guarda il cielo, quello spicchio di buio così diverso dal buio che c’è in casa la notte, quell’angolo di spazio libero, aperto a chiunque voglia affacciarsi a guardar giù. Fissa bene il bocciolo al manubrio e monta. Le prime pedalate sono incerte, titubanti, ma mentre si addentra per i vicoli sempre più ostruiti di macchine Franz acquista velocità e sicurezza. La gente si ferma a guardarlo, un vecchio in smoking con una rosa sul manubrio che pedala per le vie del centro a mezzanotte non è cosa consueta, ma Franz non ci fa caso, va per la sua strada, sa bene quello che vuole, niente può fermarlo. Una bancarella di angurie rosse illumina il fondo della via, Franz fa un cenno con la mano al venditore, un paio di gatti lo fanno passare prima di stendersi al centro della piazza, due ragazzi si baciano appoggiati ad un portone. Franz prosegue e quando sta per arrivare a destinazione rallenta, riprende fiato, si asciuga il sudore dalla fronte e ricorda. Ricorda una notte simile, un ragazzo di vent’anni veri, una passeggiata solitaria e un viso comparso dal nulla, capelli neri più blu del cielo, un corpo minuto ma fiero, occhi sorridenti e bocca seria imbronciata. “Ciao” aveva detto Franz. “Ciao” aveva risposto lei continuando a sorridere con gli occhi e serrando le labbra, “Sei più bella di una rosa” aveva continuato Franz. Lei aveva abbassato gli occhi e aveva riso dicendo “E’ perché non hai con te una rosa, altrimenti potresti vedere che non è vero”: Franz aveva scosso la testa, ma lei aveva continuato a non guardarlo, così le era sfuggito quel gesto deciso. “Domani verrò con una rosa, così ti dimostrerò che non è vero, vediamoci qui domani alla stessa ora…” aveva proposto Franz, stupito lui stesso da tanto coraggio, quando mai aveva parlato così ad una ragazza? “Non posso venire a quest’ora…” aveva risposto lei indietreggiando. “Alle otto allora …” . “No, non posso”. “Alle nove …”. “Non posso proprio!”. “Alle dieci, dai, alle dieci!”. “No, ti ho detto che …”. “Alle undici?”. “Ma no, guarda, davvero non è possibile …”. “A mezzanotte, ti prego …”. “A mezzanotte? Ma …”. “A mezzanotte allora!” aveva chiuso la discussione Franz. “Ti aspetterò qui a mezzanotte, con la rosa”. Lei aveva scosso la testa allontanandosi ancora di più. “I miei non mi lasceranno mai venire, mi spiace…”. “A mezzanotte, ricorda, ti aspetterò ogni sera a mezzanotte, ti aspetterò!” aveva replicato Franz per nulla scoraggiato dal rifiuto di lei. Aveva guardato le spalle della ragazza che si allontanava aspettando che si voltasse e quando lei lo aveva fatto aveva visto un sorriso su quel volto delizioso, o forse una lacrima, chissà, Franz non ricorda bene, è passato tanto tempo, e comunque un attimo dopo anche l’ombra di quell’apparizione era scomparsa, perduta nel vuoto della piazza. Franz aveva aspettato qualche minuto prima di muoversi, c’era ancora il profumo di lei lì intorno e lui voleva respirarlo tutto. Poi aveva dato un calcio ad un barattolo e si era incamminato verso casa, si era fatta ora di cena ormai. La sera dopo ovviamente era tornato, e così quella dopo ancora, fino ad oggi, ogni sera a mezzanotte Franz torna lì ad aspettare quel profumo, quel sorriso, quel sogno. L’ha chiamata Elisa, e le parla quando decide di mangiare seduto a tavola. Le racconta il su passato e il suo futuro, il perché sì e il perché no della sua vita. E’ mezzanotte meno un minuto quando Franz entra nella piazza. Pedala rapidamente, si avvicina cercando di rimanere ben eretto sul sellino. Lei è lì, sta salendo su una macchina, Ha i capelli neri più blu del cielo, un corpo minuto ma fiero, occhi sorridenti e bocca seria, imbronciata. Guarda Franz e la sua rosa sul manubrio. Franz scende e si avvicina. “La tua rosa … vedi, è meno bella di te ….” Dice porgendola alla ragazza. Lei sorride imbarazzata, mormora “Grazie” annusando il bocciolo, guarda Franz. “Grazie a te per essere venuta …” dice lui risalendo in bicicletta. In pochi minuti è a casa. Anche stasera Elisa è andata all’appuntamento e Franz non potrebbe chiedere di più alla vita. Lascia la bicicletta appoggiata al muro e chiude il portone. Poi sale fino a casa. Si spoglia lentamente e si sdraia. Ha il viso e la schiena sudati, la testa gli gira un po’, ma se chiude gli occhi va meglio. Non è ben certo che il suo cuore stia ancora battendo, ma che importa?
Si alza ogni sera alle undici. Né un minuto prima né un minuto dopo. La precisione per lui è importante, la puntualità determinante. Cinque minuti di ritardo e potrebbe saltar tutto, potrebbe sfumare quell’appuntamento atteso con ansia per tutto il giorno. Le ore sferzate dalla luce del sole si dilatano, scorrono lente, lentissime, Franz sente le proprie ossa invecchiare e ogni scricchiolio lo preoccupa più del precedente, ma quando la luce del giorno diminuisce ed il cielo accende le proprie fiammelle lui ritrova tutta la sua energia e anche il respiro si fa più regolare. Quando non è proprio necessario durante il giorno Franz non esce. Non servirebbe: Se ne sta seduto nella sua poltrona a leggere qualcosa fin quando non sente gli occhi protestare, allora smette. Guarda l’ora e si accorge di avere ancora tante ore da far passare. Mangiare non è un problema per lui, mette sul fuoco una pentola con dell’acqua cala un pugno di pasta ed è fatta, un giorno asciutta e un giorno come minestra, anche il pranzo è sistemato. Per la cena schiaccia un paio di patate lesse, oppure prende una tazza di latte con i biscotti, come un bambino. Neanche la solitudine gli pesa più di tanto, ci è abituato, sa come si fa a mangiare senza avere qualcuno di fronte, conosce tutti i trucchi, tutti gli stratagemmi per on pensarci. E poi nessuno o obbliga a sedersi a tavola, e infatti speso non lo fa, se ne resta raggomitolato sulla poltrona e si sbrodola un po’ nel tentare di tenere ferma la scodella con le mani tremanti. Se solo le ore di luce scorressero più veloci, se non dovesse passare ogni giorno attraverso quei minuti inutili e le undici arrivassero in uno schioccar di dita allora Franz non potrebbe desiderare di più. Comunque c’è solo da aver pazienza, prima poi le undici arrivano sempre. E allora può alzarsi lentamente da letto dove si era steso dopo cena per accumulare le forze, recuperare un respiro regolare e preparare il caffè. Solo un goccio, certo, ma ci vuole proprio. Indossa la camicia e con attenzione allaccia i gemelli. Poi fa il nodo al papillon. Prima lo portava sempre nero, ma ultimamente ne ha comprati alcuni a pois e gli piace quel tocco di nuovo, lo fa sentire più giovane, più giovane dei suoi vent’anni più pochi spiccioli spesi senza risparmi, e non sempre nei posti giusti. Il caffè lo beve prima di indossare la giacca dello smoking, in maniche di camicia, poi pettina con cura i resti di un esercito un tempo folto e ribelle e finalmente è pronto: D’inverno indossa un cappotto di cammello molto elegante, una fortunata liquidazione di qualche anno prima che resiste orgogliosa agli attacchi atmosferici. Ma ora che la notte ha il profumo di luglio inoltrato non ne ha bisogno. Deve solo togliere dal vaso il bocciolo di rosa e asciugarne il gambo. Poi può uscire, Scende le scale vicino alla ringhiera, a quell’ora è buio e una caduta alla sua età sarebbe fatale. Nell’androne trova la sua vecchia bicicletta, la spinge fuori a mano e chiude il portone. Dopo che gli inquilini hanno protestato perché di notte restava spesso aperto Franz lo chiude sempre. Con molta attenzione. Quando è fuori guarda il cielo, quello spicchio di buio così diverso dal buio che c’è in casa la notte, quell’angolo di spazio libero, aperto a chiunque voglia affacciarsi a guardar giù. Fissa bene il bocciolo al manubrio e monta. Le prime pedalate sono incerte, titubanti, ma mentre si addentra per i vicoli sempre più ostruiti di macchine Franz acquista velocità e sicurezza. La gente si ferma a guardarlo, un vecchio in smoking con una rosa sul manubrio che pedala per le vie del centro a mezzanotte non è cosa consueta, ma Franz non ci fa caso, va per la sua strada, sa bene quello che vuole, niente può fermarlo. Una bancarella di angurie rosse illumina il fondo della via, Franz fa un cenno con la mano al venditore, un paio di gatti lo fanno passare prima di stendersi al centro della piazza, due ragazzi si baciano appoggiati ad un portone. Franz prosegue e quando sta per arrivare a destinazione rallenta, riprende fiato, si asciuga il sudore dalla fronte e ricorda. Ricorda una notte simile, un ragazzo di vent’anni veri, una passeggiata solitaria e un viso comparso dal nulla, capelli neri più blu del cielo, un corpo minuto ma fiero, occhi sorridenti e bocca seria imbronciata. “Ciao” aveva detto Franz. “Ciao” aveva risposto lei continuando a sorridere con gli occhi e serrando le labbra, “Sei più bella di una rosa” aveva continuato Franz. Lei aveva abbassato gli occhi e aveva riso dicendo “E’ perché non hai con te una rosa, altrimenti potresti vedere che non è vero”: Franz aveva scosso la testa, ma lei aveva continuato a non guardarlo, così le era sfuggito quel gesto deciso. “Domani verrò con una rosa, così ti dimostrerò che non è vero, vediamoci qui domani alla stessa ora…” aveva proposto Franz, stupito lui stesso da tanto coraggio, quando mai aveva parlato così ad una ragazza? “Non posso venire a quest’ora…” aveva risposto lei indietreggiando. “Alle otto allora …” . “No, non posso”. “Alle nove …”. “Non posso proprio!”. “Alle dieci, dai, alle dieci!”. “No, ti ho detto che …”. “Alle undici?”. “Ma no, guarda, davvero non è possibile …”. “A mezzanotte, ti prego …”. “A mezzanotte? Ma …”. “A mezzanotte allora!” aveva chiuso la discussione Franz. “Ti aspetterò qui a mezzanotte, con la rosa”. Lei aveva scosso la testa allontanandosi ancora di più. “I miei non mi lasceranno mai venire, mi spiace…”. “A mezzanotte, ricorda, ti aspetterò ogni sera a mezzanotte, ti aspetterò!” aveva replicato Franz per nulla scoraggiato dal rifiuto di lei. Aveva guardato le spalle della ragazza che si allontanava aspettando che si voltasse e quando lei lo aveva fatto aveva visto un sorriso su quel volto delizioso, o forse una lacrima, chissà, Franz non ricorda bene, è passato tanto tempo, e comunque un attimo dopo anche l’ombra di quell’apparizione era scomparsa, perduta nel vuoto della piazza. Franz aveva aspettato qualche minuto prima di muoversi, c’era ancora il profumo di lei lì intorno e lui voleva respirarlo tutto. Poi aveva dato un calcio ad un barattolo e si era incamminato verso casa, si era fatta ora di cena ormai. La sera dopo ovviamente era tornato, e così quella dopo ancora, fino ad oggi, ogni sera a mezzanotte Franz torna lì ad aspettare quel profumo, quel sorriso, quel sogno. L’ha chiamata Elisa, e le parla quando decide di mangiare seduto a tavola. Le racconta il su passato e il suo futuro, il perché sì e il perché no della sua vita. E’ mezzanotte meno un minuto quando Franz entra nella piazza. Pedala rapidamente, si avvicina cercando di rimanere ben eretto sul sellino. Lei è lì, sta salendo su una macchina, Ha i capelli neri più blu del cielo, un corpo minuto ma fiero, occhi sorridenti e bocca seria, imbronciata. Guarda Franz e la sua rosa sul manubrio. Franz scende e si avvicina. “La tua rosa … vedi, è meno bella di te ….” Dice porgendola alla ragazza. Lei sorride imbarazzata, mormora “Grazie” annusando il bocciolo, guarda Franz. “Grazie a te per essere venuta …” dice lui risalendo in bicicletta. In pochi minuti è a casa. Anche stasera Elisa è andata all’appuntamento e Franz non potrebbe chiedere di più alla vita. Lascia la bicicletta appoggiata al muro e chiude il portone. Poi sale fino a casa. Si spoglia lentamente e si sdraia. Ha il viso e la schiena sudati, la testa gli gira un po’, ma se chiude gli occhi va meglio. Non è ben certo che il suo cuore stia ancora battendo, ma che importa?
Una Domenica a Pesca
Sono partiti con il buio, e faceva anche freddo, ma nessuno dei due si è lamentato. L’imbarazzo che supera il volume della radio ha sorpreso entrambi. Magari si aspettavano rabbia e aggressività, ma quel muro di disagio li spiazza. Mark spia Junior con la coda dell’occhio e vede che sbadiglia a denti stretti . “Sonno figliolo?” domanda allegramente. “No papà …” replica junior inghiottendo sonnolenza ed impaccio. “Sarà una bellissima giornata, il sole sta già nascendo …” prosegue Mark senza più guardare il figlio, quel ragazzo ombroso e solitario che nonostante tutto è suo figlio. “Certo papà…” replica Junior, un’occhiata a contachilometri ed una alle mani nodose del padre, mani che non conosce e non ricorda. “Passami i cappello, la luce comincia a darmi fastidio …” dice Mark sbattendo gli occhi celesti, occhi sinceri e senza segreti. Junior si allunga sul sedile posteriore della station wagon e recupera il cappello da pesca del padre. Ha i soliti ami appesi ed è logoro, lo vede da così tanti anni che in mezzo ad un folla probabilmente metterebbe prima a fuoco il cappello poi suo padre. Lui non usa cappelli, non ama la pesca e men che meno i festosi rituali di suo padre, ma non glielo dirà mai, continuerà ad accompagnarlo al fiume due o tre domeniche al mese e a pescare qualche trota. Quando arrivano l’aria è ancora fresca, ma già si sente che di lì a poco il sole tenace di settembre sconvolgerà quel delizioso venticello. Junior stiracchia il corpo magro, senza muscoli e senza voglia di averne. Gli basta guardare le braccia possenti di suo padre per evitare palestre e simili. Tutta quella forza fisica gli da la nausea, così inutile, e così maledettamente superba. I suoi occhi, scuri come caverne notturne, scrutano i movimenti sicuri di Mark, le sue mosse abili, i muscoli abbronzati tesi per lo sforzo, i capelli biondi mossi dal vento, la pelle bruciata dal sole. Ancora una volta si chiede chi sia quell’energico uomo di quasi due metri, che rapporto abbia con lui, con i suoi silenzi, con i suoi dubbi. Come potrebbe dubitare di qualcosa Mark, con quelle spalle salde, quelle gambe incollate alla terra, quel sorriso vero? Junior si infila gli stivaloni e prende la canna da pesca. Fa tutto in silenzio, non deve imparare più niente, quindi non può chiedere più niente. “Tutto a posto figliolo?”chiede Mark prima di avviarsi. Ha bisogno di chiederlo, il volto senza emozioni di Junior non può essere una risposta. Evita di ricordare se stesso a sedici anni, ma anche così prova una gran rabbia. Cosa impedisce a quel ragazzo di esplodere, di vivere? Perché se ne sta arrotolato su se stesso? Di che cosa ha bisogno? “Sì papà, arrivo … Junior segue suo padre, quando raggiungono il fiume si sistemano vicino, ma non troppo, non come se fossero due amici, o anche due semplici conoscenti. Mark fischietta allegramente mentre prepara l’esca e getta la lenza, Junior invece è concentrato sui propri gesti, sa che la noia potrebbe fargli compiere qualche errore e non vuole che i padre se ne accorga, perché deluderlo ancora? Il suo sguardo è già abbastanza rassegnato perché debba aggiungerci anche l’orrore per una canna impigliata ad un ramo o qualcosa del genere. Ora dovrebbero parlare, ma di che? A casa è diverso, Junior è quasi sempre in camera a studiare o sentire musica, e Mark quando torna dal lavoro ha sempre qualcosa da fare. Si incontrano a tavola, dove inevitabilmente Mark cerca di coinvolgere Junior in qualcosa di divertente e inevitabilmente Junior cerca di sottrarsi senza indispettire troppo suo padre. Mark è un uomo semplice, spesso chiede al figlio di fargli compagnia quando va a giocare a bowling o a biliardo con gli amici, pensa che sarebbe un modo come un altro per farlo distrarre, ma Junior non ci va mai, ormai solo le gite domenicali li uniscono, ammesso che in quel silenzio rotto solo dallo scorrere lento del fiume non siamo più soli del solito. Mark ha già preso parecchie trote, Junior solo una, ma di certo non si sente in competizione con suo padre, loro sono iscritti a due gare diverse, da sempre, e poco conta che la vita sia una sola. Ogni volta che sente l’urlo di gioia di Mark Junior serra la mascella, non sa come partecipare, come condividere la felicità del padre, perché non è la sua. Prova ancora a capire chi gli sta accanto, chi gli ha dato la vita, prova a resistere a quella furente voglia di odiarlo, a trattenere il risentimento, il disprezzo, ma basta che lo guardi, o che lui con la sua esuberanza fisica si avvicini perché la paura di diventare come lui lo sttanagli. Mark non vede tutto ciò negli occhi del figlio, però ogni volta che quello sguardo estraneo lo sfiora si sente solo, come non lo è mai stato. Anche quando sono vicini non avverte la sua presenza, non può dargli una pacca sulla spalla, o toccarlo Junior gli è fisicamente ostile, scappa lontano appena può, e non porta gli amici a casa. Si vergogna di lui. “Che ne dici di accendere il fuoco?” propone Mark quando non riesce più a sopportare il silenzio. “Possiamo arrostire un paio di trote per pranzo, ti va?”. “D’accordo, ritiro la lenza …” dice Junior alzandosi. Ricorda che nei film quando si accende un fuoco è sempre un momento allegro, di partecipazione e di affiatamento, ma Junior non sa cosa voglia dire, anche se di fuochi ne ha accesi parecchi. Guarda le mani di suo padre e rabbrividisce. Mark pulisce il pesce con destrezza, i suoi gesti sono allegri, vitali. Un lavoro pulito, rapido. Il lavoro di un uomo d’azione, che ha sempre lavorato sodo, e che ha sempre portato lo stipendio a casa. Junior si allontana e guarda le proprie mani. Le unghie mangiate e la pelle bianca. Mani inutili, mani vuote. Mark spia il gesto del figlio e lo imita, guarda le proprie mani piene di calli e si vergogna. Sa che voler bene a Junior non basta, ma lui non può fare di più, non sa fare di più. Junior si gira. Mark per un istante rivede lo sguardo della moglie, la stessa forza e a stessa dolcezza che da anni sono scomparse dalla sua vita. Sorride al figlio serenamente, dandogli tutto quello che ha, un amore immenso, che non giudica e non pretende. Junior ricorda sua madre già pallida dire “Papà ha un sorriso che non mente, potrai sempre fidarti di quel sorriso …” e si avvicina al fuoco, inaspettatamente pronto a conoscere quel sorriso, e fargli conoscere la propria paura.
Sono partiti con il buio, e faceva anche freddo, ma nessuno dei due si è lamentato. L’imbarazzo che supera il volume della radio ha sorpreso entrambi. Magari si aspettavano rabbia e aggressività, ma quel muro di disagio li spiazza. Mark spia Junior con la coda dell’occhio e vede che sbadiglia a denti stretti . “Sonno figliolo?” domanda allegramente. “No papà …” replica junior inghiottendo sonnolenza ed impaccio. “Sarà una bellissima giornata, il sole sta già nascendo …” prosegue Mark senza più guardare il figlio, quel ragazzo ombroso e solitario che nonostante tutto è suo figlio. “Certo papà…” replica Junior, un’occhiata a contachilometri ed una alle mani nodose del padre, mani che non conosce e non ricorda. “Passami i cappello, la luce comincia a darmi fastidio …” dice Mark sbattendo gli occhi celesti, occhi sinceri e senza segreti. Junior si allunga sul sedile posteriore della station wagon e recupera il cappello da pesca del padre. Ha i soliti ami appesi ed è logoro, lo vede da così tanti anni che in mezzo ad un folla probabilmente metterebbe prima a fuoco il cappello poi suo padre. Lui non usa cappelli, non ama la pesca e men che meno i festosi rituali di suo padre, ma non glielo dirà mai, continuerà ad accompagnarlo al fiume due o tre domeniche al mese e a pescare qualche trota. Quando arrivano l’aria è ancora fresca, ma già si sente che di lì a poco il sole tenace di settembre sconvolgerà quel delizioso venticello. Junior stiracchia il corpo magro, senza muscoli e senza voglia di averne. Gli basta guardare le braccia possenti di suo padre per evitare palestre e simili. Tutta quella forza fisica gli da la nausea, così inutile, e così maledettamente superba. I suoi occhi, scuri come caverne notturne, scrutano i movimenti sicuri di Mark, le sue mosse abili, i muscoli abbronzati tesi per lo sforzo, i capelli biondi mossi dal vento, la pelle bruciata dal sole. Ancora una volta si chiede chi sia quell’energico uomo di quasi due metri, che rapporto abbia con lui, con i suoi silenzi, con i suoi dubbi. Come potrebbe dubitare di qualcosa Mark, con quelle spalle salde, quelle gambe incollate alla terra, quel sorriso vero? Junior si infila gli stivaloni e prende la canna da pesca. Fa tutto in silenzio, non deve imparare più niente, quindi non può chiedere più niente. “Tutto a posto figliolo?”chiede Mark prima di avviarsi. Ha bisogno di chiederlo, il volto senza emozioni di Junior non può essere una risposta. Evita di ricordare se stesso a sedici anni, ma anche così prova una gran rabbia. Cosa impedisce a quel ragazzo di esplodere, di vivere? Perché se ne sta arrotolato su se stesso? Di che cosa ha bisogno? “Sì papà, arrivo … Junior segue suo padre, quando raggiungono il fiume si sistemano vicino, ma non troppo, non come se fossero due amici, o anche due semplici conoscenti. Mark fischietta allegramente mentre prepara l’esca e getta la lenza, Junior invece è concentrato sui propri gesti, sa che la noia potrebbe fargli compiere qualche errore e non vuole che i padre se ne accorga, perché deluderlo ancora? Il suo sguardo è già abbastanza rassegnato perché debba aggiungerci anche l’orrore per una canna impigliata ad un ramo o qualcosa del genere. Ora dovrebbero parlare, ma di che? A casa è diverso, Junior è quasi sempre in camera a studiare o sentire musica, e Mark quando torna dal lavoro ha sempre qualcosa da fare. Si incontrano a tavola, dove inevitabilmente Mark cerca di coinvolgere Junior in qualcosa di divertente e inevitabilmente Junior cerca di sottrarsi senza indispettire troppo suo padre. Mark è un uomo semplice, spesso chiede al figlio di fargli compagnia quando va a giocare a bowling o a biliardo con gli amici, pensa che sarebbe un modo come un altro per farlo distrarre, ma Junior non ci va mai, ormai solo le gite domenicali li uniscono, ammesso che in quel silenzio rotto solo dallo scorrere lento del fiume non siamo più soli del solito. Mark ha già preso parecchie trote, Junior solo una, ma di certo non si sente in competizione con suo padre, loro sono iscritti a due gare diverse, da sempre, e poco conta che la vita sia una sola. Ogni volta che sente l’urlo di gioia di Mark Junior serra la mascella, non sa come partecipare, come condividere la felicità del padre, perché non è la sua. Prova ancora a capire chi gli sta accanto, chi gli ha dato la vita, prova a resistere a quella furente voglia di odiarlo, a trattenere il risentimento, il disprezzo, ma basta che lo guardi, o che lui con la sua esuberanza fisica si avvicini perché la paura di diventare come lui lo sttanagli. Mark non vede tutto ciò negli occhi del figlio, però ogni volta che quello sguardo estraneo lo sfiora si sente solo, come non lo è mai stato. Anche quando sono vicini non avverte la sua presenza, non può dargli una pacca sulla spalla, o toccarlo Junior gli è fisicamente ostile, scappa lontano appena può, e non porta gli amici a casa. Si vergogna di lui. “Che ne dici di accendere il fuoco?” propone Mark quando non riesce più a sopportare il silenzio. “Possiamo arrostire un paio di trote per pranzo, ti va?”. “D’accordo, ritiro la lenza …” dice Junior alzandosi. Ricorda che nei film quando si accende un fuoco è sempre un momento allegro, di partecipazione e di affiatamento, ma Junior non sa cosa voglia dire, anche se di fuochi ne ha accesi parecchi. Guarda le mani di suo padre e rabbrividisce. Mark pulisce il pesce con destrezza, i suoi gesti sono allegri, vitali. Un lavoro pulito, rapido. Il lavoro di un uomo d’azione, che ha sempre lavorato sodo, e che ha sempre portato lo stipendio a casa. Junior si allontana e guarda le proprie mani. Le unghie mangiate e la pelle bianca. Mani inutili, mani vuote. Mark spia il gesto del figlio e lo imita, guarda le proprie mani piene di calli e si vergogna. Sa che voler bene a Junior non basta, ma lui non può fare di più, non sa fare di più. Junior si gira. Mark per un istante rivede lo sguardo della moglie, la stessa forza e a stessa dolcezza che da anni sono scomparse dalla sua vita. Sorride al figlio serenamente, dandogli tutto quello che ha, un amore immenso, che non giudica e non pretende. Junior ricorda sua madre già pallida dire “Papà ha un sorriso che non mente, potrai sempre fidarti di quel sorriso …” e si avvicina al fuoco, inaspettatamente pronto a conoscere quel sorriso, e fargli conoscere la propria paura.
Una Giornata Qualunque
Una giornata qualunque. In tutto e per tutto normale. Probabilmente la troveresti banale. Stando qui ti annoieresti. E vorresti essere altrove. Guarderesti l’orologio ogni cinque minuti e sbufferesti in maniera esagerata per farti notare. Io l’orologio non l’ho neanche caricato. Né ieri né oggi. Solo la radio sveglia continua il suo concerto rock ogni mattina. Vorrei staccarla, ma il filo elettrico è collegato ad altri aggeggi e non sono mi stato un mago nei lavori manuali. Forse anche negli altri. Stamattina uscendo di casa ho dato solo due mandate, alla serratura di sotto. Il primo autobus era troppo affollato, così l’ho lasciato passare, anche se era proprio freddo sotto quella pensilina. Il secondo l’ho preso al volo, salendo dalla porta centrale, e non ho timbrato il biglietto. A proposito, ho scoperto che c’è la data su quel timbro, nella giacca verde di tweed ho trovato un biglietto del primo marzo dell’anno scorso. Ma forse tu non ricordi la giacca verde. In effetti non fa granché per essere ricordata. Svolta gli angoli silenziosamente , insieme a me, tutto qua. Arrivando in ufficio ho sentito nei miei capelli odore di freddo, quell’odore secco d’inverno che ogni anno torna a ricordarmi di comprare la legna per il camino. L’ho annusato a lungo, penando a come descrivertelo. Ma non c’è molto da dire, se non che è l’odore del freddo. E che lo sentivo nei tuoi capelli quando rientravi la sera. Il caldo non ce l’ha un odore, il freddo invece sì, ed è fortissimo, più persistente di un profumo di marca, e lo senti anche toccandoti le mani screpolate. La legna però non l’ho comprata, ho cercato sulla rubrica il numero del vecchio fornitore, ma non ricordo il suo nome. Da un anno all’altro, dovrei preoccuparmi? Non è l’unica cosa che ho dimenticato, ma per le altre il discorso è diverso. Ho bevuto solo tre caffè oggi. Uno senza zucchero come piace a te. L‘ho preso così apposta, per avere in bocca il tuo stesso sapore. Non mi è piaciuto però. Sta piovendo ora. La grondaia fa un rumore d’inferno e non mi lascia dormire. Anche per questo ti scrivo. Anche. Ha cominciato nel primo pomeriggio a piovere, e non ha più smesso. Le strade erano così lucide mentre tornavo a casa che mi hanno ricordato le luci intermittenti dei nostri primo alberi di Natale, Non funzionavano mai troppo bene però, vero? E anche gli alberi erano sempre un po’storti. Perché compravi ogni anno alberi un po’ storti? Me lo sono sempre chiesto, stasera di più. Forse allora non è proprio una giornata qualunque, se torno a domandarmi qualcosa non lo è. Ma sì che lo è. Magari anche di più. Ricordi le domande? Quelle imbarazzanti che mi piacevano tanto. Cercavi di mettermi in difficoltà e ti trovavi davanti un sorriso compiaciuto. Ti mandava in bestia, lo so, e lo sapevo anche allora, ma non puoi capire quanto era affascinante cercare una scappatoia nella verità mentre tu scavavi a fondo, era adrenalina in circolo, la stessa che ora riposa sotto pelle. Ho pensato di fermare una ragazza oggi, proprio sotto casa. Poi ho visto la torretta ricoperta d’edera e mi sono distratto. Perché è tutta spoglia ora. Le foglie rosse fino a ieri la ricoprivano interamente e in un paio d’ore pioggia e vento gliele hanno strappate via violentemente. Un peccato, perché era proprio bella. La ragazza intendo. Ma anche la torretta. Domattina le foglie saranno tutte a terra, pestandone una già secca sentirò uno scricchiolio di ossa rotte sotto il piede e mi chiederò se siano le mie. Vuoi che te raccolga qualcuna, di foglie voglio dire lo facevi sempre in autunno, per ricordarti dell’autunno dicevi, ma vuoi davvero ricordarti di quest’autunno? Io non lo so. Quando la pioggia mi ha sorpreso a pochi passi dall’ufficio me lo sono chiesto - quante domande oggi, le risposte dove stanno, in quale cassetto le hai messe? Avrei potuto tornare indietro e prendere un ombrello, ma non l’ho fatto. Ho rovinato la giacca verde di tweed che tu, adesso ne sono certo, non ricordi, e anche i pantaloni non hanno un bell’aspetto. Però mi ricorderò di quest’autunno. Di quando entrando in casa ho starnutito e ho lasciato impronte bagnate fino in bagno. Stanno ancora lì, ma non mi sembra grave. Sai una cosa? Non è poi così terribile star qui stasera, anche se ala televisione non c’è niente che mi vada di vedere e di magiare non ne abbia voglia appena la grondaia smetterà di fare rumore andrò a letto, o magari invece girerò per casa con una tazza di thè bollente in mano. Ne berrò solo un sorso, e lo sai, ma mi scalderò le mani. Girerò in tondo ascoltando Gershwin e non sarà una notte tanto male. Però non so se ti spedirò questa lettera, dico davvero. Se lo farò perdonami. Se non lo farò perdonami lo stesso. Forse non so più chiedere scusa, però un tempo ero bravissimo, questo lo ricordi di sicuro. Ha suonato il telefono poco fa, ma avevano sbagliato. A volte ho il sospetto che dicano “ho sbagliato” anche se volevano parlare proprio con me. Che cambino idea improvvisamente. L’hai mai fatto, di formare il numero e poi, sentendo la mia voce, attaccare? Io sì, più di una volta, e magari lo farò anche stanotte, se Gershwin non dovesse bastare. Stacca la spina finchè sei in tempo, io non dirò nulla, lo sai. Chiunque risponda. Chiunque mi mandi a quel paese. Non reagirò. Come non ho reagito quando sei scivolata via portando con te la nostra vita. E non l’ho fatto perché così avrei potuto continuare a credere che se avessi reagito ti saresti fermata. Una pazzia vero? Ma a qualche sogno bisogna pur aggrapparsi quando l’alba si avvicina. Mi chiederai perché ti dico questo, perché continuo a lasciare aperta la porta di casa con questo tempaccio. Non c’è nessun gatto pentito che deve tornare e non c’ è niente di eccezionale nelle mie giornate. Proprio come quella di oggi. Una giornata qualunque. In tutto e per tutto normale. Solo che tu non sei qui e volevo che lo sapessi.
Una giornata qualunque. In tutto e per tutto normale. Probabilmente la troveresti banale. Stando qui ti annoieresti. E vorresti essere altrove. Guarderesti l’orologio ogni cinque minuti e sbufferesti in maniera esagerata per farti notare. Io l’orologio non l’ho neanche caricato. Né ieri né oggi. Solo la radio sveglia continua il suo concerto rock ogni mattina. Vorrei staccarla, ma il filo elettrico è collegato ad altri aggeggi e non sono mi stato un mago nei lavori manuali. Forse anche negli altri. Stamattina uscendo di casa ho dato solo due mandate, alla serratura di sotto. Il primo autobus era troppo affollato, così l’ho lasciato passare, anche se era proprio freddo sotto quella pensilina. Il secondo l’ho preso al volo, salendo dalla porta centrale, e non ho timbrato il biglietto. A proposito, ho scoperto che c’è la data su quel timbro, nella giacca verde di tweed ho trovato un biglietto del primo marzo dell’anno scorso. Ma forse tu non ricordi la giacca verde. In effetti non fa granché per essere ricordata. Svolta gli angoli silenziosamente , insieme a me, tutto qua. Arrivando in ufficio ho sentito nei miei capelli odore di freddo, quell’odore secco d’inverno che ogni anno torna a ricordarmi di comprare la legna per il camino. L’ho annusato a lungo, penando a come descrivertelo. Ma non c’è molto da dire, se non che è l’odore del freddo. E che lo sentivo nei tuoi capelli quando rientravi la sera. Il caldo non ce l’ha un odore, il freddo invece sì, ed è fortissimo, più persistente di un profumo di marca, e lo senti anche toccandoti le mani screpolate. La legna però non l’ho comprata, ho cercato sulla rubrica il numero del vecchio fornitore, ma non ricordo il suo nome. Da un anno all’altro, dovrei preoccuparmi? Non è l’unica cosa che ho dimenticato, ma per le altre il discorso è diverso. Ho bevuto solo tre caffè oggi. Uno senza zucchero come piace a te. L‘ho preso così apposta, per avere in bocca il tuo stesso sapore. Non mi è piaciuto però. Sta piovendo ora. La grondaia fa un rumore d’inferno e non mi lascia dormire. Anche per questo ti scrivo. Anche. Ha cominciato nel primo pomeriggio a piovere, e non ha più smesso. Le strade erano così lucide mentre tornavo a casa che mi hanno ricordato le luci intermittenti dei nostri primo alberi di Natale, Non funzionavano mai troppo bene però, vero? E anche gli alberi erano sempre un po’storti. Perché compravi ogni anno alberi un po’ storti? Me lo sono sempre chiesto, stasera di più. Forse allora non è proprio una giornata qualunque, se torno a domandarmi qualcosa non lo è. Ma sì che lo è. Magari anche di più. Ricordi le domande? Quelle imbarazzanti che mi piacevano tanto. Cercavi di mettermi in difficoltà e ti trovavi davanti un sorriso compiaciuto. Ti mandava in bestia, lo so, e lo sapevo anche allora, ma non puoi capire quanto era affascinante cercare una scappatoia nella verità mentre tu scavavi a fondo, era adrenalina in circolo, la stessa che ora riposa sotto pelle. Ho pensato di fermare una ragazza oggi, proprio sotto casa. Poi ho visto la torretta ricoperta d’edera e mi sono distratto. Perché è tutta spoglia ora. Le foglie rosse fino a ieri la ricoprivano interamente e in un paio d’ore pioggia e vento gliele hanno strappate via violentemente. Un peccato, perché era proprio bella. La ragazza intendo. Ma anche la torretta. Domattina le foglie saranno tutte a terra, pestandone una già secca sentirò uno scricchiolio di ossa rotte sotto il piede e mi chiederò se siano le mie. Vuoi che te raccolga qualcuna, di foglie voglio dire lo facevi sempre in autunno, per ricordarti dell’autunno dicevi, ma vuoi davvero ricordarti di quest’autunno? Io non lo so. Quando la pioggia mi ha sorpreso a pochi passi dall’ufficio me lo sono chiesto - quante domande oggi, le risposte dove stanno, in quale cassetto le hai messe? Avrei potuto tornare indietro e prendere un ombrello, ma non l’ho fatto. Ho rovinato la giacca verde di tweed che tu, adesso ne sono certo, non ricordi, e anche i pantaloni non hanno un bell’aspetto. Però mi ricorderò di quest’autunno. Di quando entrando in casa ho starnutito e ho lasciato impronte bagnate fino in bagno. Stanno ancora lì, ma non mi sembra grave. Sai una cosa? Non è poi così terribile star qui stasera, anche se ala televisione non c’è niente che mi vada di vedere e di magiare non ne abbia voglia appena la grondaia smetterà di fare rumore andrò a letto, o magari invece girerò per casa con una tazza di thè bollente in mano. Ne berrò solo un sorso, e lo sai, ma mi scalderò le mani. Girerò in tondo ascoltando Gershwin e non sarà una notte tanto male. Però non so se ti spedirò questa lettera, dico davvero. Se lo farò perdonami. Se non lo farò perdonami lo stesso. Forse non so più chiedere scusa, però un tempo ero bravissimo, questo lo ricordi di sicuro. Ha suonato il telefono poco fa, ma avevano sbagliato. A volte ho il sospetto che dicano “ho sbagliato” anche se volevano parlare proprio con me. Che cambino idea improvvisamente. L’hai mai fatto, di formare il numero e poi, sentendo la mia voce, attaccare? Io sì, più di una volta, e magari lo farò anche stanotte, se Gershwin non dovesse bastare. Stacca la spina finchè sei in tempo, io non dirò nulla, lo sai. Chiunque risponda. Chiunque mi mandi a quel paese. Non reagirò. Come non ho reagito quando sei scivolata via portando con te la nostra vita. E non l’ho fatto perché così avrei potuto continuare a credere che se avessi reagito ti saresti fermata. Una pazzia vero? Ma a qualche sogno bisogna pur aggrapparsi quando l’alba si avvicina. Mi chiederai perché ti dico questo, perché continuo a lasciare aperta la porta di casa con questo tempaccio. Non c’è nessun gatto pentito che deve tornare e non c’ è niente di eccezionale nelle mie giornate. Proprio come quella di oggi. Una giornata qualunque. In tutto e per tutto normale. Solo che tu non sei qui e volevo che lo sapessi.