Esercizi di Pazzia
Primo Capitolo
Uno spietato raggio di luce trafigge il cuscino, e la mia pelle, e ogni piega calda del lenzuolo. Annuncia distrattamente la fine dell’ ostilità notturna, di quella battaglia impari fra deliri compiaciuti e ricordi impauriti. Ho paura a rivolgerti la parola, sento che la tua presenza ossessiva e impossibile potrebbe iniziare a darmi conforto, a sferzare questo silenzio rotto solo dall’eco delle mie grida in un corridoio asettico e sanguinante. E anche se la tua voce è di ostacolo al mio progetto di scomparire nel nulla della pazzia e mi incalza con maligna forza nel regno dei vivi inizio a non pentirmi di aver accolto il Frankenstein di te che hai inviato da qualche giorno. E quando mi parli, come adesso, chiedendomi di specchiarmi, e di lavarmi, e di vestirmi, è come se da quel corridoio tu fossi tornato indietro in un cono di luce, invece che esserne inghiottito nel gelo della morte. |
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E va bene, mi guardo. Un tratteggio scuro ombreggia gli occhi, truccati da oniriche mani nel cuore dell’alba, quando gli incubi si fanno ricordi, quando la percezione di te è ancora possibile, quando la vendetta del destino, il risveglio cosciente, non si è ancora compiuta per l’ennesima volta.
E ora un rumore. Qualcosa da riferire ai miei sensi, un antico ma riconoscibile richiamo raccolto su strade lastricate ormai di inutili certezze, passate come ospiti indisturbati nel labirinto della paura, e trasformatesi in nulla. Perché questa è ora la mia vita, una strada lastricata con il nulla, priva di qualunque indicazione, di qualunque direzione.
Hai ragione, è solo vento. Solo il solito vento di dicembre. Come potrebbe una casa al mare prescindere dal vento? Come potrebbe un cuore vuoto prescindere dalla rabbia? Quando poi il legno si gonfia e si contorce come giunture ostruite da cigolante artrosi, e quando gli anni tracciano rughe imperfette su finestre un tempo abili argini alle più indisciplinate intemperie, e quando il sale portato da Nettuno incrosta le sedie di bambù rendendole simili a statue classiche, allora come puoi pensare di averla vinta, fosse pure per un’ora, su quella natura generosa protagonista dell’eternità? Guardala attentamente, risplende di luce propria, esiste anche senza di noi, astuta ed impenetrabile colora la vita senza curarsi della nostra instabilità. E tuttavia non è sufficiente a rassicurarmi, a rabbonire la bestia confusa che striscia subdola in me da quando il vuoto di te si è diffuso come un cancro nelle mie cellule.
Perché, pur nella precarietà che mi alimenta, preziosa sostituta di globuli ormai privi di ossigeno, l’evoluzione mi sconcerta. Il falso tempo presente che sostituisce un passato fatto di cemento e vita mi schiaccia senza pietà. E poi amo le cose vecchie. Sono finalmente salve, al riparo dai danni del tempo. So cosa sarà di me da vecchia e, mio malgrado, so chi sono stata all’inizio, quello che manca è l’anello di contatto, quel passaggio intermedio da scimmia ad homo sapiens, quella trasformazione inopportuna quanto inevitabile che chiunque subisce nella terra dei vivi, e dei sani, perché quanto si può rimanere in quel deserto coltivato a rose scarlatte che è il dolore prima di arrendersi alla disfatta dei lineamenti e dei pentimenti, prima di rialzare la testa e vedere di nuovo il cielo? Non lo so, in tutta sincerità non so quanto potrò ancora resistere senza comprendere ciò che non può essere compreso, quanto insisterò nella pazzia prima di accettare che anche la tua assenza faccia parte dell’esistenza. No, non rispondermi, in fondo se non ci fosse il Natale che si avvicina potrei continuare a credermi folle come una Medusa abbandonata, a cullare questa comoda banalità della deriva psicotica senza prendere sul serio i miei maleducati pensieri che pretendono una spiegazione per il silenzio che urla dalla tua tomba. Ma il Natale arriverà e Loro, gli amici devoti e i parenti affranti, arriveranno e dovrò pensare al sugo, a parlare di gonne corte che certo non a tutte stanno bene, e fingere sorpresa per “regali che non potevano servirmi di più”. Sarà una recita impreziosita da parole il cui suono ho lasciato da tempo, festa arricchita da ospiti che ho abbandonato senza che se ne accorgessero, presi come erano a consolare il mio corpo mentre la mente salpava per terre lontane. Mi sto già allenando per la gran recita che sarà all’altezza della situazione. Dovrò riordinare pensieri che non ho seminato e trovare argomenti che non ho raccolto. Sarà una parete ripida da scalare, niente appigli cui afferrarsi, niente ripari per aspettare che passi il vento gonfio di neve, ma non mi spaventa. L’ho già fatto. Lo farò ancora. E’ tutta questione di esercizio.
E poi sono qui per scelta. So che non la condividi e da quando, subdolo e mitologico come Venere sei uscito dalla spuma del mare turbando la mia ostinata solitudine, continui a sussurrare parole di buonsenso, mi chiedi di perdonare il destino, di vivere, di ascoltare la tua voce spacciandola per l’eco della mia. E ti vedo anche adesso, ombra coraggiosa , scuotere la testa di fronte al mio immobile strazio, ti vedo sai, e nascosta dietro la mia sagoma ridacchio ad ogni tuo rimprovero. Poi scappo via, spaventata dal potere di persuasione che illegalmente sprigioni. Quel potere che mi aveva convinto che la felicità esiste, e che eravamo noi. Falso, hai barato allora, e stai barando adesso. Non ho ancora capito a fondo le tue intenzioni, ma starò attenta. Non posso permettermi passi falsi, non posso rinnegare il dolore in nome dell’amore che ho per te, specie ora che Loro sono in arrivo. Perché Loro sono la realtà, i punti di riferimento per misurare il diametro d’imperfezione della mia anima, o di quello che ne resta dopo l’azione erosiva di parole sussurrate nei corridoi di case borghesi, ammobiliate in stile Arte Povera del Seicento, mobili in legno con tarme che raccontano fantastiche avventure sognate al fianco di cavalieri fortunati. Chissà se negli interstizi si annidano le stesse tarme di allora, di sicuro sono le stesse tavole, non certo rotonde, che hanno sopportato l’odore dei cavalieri feriti in battaglia e ora annusano guardinghe profumi appena regalati, impacchettati all’ultimo minuto da mariti distratti quanto devoti o a da profumieri stanchi. Annuserò anche io quei pacchetti, poi ti chiederò consiglio per dare ai miei muscoli facciali un’espressione adeguata. Puoi fare questo per me, vero? Ho accolto qui questo tuo corpo evanescente e questa tua voce soffice al posto del vero te che giace imputridito in un antro buio, potrai pur ricambiare l’ospitalità suggerendomi un sorriso! No, scusa, non volevo gridare, è che ho paura, stammi vicino, sento di aver bisogno di te per sedermi a tavola con Loro. Instilleranno dubbi, vorranno riportarmi alla normalità di un’anima dolente ma composta, e io non lo voglio, voglio che questo dolore mi laceri fino a potermi dissolvere nell’onda del tramonto. E poi mi vorranno abbracciare, mi vorranno toccare, mi vorranno sedere vicino. Sì, è vero, qui al mare il tavolo è grande abbastanza per non dover sopportare il contatto di un gomito estraneo e solido, ma resterà il loro odore, che non è il tuo. Sono cattiva lo so, lo dico io prima che tu lo possa anche solo pensare, ma se non posso avere il tuo odore accanto a me tutti gli altri possono pure diventare un rancido ricordo sepolto in mezzo al mare.
Ora però devo calmarmi, devo aspettare con calma che tutto passi, anche le briciole di festa. Un buon aspirapolvere le trasporterà altrove, e se saranno audaci potranno raccontare di noi, anzi di Loro, perché è di Loro che si parla, di chi lascia impronte senza sbavature, nette e nitide come uno stampino nella sabbia, quando è bagnata però. Io invece sarò sabbia asciutta, passata al setaccio del tempo, macinata da un macchinario difettoso, una manciata grossa e una fina, un ricordo insopportabile e un delirio confortevole, un passato evaporato in quella camera mortuaria e un futuro impossibile da costruire con le macerie che restano di me. Ho provato tanto ad amalgamarle, e magari da quando sei qui ci stai provando anche tu, ma l’impasto non lievita, e chiunque scuote la testa davanti ad un sufflè malriuscito.
Per fortuna i dolci li porteranno Loro, Loro che custodiscono sotto chiave formule misteriose per impacchettare felicità allo stato solido, rinchiudere in soffitta il tormento più liquido dell’acqua che scende da un nevaio e far scomparire in aria il rancore come un gas puzzolente.
Io no. Ma tu lo sai. Anche se è da poco che ti avventuri nei miei vicoli bui e tappezzati di memorie oscenamente felici sai che non ho voglia di adeguarmi alla logica di chi sa vivere. No, al massimo posso far finta, come facevo quando dovevamo andare a cena da tua madre, posso indossare un bel vestito e rinunciare a me stessa e alla mia anima. Sì, è deciso, giocherò con loro e li farò felici. Metterò un bel vestito rosso e lascerò che mi augurino Buon Natale di tutto cuore. Certo che lo farò, lo farò. E metterò anche dei fiori nei vasi, fiori nei vasi, sì. Già immagino la loro sorpresa. Sei anche tu impaziente di vedermi all’opera? Bene, comincerò dai tulipani, tulipani colorati che aspettano di essere sistemati con cura e grazia. Come chiunque del resto, perché chiunque possa scegliere sceglierà di essere trattato con cura e con grazia. Quella cura e quella grazia con cui mi hai avvolto come in un manto di velluto, ma che ora si sono trasformate in rovi ardenti , quella cura e quella grazia che prometteva amore e adesso esige solo rabbia.
Sento il vento fischiare, state forse ridendo di me, tu e gli elementi, state forse divertendovi nel constatare che sono in balia di te se sto qui a tentare di convincerti della solidità della mia pazzia? Se è così accomodatevi pure, mi lascerò abbracciare dalle nuvole , straniere gonfie di paura che il vento spinge al largo, confuse le une con le altre. E mi farò trasformare in pioggia lieve , di quelle che non lasciano traccia se non nell’odore di terra bagnata.
Per ora cambio l’acqua ai fiori. Sì, ti sento mentre bisbigli “E sai che sforzo …” ma è davvero uno sforzo immane per chi come me dubita che i fiori esistano ancora. Mi chiedi come sia possibile e, nonostante l’evidente ingenuità delle tue parole, ti risponderò. Perché tu non sai quello che io invece ho mio malgrado scoperto. Ascolta: un fiore è appassito, senza avvertire. Un altro domani prenderà il suo posto. Senza chiedere permesso. E’ disumano. E’ come se un giorno mi fossi svegliata accanto a te e il giorno dopo accanto al tuo ricordo. Impossibile. Insopportabile. Per questo non posso fare affidamento sui fiori per la mia salvezza.
E ora un rumore. Qualcosa da riferire ai miei sensi, un antico ma riconoscibile richiamo raccolto su strade lastricate ormai di inutili certezze, passate come ospiti indisturbati nel labirinto della paura, e trasformatesi in nulla. Perché questa è ora la mia vita, una strada lastricata con il nulla, priva di qualunque indicazione, di qualunque direzione.
Hai ragione, è solo vento. Solo il solito vento di dicembre. Come potrebbe una casa al mare prescindere dal vento? Come potrebbe un cuore vuoto prescindere dalla rabbia? Quando poi il legno si gonfia e si contorce come giunture ostruite da cigolante artrosi, e quando gli anni tracciano rughe imperfette su finestre un tempo abili argini alle più indisciplinate intemperie, e quando il sale portato da Nettuno incrosta le sedie di bambù rendendole simili a statue classiche, allora come puoi pensare di averla vinta, fosse pure per un’ora, su quella natura generosa protagonista dell’eternità? Guardala attentamente, risplende di luce propria, esiste anche senza di noi, astuta ed impenetrabile colora la vita senza curarsi della nostra instabilità. E tuttavia non è sufficiente a rassicurarmi, a rabbonire la bestia confusa che striscia subdola in me da quando il vuoto di te si è diffuso come un cancro nelle mie cellule.
Perché, pur nella precarietà che mi alimenta, preziosa sostituta di globuli ormai privi di ossigeno, l’evoluzione mi sconcerta. Il falso tempo presente che sostituisce un passato fatto di cemento e vita mi schiaccia senza pietà. E poi amo le cose vecchie. Sono finalmente salve, al riparo dai danni del tempo. So cosa sarà di me da vecchia e, mio malgrado, so chi sono stata all’inizio, quello che manca è l’anello di contatto, quel passaggio intermedio da scimmia ad homo sapiens, quella trasformazione inopportuna quanto inevitabile che chiunque subisce nella terra dei vivi, e dei sani, perché quanto si può rimanere in quel deserto coltivato a rose scarlatte che è il dolore prima di arrendersi alla disfatta dei lineamenti e dei pentimenti, prima di rialzare la testa e vedere di nuovo il cielo? Non lo so, in tutta sincerità non so quanto potrò ancora resistere senza comprendere ciò che non può essere compreso, quanto insisterò nella pazzia prima di accettare che anche la tua assenza faccia parte dell’esistenza. No, non rispondermi, in fondo se non ci fosse il Natale che si avvicina potrei continuare a credermi folle come una Medusa abbandonata, a cullare questa comoda banalità della deriva psicotica senza prendere sul serio i miei maleducati pensieri che pretendono una spiegazione per il silenzio che urla dalla tua tomba. Ma il Natale arriverà e Loro, gli amici devoti e i parenti affranti, arriveranno e dovrò pensare al sugo, a parlare di gonne corte che certo non a tutte stanno bene, e fingere sorpresa per “regali che non potevano servirmi di più”. Sarà una recita impreziosita da parole il cui suono ho lasciato da tempo, festa arricchita da ospiti che ho abbandonato senza che se ne accorgessero, presi come erano a consolare il mio corpo mentre la mente salpava per terre lontane. Mi sto già allenando per la gran recita che sarà all’altezza della situazione. Dovrò riordinare pensieri che non ho seminato e trovare argomenti che non ho raccolto. Sarà una parete ripida da scalare, niente appigli cui afferrarsi, niente ripari per aspettare che passi il vento gonfio di neve, ma non mi spaventa. L’ho già fatto. Lo farò ancora. E’ tutta questione di esercizio.
E poi sono qui per scelta. So che non la condividi e da quando, subdolo e mitologico come Venere sei uscito dalla spuma del mare turbando la mia ostinata solitudine, continui a sussurrare parole di buonsenso, mi chiedi di perdonare il destino, di vivere, di ascoltare la tua voce spacciandola per l’eco della mia. E ti vedo anche adesso, ombra coraggiosa , scuotere la testa di fronte al mio immobile strazio, ti vedo sai, e nascosta dietro la mia sagoma ridacchio ad ogni tuo rimprovero. Poi scappo via, spaventata dal potere di persuasione che illegalmente sprigioni. Quel potere che mi aveva convinto che la felicità esiste, e che eravamo noi. Falso, hai barato allora, e stai barando adesso. Non ho ancora capito a fondo le tue intenzioni, ma starò attenta. Non posso permettermi passi falsi, non posso rinnegare il dolore in nome dell’amore che ho per te, specie ora che Loro sono in arrivo. Perché Loro sono la realtà, i punti di riferimento per misurare il diametro d’imperfezione della mia anima, o di quello che ne resta dopo l’azione erosiva di parole sussurrate nei corridoi di case borghesi, ammobiliate in stile Arte Povera del Seicento, mobili in legno con tarme che raccontano fantastiche avventure sognate al fianco di cavalieri fortunati. Chissà se negli interstizi si annidano le stesse tarme di allora, di sicuro sono le stesse tavole, non certo rotonde, che hanno sopportato l’odore dei cavalieri feriti in battaglia e ora annusano guardinghe profumi appena regalati, impacchettati all’ultimo minuto da mariti distratti quanto devoti o a da profumieri stanchi. Annuserò anche io quei pacchetti, poi ti chiederò consiglio per dare ai miei muscoli facciali un’espressione adeguata. Puoi fare questo per me, vero? Ho accolto qui questo tuo corpo evanescente e questa tua voce soffice al posto del vero te che giace imputridito in un antro buio, potrai pur ricambiare l’ospitalità suggerendomi un sorriso! No, scusa, non volevo gridare, è che ho paura, stammi vicino, sento di aver bisogno di te per sedermi a tavola con Loro. Instilleranno dubbi, vorranno riportarmi alla normalità di un’anima dolente ma composta, e io non lo voglio, voglio che questo dolore mi laceri fino a potermi dissolvere nell’onda del tramonto. E poi mi vorranno abbracciare, mi vorranno toccare, mi vorranno sedere vicino. Sì, è vero, qui al mare il tavolo è grande abbastanza per non dover sopportare il contatto di un gomito estraneo e solido, ma resterà il loro odore, che non è il tuo. Sono cattiva lo so, lo dico io prima che tu lo possa anche solo pensare, ma se non posso avere il tuo odore accanto a me tutti gli altri possono pure diventare un rancido ricordo sepolto in mezzo al mare.
Ora però devo calmarmi, devo aspettare con calma che tutto passi, anche le briciole di festa. Un buon aspirapolvere le trasporterà altrove, e se saranno audaci potranno raccontare di noi, anzi di Loro, perché è di Loro che si parla, di chi lascia impronte senza sbavature, nette e nitide come uno stampino nella sabbia, quando è bagnata però. Io invece sarò sabbia asciutta, passata al setaccio del tempo, macinata da un macchinario difettoso, una manciata grossa e una fina, un ricordo insopportabile e un delirio confortevole, un passato evaporato in quella camera mortuaria e un futuro impossibile da costruire con le macerie che restano di me. Ho provato tanto ad amalgamarle, e magari da quando sei qui ci stai provando anche tu, ma l’impasto non lievita, e chiunque scuote la testa davanti ad un sufflè malriuscito.
Per fortuna i dolci li porteranno Loro, Loro che custodiscono sotto chiave formule misteriose per impacchettare felicità allo stato solido, rinchiudere in soffitta il tormento più liquido dell’acqua che scende da un nevaio e far scomparire in aria il rancore come un gas puzzolente.
Io no. Ma tu lo sai. Anche se è da poco che ti avventuri nei miei vicoli bui e tappezzati di memorie oscenamente felici sai che non ho voglia di adeguarmi alla logica di chi sa vivere. No, al massimo posso far finta, come facevo quando dovevamo andare a cena da tua madre, posso indossare un bel vestito e rinunciare a me stessa e alla mia anima. Sì, è deciso, giocherò con loro e li farò felici. Metterò un bel vestito rosso e lascerò che mi augurino Buon Natale di tutto cuore. Certo che lo farò, lo farò. E metterò anche dei fiori nei vasi, fiori nei vasi, sì. Già immagino la loro sorpresa. Sei anche tu impaziente di vedermi all’opera? Bene, comincerò dai tulipani, tulipani colorati che aspettano di essere sistemati con cura e grazia. Come chiunque del resto, perché chiunque possa scegliere sceglierà di essere trattato con cura e con grazia. Quella cura e quella grazia con cui mi hai avvolto come in un manto di velluto, ma che ora si sono trasformate in rovi ardenti , quella cura e quella grazia che prometteva amore e adesso esige solo rabbia.
Sento il vento fischiare, state forse ridendo di me, tu e gli elementi, state forse divertendovi nel constatare che sono in balia di te se sto qui a tentare di convincerti della solidità della mia pazzia? Se è così accomodatevi pure, mi lascerò abbracciare dalle nuvole , straniere gonfie di paura che il vento spinge al largo, confuse le une con le altre. E mi farò trasformare in pioggia lieve , di quelle che non lasciano traccia se non nell’odore di terra bagnata.
Per ora cambio l’acqua ai fiori. Sì, ti sento mentre bisbigli “E sai che sforzo …” ma è davvero uno sforzo immane per chi come me dubita che i fiori esistano ancora. Mi chiedi come sia possibile e, nonostante l’evidente ingenuità delle tue parole, ti risponderò. Perché tu non sai quello che io invece ho mio malgrado scoperto. Ascolta: un fiore è appassito, senza avvertire. Un altro domani prenderà il suo posto. Senza chiedere permesso. E’ disumano. E’ come se un giorno mi fossi svegliata accanto a te e il giorno dopo accanto al tuo ricordo. Impossibile. Insopportabile. Per questo non posso fare affidamento sui fiori per la mia salvezza.