Candidate al Premio Oscar per la Miglior Interpretazione Femminile
Vincitrice: Jennifer Lawrence, Il Lato Positivo
Il Lato Positivo - Silver Linings Playbook - di David O. Russell con Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Jackie Weaver - Sentimentale - Usa - 2012 (Uscita in Italia 7 Marzo 2013) ***
Due cuori - folli - e il bisogno di vivere nonostante il disagio psicologico, l'amore quasi come una sfida e una minaccia, il dramma che come un cielo in primavera si apre improvvisamente e fa intravedere il sereno, l'equilibrio magico di alcune pellicole americane che non hanno paura di sterzare dagli ospedali psichiatrici alle sale da ballo, riuscendo a commuovere senza spingere sul pedale del sentimentalismo bieco, ma regalando emozioni sincere. "Il lato positivo" è un concentrato di stili e di generi, con partenza cupa e dolente perchè il protagonista Pat ha passato gli ultimi otto mesi in un istituto psichiatrico per aver massacrato di botte l'amante della moglie. Ha problemi a controllare la rabbia, è affetto da disturbo bipolare e ha un'ossessione per l'ex moglie Nikki che vuole a tutti i costi riconquistare. In queste condizioni torna a casa dai genitori che assistono alle sue scenate maniacali notturne con dolore e disagio, cercando di aiutarlo ma trovandosi impreparati ad arginare un fiume di dolore così tangibile e incrollabile. Corre Pat, corre per dimenticare la scena che ha mandato in frantumi la sua vita corre per riconquistare la forma fisica e tornare a corteggiare Nikki, corre per scappare dalla paura di tornare a vivere, paura che si concretizza nella conoscenza con Tiffany, sorella di un'amica, rimasta vedova da poco, arrabbiata con il mondo e con se stessa, reduce anche lei da un percorso psichiatrico dopo che aveva tentato di superare la morte del marito con ripetute avventure sessuali. Si incontrano e si scontrano Pat e Tiffany, lui trincerato dietro il suo mantra "Io sono sposato", lei nascosta dietro la rabbia che riserva a tutto e tutti. Fanno un patto però: lei consegnerà a Nikki una lettera di Pat se lui la aiuterà a partecipare ad una gara di ballo. E così inizia una fase di conoscenza più sincera, in cui interagiscono fratelli, padri, amici dell'ospedale psichiatrico e psichiatri tifosi di football, in una sarabanda divertente e romantica che si conclude con una girandola di passi di danza, lettere false e lettere vere e una vita che torna a vivere, con i dolori e le gioie di ogni vita, finalmente libera dal passato. Lieve in alcuni passaggi familiari, dolente e sincero nel maneggiare la tematica del disagio psichico senza retorica, romantico venato di brillante nei duetti Pat-Tiffany (nella sala da ballo si accorgono di essersi presi per mano e uno "accusa" l'altra di averlo fatto per primo, incapaci di manifestare i propri sentimenti anche a se stessi tanto l'amore è stato devastante per loro fino a quel momento) il film di Russell ha i tempi giusti, gli interpreti perfetti, - candidati all'Oscar sia Brdley Cooper che la bellissima Jennifer Lawrence - gioca a carte scoperte con i sentimenti e non ha paura di iniziare con un pugno nello stomaco per poi finire con una carezza mostrando un equilibrio di emozioni e timbri recitativi che solo pochi film hanno. Due parole a parte merita Robert De Niro - candidato agli Oscar dopo miriade di film inutili - che ha per gran parte del film un ruolo caricaturale ma che in due tre scene tira fuori sguardi e gesti che ci ricordano il grande attore che è.
The Master - di Paul Thomas Anderson con , Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Laura Dern ***
Grandissima prova attoriale dei due protagonisti nel nuovo film di Anderson, un duetto-duello fra Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman che lascia però un po' l'amaro in bocca per l'andamento della sceneggiatura che accompagna l'evoluzione del rapporto maestro allievo, ma senza picchi emotivi o slanci narrativi. Freddie Quell torna dalla seconda guerra mondiale con quello che oggi chiameremmo disturbo da stress post traumatico, e naturalmente gli psichiatri dell'esercito poco possono contro la sua rabbia e la sua inquietudine, i lavori si susseguono ai lavori, le risse alle risse, l'abuso di alcool si trasforma in una sperimentazione di misture fortissime. L'incontro con Lancaster Dodd però cambia la sua vita, perchè Dodd è un uomo carismatico, affabulatore, manipolatore ed è a capo di una specie di setta, "La Causa", fatta da familiari ed amici, in cui professa la reincarnazione, la psicanalisi da strapazzo, la cura della leucemia con il recupero dei ricordi di vite precedenti e l' educazione emotiva attraverso l'ipnosi e un morbido quanto insistente lavaggio del cervello fatto di sedute, confronti dialettici ed esperimenti improvvisati. Freddie si lascia sedurre dall'idea di appartenere a qualcuno, di non essere più un solitario sbandato e nevrotico, e così si unisce a Dodd e ai suoi seguaci, non riuscendo però a controllare la violenza, gli attacchi di rabbia, lo scetticismo profondo. I due uomini sono uno di sostegno all'altro, perchè non esiste maestro senza allievo, non esiste plagio senza qualcuno che si faccia plagiare, e non esiste forza senza debolezza con cui confrontarsi, perciò è vero che Freddie ha bisogno di Dodd per placare i suoi istinti sessuali e la rabbia che lo divora, ma altrettanto Dodd ha bisogno di Freddie, come dei tanti adepti che si sottopongono alle sue sedute, per esistere, per avere un ruolo, per non scomparire. C'è una grande tristezza nell'animo dei due uomini, che si aggrappano l'un l'altro e ogni tanto si sfidano e si allontanano senza mai riuscire a staccarsi del tutto, mentre le figura della moglie di Dodd, una Amy Adams dura e se possibile anche più manipolatrice del marito, del figlio che non crede ai sermoni del padre e del genero che cerca invece di accattivarselo, ci riportano alle miserie e alla quotidiana meschinità familiare, perchè dietro ad un guru che forse crede davvero alle proprie teorie e forse no, c'è pur sempre un uomo che ha paura della solitudine e del fallimento. L'impianto narrativo, estremamente lento non aiuta ad "entrare" nel film, ma l'interpretazione complementare ed ipnotica di Phoenix e Seymour Hoffman trascina il film e lo mantiene ad uno standard non originale ma coinvolgente, non inquietante ma struggente, e il confronto finale in penombra fra due vite irrecuperabili è di perfetto equilibrio emotivo.
The Impossible - di Juan Antonio Bayona con Naomi Watts, Ewan McGregor, Tom Holland, Geraldine Chaplin, Marta Etura, Dominic Power ***
Potente, emozionante, terrificante ed inquietante. La forza della natura che sconvolse il mondo con lo tsunami del 26 Dicembre 2004 è ricostruita nel film di Baytona con una aderenza, emotiva e fisica, che inchioda alle immagini, e attraverso esse, fa percepire tutto l'orrore, la paura, la sensazione di solitudine dell'uomo di fronte all'eterna incontrollabile forza degli agenti atmosferici ma anche di fronte alla morte, al destino, al nulla che ci circonda se svuotiamo la realtà di volti, oggetti, ricordi e certezze. Siamo in Thailandia e la famiglia Bennett, Maria - Naomi Watts, meritatissima candidatura all'Oscar per questo ruolo - Henry - Ewan Mc Gregor scarno nei gesti e nelle parole quanto intenso negli sguardi sperduti - e i loro tre figli sono in vacanza in un resort sulla spiaggia. La mattina del 26 Dicembre in una spensierata giornata di sole che la famiglia sta trascorrendo in piscina - discutendo sul rischio di aver dimenticato di inserire l'allarme e quindi su possibili furti (dialogo che ci ricorda quanto futili siano le nostre preoccupazioni il più delle volte) la tragedia che nessuno mai poteva immaginare si abbatte silenziosa, uno tsunami devastante travolge cose e persone, rade al suolo alberi secolari e trascina in un vortice di fango, detriti e orrore tutto ciò che incontra. Salvarsi è una combinazione di fortuna, tenacia, coraggio e aiuto. Così Maria, che sta andando alla deriva ferita, scorge il figlio più grande Lucas fra le acque e fa di tutto per raggiungerlo, e per mettersi in salvo con lui arrampicandosi su un albero. La voce di un bambino che piange li spinge a ritardare la loro salvezza per recuperarlo e le scene dei tre abbarbicati ai rami che si danno conforto a vicenda sono sincere e toccanti nella loro sobrietà. Arriveranno i soccorsi e i tre verranno portati in un Ospedale talmente affollato da ricordare un girone dantesco, con i nomi dei dispersi gridati dai parenti con strazianti urla. Henry nel frattempo ha portato in salvo i due figli più piccoli, ma non si arrende alla scomparsa di Maria e Lucas, e li cerca per tutta la città, attraversando i campi profughi, incontrando solidarietà e non arrendendosi mai, nonostante le ferite e la paura. Quando riusciranno a ritrovarsi ci sarà naturalmente la gioia, ma quello che hanno vissuto rimarrà nei loro occhi e nei loro cuori per sempre. Si potrebbe pensare che una trama del genere, ricca di momenti di tensione, scene madri sottolineate da una musica avvolgente, sia tendente al ricattatorio, alla lacrima strappata con mestiere, e magari a qualcuno potrà anche risultare stucchevole la sequenza di sguardi che scrutano la folla e alla fine trovano chi da ore credevano morto, ma l'emozione semplice, primaria che accompagna quegli abbracci non può essere ignorata, e la regia sa dosare lo strazio, e sa fermare il tempo in una sorta di bolla sospesa, in cui niente ha senso fin quando non si riprende il contatto con la propria famiglia. La storia è vera, come quella di altre migliaia di famiglie rimaste intrappolate in quell'incubo senza fine, ma il film vive di vita propria, sceneggia con semplicità, filma con rigore, rende maestosa la natura con effetti speciali che sappiamo non essere affatto speciali nella violenza della natura, e ci consegna un decalogo di sentimenti e di emozioni pure, scarnificate, facendoci provare più di un brivido. Bravissima la Watts come dicevamo ma non si può dimenticare Tom Holland che interpreta il figlio Lucas, un adolescente maturo, coraggioso, tenace, ma che svela la sua fragilità negli sguardi e nei silenzi.
Re della Terra Selvaggia (Beasts of the Southern Wild) - di Benh Zeitlin con Quvenzhané Wallis, Dwight Henry, Levy Easterly ****
Esordio alla regia premiatissimo - tra cui Camera d'Oro a Cannes 2012 e Premio per il Miglior Film drammatico al Sundance - la pellicola sceneggiata dallo stesso regista insieme a Lucy Alibar, autrice dell'opera teatrale da cui è tratta, è un'originalissimo misto fra cinema magico, realtà più cruda e poesia infantile. L'azione si svolge in Lousiana, in un bayou - un misto di foresta e palude tipico di quella zona - dove in casupole degradate vive un gruppo eterogeneo di sbandati, fra cui la piccola Hushpuppy e suo padre Wink. I due hanno un legame conflittuale eppure di profondo affetto, vivono in due casupole affiancate per mantenere la propria indipendenza ma si dedicano l'uno all'altra con una tenerezza infinita. Hushpuppy è anche la voce narrante del film e ci racconta delle sue fantasie sull'universo di cui sente il cuore pulsante nelle creature viventi, e della sua ferma convinzione di essere la rappresentante di una specie che gli studiosi futuri studieranno come "una hushpuppy". La realtà però è profondamente diversa, gli uragani minacciano l'ecosistema, Wink si ammala e Hushpuppy resta da sola nella casupola e si prepara il pranzo da sola accendendo il gas con un lanciafiamme, naturalmente dopo aver indossato un casco protettivo. La sensazione di sperdimento della bambina però dura poco, perchè il padre le ha insegnato come sopravvivere acchiappando i pesci a mani nude e rompendo il guscio dei granchi, e lei si sente forte, quasi invincibile, tanto che quando la polizia forzatamente sgombera la zona organizza la fuga di tutti gli abitanti di Buthtub (vasca da bagno) il quartiere dove vivono. Man mano che la malattia di Wink avanza la realtà si fa più cupa però e il viaggio scaramantico, quasi magico, che la bambina compie per salvarlo tornando con una porzione di pesce gatto fritto ha un abisso di tenerezza, poesia e disperazione. E le creature mitologiche che accompagnano le fantasie di Hushpuppy e che si inchinano a lei alla fine del film sono il chiaro bisogno di oltrepassare il tangibile, il terreno, il fisico, per elevarsi in quell'universo corale in cui "una hushpuppy" lascerà il segno. Misterioso, criptico eppure lineare, ipnotico nel suo girare intorno ad un universo atemporale in cui non c'è quotidianità fatta di lavoro, telefonini o strade affollate, il film di Zeitlin è esemplare nel concentrare sguardo emotivo e macchina da presa su una interprete straordinaria che dà voce, corpo e sguardo ad una specie davvero rara, quella dei bambini cresciuti troppo in fretta, adulti nonostante, eppure capaci di conservare quel cuore magico che solo la fantasia dei più piccoli sa inventare. Un film che spiazza quanto incanta, e che ha il coraggio di fare cinema con una materia talmente ruvida che solo la voce vellutata e incantata di Hushpuppy poteva addolcire. Strameritata nomination come migliore attrice per la piccola interprete di Hushpuppy, intensa come un'attrice consumata e spontanea come una vera bambina.
Amour - di Michael Haneke con Emmanuelle Riva, Jean-Louis Trintignant, Isabelle Huppert, William Shimell ****
A pochi minuti dall'inizio del film Georges, il personaggio interpretato da Jean-Louis Trintignant racconta che quando era un ragazzino andò al cinema e vide un film che lo emozionò a tal punto da farlo piangere. Tanti decenni dopo confessa di non ricordare più la trama del film, ma di risentire ancora le stesse emozioni di allora. Ecco, a distanza di tempo si potrà anche dimenticare qualche dettaglio del nuovo film di Michael Haneke, Palma d'oro al Festival di Cannes - ma di sicuro rimarranno le emozioni forti, crudeli, viscerali che colpiscono durante la proiezione. Georges e Anne sono invecchiati insieme e conducono una vita tranquilla e borghese, fra un concerto e un libro da condividere. Quando Anne ha una prima ischemia transitoria il futuro dei due anziani coniugi si fa più incerto e la successiva paresi che la costringe sulla sedia a rotelle è un passaggio che i due cercano di affrontare con coraggio e forza, aiutandosi a superare i momenti di ovvio imbarazzo e dolore. Le prospettive si annullano, il corpo e le sue esigenze prendono il sopravvento e il peggiorare della malattia, unitamente alla volontà di Anne di non sopravvivere a se stessa, costringono Georges ad un atto d'amore estremo e totalizzante. La messa in scena è talmente aderente alla realtà da sembrare quasi documentaristica, ma ciò che interessa maggiormente ad Haneke è raccontare il pudore dei sentimenti, l'inadeguatezza di fronte all'orrore della malattia, il bisogno di dare un senso all'abisso che si avvicina. La figlia di Georges ed Anne, una sempre intensa Isabelle Huppert, un giorno va a visitare la madre e trova la porta della camera da letto chiusa a chiave. Ne chiede ovviamente ragione al padre e la risposata di lui è raggelante e tenerissima allo stesso tempo, perchè dopo aver raccontato alla figlia le miserie e le sofferenze fisiche e mentali che Anne subisce ogni giorno conclude con la frase "Non c'è niente da vedere in tutto questo", quasi volesse proteggere quella donna, tanto bella e tanto amata, dalla pietà e dalla compassione, sia pure della sua stessa figlia, perchè laddove non c'è più dignità non c'è più vita, e solo un grande amore può avere un'evoluzione tanto coraggiosa. Gli sguardi che i due protagonisti - magnifici per sobrietà, fragilità e potenza espressiva Trintingnant ed Emmanuelle Riva - si scambiano sono sguardi stanchi, vecchi, pieni di paura e di angoscia, ma anche di dignità e di forza, pronti a resistere, ma anche a lasciar andare. Perchè, sembra insegnarci Haneke, la vita è fatta proprio di questo, di resistere e lasciar andare, di amare e agire, di incontrarsi, amarsi e andare via insieme. Prima che sia la vita a toglierci anche l'ultimo brandello di libertà e di dignità.
Zero Dark Thirty - di Kathryn Bigelow con Jessica Chastain, Jason Clarke, Taylor Kinney, James Gandolfini, Scott Adkins, Chris Pratt, Mark Strong ****
Che Kathryn Bigelow non sia intimidita da progetti spinosi lo dimostra il suo precedente "The Hurt Locker", ma questa volta con "Zero Dark Thiry" (le "ore piccole" della notte, quelle in cui si sferrano gli attacchi a sorpresa in ambito militare) va oltre e nel rendere conto dei dieci anni di indagini per individuare ed uccidere Osama Bin Laden confeziona un film che è sì cronaca, ma è anche, e profondamente, cinema, con una protagonista femminile che si muove a disagio ma coraggiosamente nell'orrore dello spionaggio e della tortura e non perde mai di vista il proprio obiettivo, opponendo il suo istinto alle statistiche e alle percentuali di Washington, e lavorando con tenacia e dedizione contro l'ottusa ostinazione di alcuni superiori. Maya - l'intensa, superba Jessica Chastain, sempre struccata e mai tanto bella, candidata favoritissima all'Oscar per la Miglior Interpretazione Femminile - è una giovane agente della Cia inviata in Pakistan per seguire le indagini dell'Intelligence in seguito all'attentato dell'11 Settembre. La caccia a Bin Laden è priorità assoluta e nessun metodo è bandito, compresa la tortura dei prigionieri cui Maya assiste inorridita ma senza opporsi, consapevole del suo ruolo e dei limiti che la Storia impone agli esseri umani. Passeranno dieci anni prima che una flebile traccia, caparbiamente inseguita da Maya, porti uno spiraglio nel muro di omertà, violenza, tradimenti e perdite che è divenuta la lotta ad Al Qaeda. E si arriva così alla notte del 2 Maggio 2011 in cui le squadre speciali dei Navy Seals faranno irruzione in una casa blindatissima in Pakistan e uccideranno Bin Laden in una lunghissima sequenza (circa quaranta minuti), girata quasi interamente al buio, di rara intensità e bellezza. Il finale in sordina, solitario e senza enfasi, con una solitaria lacrima ad accompagnare il solitario rientro in patria di Maya, dà la misura del rigore del film mai spettacolare ma sempre spettacolarmente equilibrato, misurato, compendio di umana frustrazione e legittima fiducia nel proprio lavoro. Le scene che non si dimenticano sono tante, l'impatto forte di alcuni confronti, la preparazione della "battaglia" da parte dei soldati, il telefono muto di Maya mentre una sua collega viene uccisa, e la scelta della Bigelow di concentrarsi sull'indagine senza mai alzare lo sguardo dal'universo "lavoro" rende la pellicola un labirinto claustrofobico da cui si può uscire solo trovando la strada giusta, niente scorciatoie - fuor di metafora niente scene che allentino la tensione, niente storie d'amore, niente battute, nessun momento spensierato o privato - scelta coraggiosa e vincente nel costruire un tunnel dove la velocità accelera man mano che ci si avvicina all'uscita, come il battito del cuore, come l'emozione che a sorpresa un film tanto rigoroso riesce ad evocare. Lontani i tempi in cui Kathryn Bigelow veniva definita "la moglie di James Cameron" si conferma una tra le registe più sensibili, più lucide e più appassionate del panorama statunitense.