Recensioni Gennaio 2012
Il Sentiero - di Jasmila Zbanic con Mirjana Karanovic, Zrinka Cvitesic ***
Più che il sentiero il titolo avrebbe dovuto essere “I Sentieri” ovvero le strade diverse e divergenti che Luna e Amar, coppia affiatata e innamorata, prenderanno nel corso del film. Hostess lei uomo radar appena licenziato lui, stanno tentando di avere un figlio e sono in procinto di affrontare l’inseminazione artificiale. Ma quando Amar troverà lavoro presso una comunità mussulmana integralista che vive isolata dalla società le cose cambieranno. Perché siamo a Sarajevo e sia Luna che Amar hanno alle spalle dei lutti incancellabili come chiunque intorno a loro del resto, perché sono entrambi mussulmani, ma hanno una fede blanda, che permette loro di bere, di andare in discoteca, di vivere “all’occidentale”. E quando Amar comincerà a trovare risposte e pace nella comunità integralista Luna non riuscirà ad accettare questa sua scelta. Le scene in cui visita la comunità, dove le donne vestono il burqua integrale e nuotano, mangiano, pregano, lontane dagli uomini, sono per lei un viaggio nella fantascienza, in un mondo che non concepisce e non condivide. Ma Amar ha bisogno di quella pace per ritrovare se stesso e la propria identità e i loro sentieri non potranno più incontrarsi, perché non c’è distanza maggiore di quella ideologica, di quella di scelte radicali, di quella che non ammette repliche. Un bellissimo film quello di Jasmilla Zbanic, già regista di “Il Segreto di Esma”, che non giudica e non prende posizione, semplicemente tratteggia senza ipocrisie e senza estremizzazioni, le differenze abissali che si possono creare all’interno di una coppia quando uno dei due abbandona il sentiero comune e l’altro non è in grado, o non vuole, seguirlo sula nuova via. E’ un film politico, perché con pochi cenni (uno per tutti la scena al cimitero) racconta l’orrore di una guerra lacerante, è un film religioso, perché mette a confronto la fede con il fanatismo religioso, con certe pericolose derive che niente hanno a che fare con l’appartenenza ad un culto (il discorso intenso e dolente che la nonna di Luna fa ad Amar in questo senso è esemplare)ed è un film sentimentale, perché parla di un amore che non ce la fa a sopravvivere nonostante l’amore, e non c’è niente di più atroce. Ma più di tutto è un film bello, semplice e mai gridato, intenso e vero, come è vera quella speranza finale che sopravvive anche in chi ha attraversato l’inferno di una guerra e lo strazio di un amore perduto.
Hesher è stato qui - di Spencer Susser con Natalie Portman, Joseph Gordon-Levitt, Rainn Wilson, Piper Laurie **
Ci sono personaggi che, sia pure raccontati e sezionati nei minimi dettagli, restano sfocati, e personaggi, che se pure appena tratteggiati, hanno un loro contorno ben definito. Hesher è uno di questi. Uno sbandato, senza passato e senza futuro, capelli lunghi e tatuaggi offensivi, che vive dove capita, non rispetta le regole, pensa solo a se stesso. Non sapremo mai nulla del suo passato, che in altri film sarebbe stato terreno fertile per lacrimose analisi su un’infanzia o un’adolescenza tormentate, non ci chiediamo neanche che ne sarà di lui, perché già lo sappiamo. Quel che ci chiediamo, nella bella pellicola di Spencer Susser, è se la famiglia con cui Hesher entrerà in contatto, riuscirà a superare la crisi profonda che sta affondando. TJ, il ragazzino che attraversa il film con sulle spalle il dolore per la morte della madre cerca l’affetto di una giovane e goffa cassiera (irriconoscibile e brava Natalie Portman, sciupata e trascurata, qui anche produttrice) e subisce l’irruenza di Hesher senza peraltro averne mai in cambio amicizia o aiuto. Il padre di TJ è sopraffatto dal dolore e si imbottisce di farmaci, la nonna ( una magnifica Piper Laurie dopo tanto tempo di nuovo al cinema) stanca e malata, cerca di tenere insieme i pezzi della famiglia e riesce a creare un inaspettato legame proprio con il ribelle Hesher, che in modo violento e brutale riuscirà a scuotere la famiglia di TJ dal dolore, e lascerà un segno, anche fisico, tangibile, sulle loro vite. Un personaggio che non si ama Hesher, al contrario di tanti eroi ribelli, che non si riesce neanche a capire, ma che lascia un segno anche in noi, a volte incapaci di reagire, a volte paralizzati dalla paura, a volte incapaci di fare la cosa sbagliata per non affrontarne le conseguenze. Un personaggio che scuote le fondamenta della vita, che prende a pugni il politically correct e che non ha tempo per fermarsi a pensare, ma che agisce d’impulso, e nel farlo qualche volta, senza neanche rendersene conto, fa anche la cosa giusta. Un personaggio che avrebbe spaventato molti attori, rischiando di farne uno stereotipo, ma che invece Joseph Gordon-Levitt affronta con asciutta fermezza, confermandosi, dopo 50/50 un giovane attore di grande talento.
Millennium – Uomini che Odiano Le donne - di David Fincher con Rooney Mara, Daniel Craig, Stellan Skarsgård, Christopher Plummer ***
Mai libro fu tanto “sfruttato” dal cinema. Dopo la versione svedese, dopo la serie televisiva arriva ora la versione autoriale di David Fincher, sempre tratta dal primo libro della trilogia Millennium di Stieg Larsson. Fedele al suo stile estetico fin dai bellissimi titoli di testa Fincher rimane fedele alla trama e ai personaggi aggiungendo quel gusto da “discesa agli inferi” che accompagna ogni suo opera. Mikael Blomkvist , giornalista in caduta libera dopo aver perso una causa per diffamazione contro un magnate corrotto, accetta l’incarico di un sempre elegante ed essenziale Christopher Plummer di indagare sulla scomparsa di una adorata nipote avvenuta cinquant’anni prima. Lo aiuterà la giovane disadattata Lisbeth Salander, genio informatico al limite del sociopatico, tendente all’autistico sicuramente autodistruttiva, ma anche fragile al punto giusto da lasciarsi andare a una qualche forma di emozione con Mikael. La famiglia si cui indagheranno si scoprirà malata, disfunzionale, crocevia di perversioni e rancori, ma non è tanto la trama ad interessare Fncher (del resto quando si ha un testo tanto robusto e ben scritto basta seguire passo passo lo sviluppo e il grande giallo arriverà quasi da solo) ma lo sviluppo dei personaggi, abbandonati nel gelo e nella neve del Nord della Svezia, in quel freddo fisico e metaforico perfetto per avanzare faticosamente verso la verità, verso la conoscenza, verso il dolore che questa porta con sé. Molto convincenti gli attori, la pressoché sconosciuta Rooney Mara, candidata ai Globe e agli Oscar, nervosa e fragile nel suo corpo magrissimo, e Daniel Craig, tanto poco Bond e molto glamorous nei modi di fare. Bel film, solido, corposo, che nelle sue due ore e mezzo ha modo di concedere spazio a tanti rivoli narrativi, senza mai dimenticare l’obiettivo primario, dimostrare che non c’è bene assoluto o male assoluto, solo una livida scia di dolore con cui dobbiamo imparare a convivere scivolando via rabbiosi in sella ad una moto come fa Lisbeth nel finale, delusa ancora una volta dalla vita.
The Iron Lady - di Phyllida Lloyd con Meryl Streep, Jim Broadbent, Harry Lloyd, Anthony Head **
Una biografia lineare e sincera, un racconto senza guizzi e senza cadute, un’accurata ricostruzione d’epoca e una magistrale interpretazione, di più, una magistrale immedesimazione e trasformazione. Questo è The Iron Lady, biografia di Margareth Tatcher dagli inizi della sua carriera fino al lento declino accompagnato dal crudele morbo di Alzheimer che le fa confondere attimi presenti con episodi lontani e le fa avere un dialogo immaginario ma necessario con il marito morto da anni. Meryl Streep, aiutata da trucco e parrucco, raggiunge vette altissime, si muove , parla, vive il corpo e la personalità della Lady di Ferro che ha dominato la scena politica mondiale negli Anni Ottanta. La fragilità della vecchiaia si mescola alla decisionalità degli anni al potere, la morsa della solitudine che accompagna chi è al vertice è paradossalmente simile a quella di chi è ormai ai margini della società e della vita, e le certezze granitiche professionali lasciano il posto ad una confusione emozionale che atterrisce. Sicuramente non è il più bel film biografico della storia, sicuramente non ci sono invenzioni registiche o scene “alte”, il film è però retto da un’attrice immensa che nel momento in cui, guardandosi in televisione mormora smarrita “Non mi riconosco”ci regala un’emozione autentica al di là del cerone.
Mission Impossible 4: Protocollo Fantasma - di Brad Bird con Tom Cruise, Simon Pegg, Ving Rhames, Jeremy Renner **
Quando una serie arriva al quarto capitolo si sa già tutto o quasi di ciò che ci aspetta. Il rischio è che ci si trovi davanti ad una minestra riscaldata in cui gli elementi mutano di posizione ma sono sempre gli stessi. Con Mission Impossible questo rischio non si corre, sono talmente tante le trovate di sceneggiatura, le girandole di personaggi, le scelte scenografiche di locations spettacolari che le due ore e passa di film volano via lisce senza mai annoiarsi. Certo non aspettatevi trame raffinate o recitazioni sfumate, tutto è roboante ed esplosivo, ma anche molto divertente. E la scalata del grattacielo più alto del mondo, il mitico Burj Khalifa di Dubai, è davvero da far girare la testa!
Hugo Cabret - di Martin Scorsese con Chloe Moretz, Asa Butterfield, Sacha Baron Cohen, Ben Kingsley ****
Quando un grande maestro del cinema decide di sperimentare una tecnica innovativa come il 3D c’è da rizzare le orecchie e lucidarsi gli occhi, perché è sicuro che non ci troveremo di fronte ai soliti effettacci moltiplicati dalla tridimensionalità. E’ stato così per Spielberg che ha rotto il ghiaccio con Tin Tin in capture motion, ha proseguito Wenders con l’elegantissimo Pina e arriva ora Scorsese con quello che non si può definire altro che capolavoro. Recente Globe alla regia, candidato ad ennesimi Oscar Hugo Cabret è un dichiarato omaggio all’amore per il cinema di Scorsese, da anni impegnato nel restauro e nel recupero di pellicole dei primi del secolo. La storia, tratta dal libro animato di Brian Salznick del 2007, narra le avventure dell’orfano Hugo che vive nei sotterranei della Stazione ferroviaria di Montparnasse a Parigi, e che cerca di aggiustare un automa che il padre gli aveva regalato prima di morire. Sarà l’incontro con un una coetanea anche lei orfana e soprattutto con un misterioso e burbero anziano che gestisce un negozietto di giocattoli a dare il via ad una serie di avventure, a scoprire segreti, a svelare misteri. Il tutto inseguendo una figura mitica della storia del cinema, quel George Melies che insieme ai fratelli Lumiere diede il via all’avventura della settima arte. Fu lui, in gioventù illusionista e prestidigitatore, ad inventare gli effetti speciali e a creare pellicole innovative e geniali (il famoso razzo che colpisce la luna in un occhio è tratto dal suo film più celebre). La ricostruzione della stazione è semplicemente magnifica (bravissimi gli scenografi italiani candidati agli Oscar Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo), i giovani protagonisti sono luminosi e semplici come se fossero in un film di Frank Capra degli Anni 40, Ben Kingsley-Melies è semplicemente sublime e il poliziotto caricatura di Sacha Baron Cohen ricorda le comiche mute citate per altro anche da vari spezzoni di film di Buster Keaton che i due bambini vedono al cinema. Se poi aggiungiamo che c’è una giovane fioraia timida capirete che le citazione cinefile sono infinite e i richiami al passato eleganti e mai forzati. Scorsese sa raccontare con eguale raffinatezza amori struggenti e cruente esecuzioni, ma mai come in questo film aveva confezionato tanta magia e tanta delicatezza, mai aveva creato una favola così soffice da volteggiare a ritmo di walzer sopra una magica Parigi innevata. E consegnarci un piccolo grande gioiello da custodire con la cura con cui lui ha custodito il segreto del grande cinema di tutti i tempi.
La Chiave di Sarah - di Gilles Paquet-Brenner con Kristin Scott Thomas, Mélusine Mayance ***
Una pagina dolorosissima della storia francese, il rastrellamento di tredicimila ebrei nel Velodrome d’Hiver nel luglio 1942 intrecciata con la storia personale ed intima di una bambina, Sarah appunto, che attraverserà tutti gli orrori della guerra con nel cuore un orrore ancora più grande. Una giornalista americana trapiantata a Parigi che indaga sui misteri del passato e scoprirà verità che la sconvolgeranno e le faranno rimettere in discussione la sua intera vita. Un film sulla shoah e sulle responsabilità francesi? Un film sugli errori commessi in buonafede che comportano comunque sensi di colpa infiniti? Un film sulla necessità di conoscere la verità sul nostro passato per poter conoscere noi stessi? Sicuramente tutto questo, ma anche molto di più, perché La Chiave di Sarah riesce a farci partecipi non solo degli immensi drammi collettivi ma anche dei sentimenti di una bambina che diventerà ragazza prima e donna poi senza mai dimenticare il proprio passato. L’inchiesta giornalistica contemporanea e la ricerca spasmodica del fratellino che Sarah perseguirà tra mille difficoltà con tenacia e coraggio scorrono parallele nella pellicola, emozionando e coinvolgendo senza mai cadere nelle trappole del racconto di genere, e il tono di mistero che aleggia in certe scene aggiunge fascino alla narrazione senza mai appesantirla di inutili colpi di scena. Un film corposo, che denuncia le atrocità del passato e che allo stesso tempo racconta con delicatezza e tenerezza quei legami affettivi forti e vincenti che permettono di sopravvivere a quelle stesse atrocità, sia pure segnati per sempre.
La Talpa - di Tomas Alfredson con Gary Oldman, Colin Firth, Tom Hardy, Benedict Cumberbatch ****
Il libro famosissimo di John Le Carrè e la magnifica serie televisiva del 1979 con Sir Alec Guinness pesano sulle spalle di questo film come macigni. Eppure appaiono piume lievissime allo scorrere dei titoli di coda che vorremmo non arrivassero mai. Perché vorremmo ancora intrighi, ancora doppi giochi, ancora tradimenti. Un cast semplicemente perfetto, con Gary Oldman protagonista e comprimari dai nomi di Colin Firth e John Hurt. Un’atmosfera decadente, romantica nel senso più profondo del termine, la capacità di filmare esecuzioni come se fossero scene d’amore e scene d’amore come se fossero scene d’azione. La trama è davvero complessa e alcuni passaggi possono anche risultare ostici, ma l’epoca della Guerra Fredda non potrebbe essere ricostruita con maggior fascino. Lo Smiley di Gary Oldman è un perfetto concentrato di ambiguità, intelligenza, capacità di trasformismo caratteriale e mite crudeltà, Colin Firth , un po’ in ombra nella prima parte del film troneggia nel finale e John Hurt ci regala sprazzi di grande, puro John Hurt. Seguiamo queste spie di un mondo ormai lontano che attraversano l’Europa con la morte alle calcagna come se seguissimo degli eroi romantici, scopriamo trame e intrighi con la fascinazione che solo i veri film d’atmosfera sanno regalare, riconosciamo il perfetto British Style nello humor freddo, nei modi trattenuti, nelle relazioni formali ma nascostamente piene di passione. E se tutto questo non bastasse a farne un grandissimo film - ma basta, eccome! - la scena finale con “La Mer” cantata da Julio Iglesias che accompagna un flashback di inarrivabile gusto estetico è qualcosa che resterà nella storia del cinema per eleganza e fascino.
L’Incredibile Storia di Winter il Delfino - di Charles Martin Smith con Harry Connick jr., Ashley Judd, Nathan Gamble, Kris Kristofferson **
Buoni sentimenti, ecologia, solidarietà, un bambino solitario abbandonato dal padre che trova nuovi amici, un delfino ferito che ritornerà a nuotare grazie alla genialità di uno scienziato che non ha paura di andare oltre gli schemi (il sempre impeccabile Morgan Freeman), un giovane soldato tornato dal fronte menomato che torna a vivere, un ospedale marino salvato in extremis dall’imprenditore convertito alla giusta causa … che altro? Non manca proprio nulla alla storia di Winter per commuovere, far sorridere, far passare un paio d’ore sicuri che il lieto fine non mancherà. Film per famiglie ispirato ad una storia vera il film di Charles Martin Smith (attore in America Graffiti e Gli Intoccabili tra i tanti che ha girato prima di dedicarsi alla regia ) è ben girato, ben recitato, corretto e capace di non scivolare sulla pericolosa china del sentimentalismo. Sapere che la protesi che ha permesso a Winter di tornare a nuotare è stata poi utilizzata come prototipo per realizzare protesi per reduci dall’Iraq e civili è ciò che ci riscalda maggiormente il cuore e le toccanti scene finali, con bambini e adulti privi di gambe che giocano con Winter aggiungono un tocco di verità ad un bel film che ci consegna un messaggio positivo e concreto che non andrebbe mai dimenticato: perseguire un obiettivo in cui si crede, e condividerlo con chi amiamo, è ciò che ci può portare alla felicità, merce rara oggi come oggi...
J.Edgar - di Clint Eastwood con Leonardo DiCaprio, Ed Westwick, Armie Hammer, Judi Dench **
Clint Eastwood ha una colpa gravissima: negli ultimi anni ci ha regalato tali e tanti capolavori che un suo film appena appena piacevole risulta una profondissima delusione. Ed è così che J, Edgar, biografia dell’uomo forse più potente del Ventunesimo secolo, J. Edgar Hoover, inventore e capo dell’FBI per mezzo secolo, risulta un po’ freddo e distante. Sicuramente appassiona la ricostruzione di un’epoca, sicuramente convince il ritratto di un uomo ossessionato dal perseguire i nemici dell’America ma ambiguo nei rapporti privati con la madre prima (di cui arriverà ad indossare gli abiti dopo il funerale di lei) e con il suo più stretto collaboratore ed amico. Facile riconoscere i pregi del film, l’appassionata lotta contro il crimine come l’abilità tutta politica di far crescere il proprio nome, ma rimane la sordina al senso di partecipazione e si esce dalle due ore abbondanti di film con la sensazione che Eastwood avrebbe potuto affondare di più nel ventre dell’America dagli anni Venti agli anni Settanta. Il rapimento di Baby Lindbergh, la cattura di Dillinger, gli scandali politici e il sottofinale sul viso di Nixon sono un chiaro messaggio di Eastwood, l’America dell’innocenza è finita e non si può che essere d’accordo con lui. Resta la curiosità per le migliaia di files che Naomi Watts distrugge su volontà di Hoower dopo la morte di lui, perché la vera storia dell’America stava proprio lì, nei segreti che nessuno saprà mai e che avrebbero potuto cambiare l’esito della storia di tutti noi. La maschera di Di Caprio ( e non solo quella di silicone che lo invecchia ad arte) rispecchia perfettamente le inquietudini di uno sguardo duro e impietoso che ha accompagnato l’America e il mondo nelle sue metamorfosi ed implosioni. Peccato che manchi quel guizzo geniale che fa di un gran film un capolavoro. Ma al vecchio cowboy Clint è concesso anche questo!
The Help - di Tate Taylor con Emma Stone, Bryce Dallas Howard, Mike Vogel, Allison Janney ***
Reduce da svariate candidature ai Golden Globes (con Octavia Spencer strepitosa vincitrice nella categoria Supporting Role) e futuro candidato ad un bel po’ di Nominatons agli Oscar arriva anche in Italia il film di Tate Taylor tratto dal libro della sua amica d’infanzia Kathryn Stock. Grandissimo cast innanzitutto, tutto al femminile e capace di resuscitare gli anni 60 nel Sud degli Stati Uniti con pregiudizi, pruderie, pettegolezzi e ipocrisie degni di un documentario d’epoca. Di ritorno dal college la ricca e bianca Skeeter ( la Emma Stone di Crazy Stupid Love, occhi di gatto sempre più fiammeggianti e sempre più brava) ha un’idea semplice in apparenza ma inapplicabile nel contesto sociale in cui si muove: scrivere un libro dando voce alle tante donne di colore che hanno cresciuto centinaia di bambini nella sua città, raccontare le loro storie, le loro umiliazioni (le persone di colore nel 1962 nel profondo Sud degli Stati Uniti dovevano usufruire di un bagno separato per non contagiare i bianchi con le loro malattie “da negri” ed è tutto dire!!) i loro sogni e la dolcezza con cui hanno allevato bambini che un giorno cresciuti non rivedranno mai più. Naturalmente dovrà vincere le resistenze di tutti, a cominciare proprio dalle mamies che temono giustamente ritorsioni e licenziamenti qualora raccontassero le tante segrete verità di famiglie apparentemente perfette ma in realtà tenute insieme dal perbenismo e dalle convenienze sociali. Le piccole grandi storie che ci vengono svelate fra rabbia e divertimento ci raccontano un mondo relativamente vicino a livello temporale ma lontano anni luce da quella libertà assoluta a cui siamo oggi abituati e che, dimenticando quante battaglie e quante sofferenze è costata a chi l’ha conquistata a suo tempo, diamo per scontata. L’uscita del libro sarà una piccola rivoluzione per la comunità borghese e anche per quella delle domestiche, orgogliose protagoniste di un evento quasi insperato fino a pochi mesi prima. La tenacia di una giovane donna, il coraggio di chi ha sempre dovuto chinare il capo, la capacità di chiedere scusa e ammettere la propria vigliaccheria - “Il coraggio salta sempre una generazione” dirà la madre di Skeeter finalmente convinta della bontà dell’idea della figlia di dar voce anche a chi culturalmente non l’hai mai avuta (né potuta avere) sono i punti forti di un film che è emozionante, divertente - c’è una particolare torta al cioccolato che lascerà il segno a lungo! - padrone della sceneggiatura e dell’azione e che ci ricorda ancora una volta che solo dalla fragilità può nascere la forza, e che le vere rivoluzioni iniziano sempre sottovoce.
Golden Globes 2012
Primo appuntamento dell’anno con premi cinematografici i Golden Globes ogni gennaio anticipano e quasi ricalcano quelle che saranno a distanza di poche settimane le nominations per gli Oscar. E visti i titoli che sono stati protagonisti la notte del 15 Gennaio credo che anche quest’anno troveremo molti di loro in gara per la statuetta più ambita. Serata glamour ma meno ingessata degli Oscar, con i cast dei vari film riuniti a tavoli informali, con divi indisciplinati come scolaretti che passano da un tavolo al’altro per salutarsi e magari spettegolare sui vestiti delle amiche/rivali , i Golden Globes offrono sempre un’atmosfera disinvolta e calda che rende gli appassionati di cinema partecipi di una gran festa in famiglia. Presentata col solito humor britannico da Ricky Gervais, capace di far sorridere anche ossi duri come Dustin Hoffman la serata scorre liscia con la solita professionalità statunitense, portata avanti da una parata di divi che presentano i film in gara, consegnano premi e abbracciano i premiati in un trionfo di abiti firmati, corpi inguainati e qualche grammo di silicone di troppo. Diciamo subito che il momento più emozionante della serata è stata la consegna del Premio Cecil B.DeMille alla carriera a Morgan Freeman da parte di Sidney Poitier, passo incerto e parlare lento, ma ancora affascinante come quando interpretò il giovane medico che riuscì a stregare il mondo nell’ ancora oggi insuperato “Indovina chi viene a cena”. Due grandi interpreti insieme sul palco, un tributo ai tanti personaggi interpretati da Freeman e una doppia standing ovation che ha fatto salire la temperatura emotiva della platea. Per quanto riguarda i premi principali sono stati ugualmente distribuiti fra i grandi Maestri e novità di grande fascino. Tra i primi sicuramente Spielberg , Globe per il miglior film d’animazione per l’avventuroso Tin Tin in capture motion, Scorsese per la sua prima regia in 3D, Hugo, un capolavoro di film che testimonia tutto l’amore di Scorsese per l’Arte del cinema e che regala magia e favola con la stessa eleganza con cui sventagliava proiettili nei film sui gangsters e Woody Allen, premio per la sceneggiatura del delizioso Midnight in Paris. Tra i secondi il più originale e per certi versi imprevisto sicuramente è il film muto The Artist di Hazanavicius , miglior film brillante premiato anche con la miglior interpretazione brillante maschile a Jean Dujardin, che ha ringraziato muovendo solo le labbra come il suo personaggio. Miglior film drammatico è invece The Descendants con George Clooney, premiato anche come interprete drammatico, storia cruda e dura ma anche piena di sentimenti con un Clooney sempre più solido e maturo. Tra le attrici i Golden sono andati a Meryl Streep per la sua adesione assoluta al personaggio di Margareth Tacher in Lady Iron e alla deliziosa Michelle Williams per la capacità di trasformarsi in Marilyn con grazia e delicatezza in My week with Marilyn, dove Sir Lawrence Olivier è interpretato da Kenneth Branaggh (gran confronto!) Altro momento di grande intensità è stata la premiazione di Christopher Plummer come miglior attore non protagonista in Beginners dove interpreta il padre di Ian Mc Ewan in un commovente ruolo che lo restituisce alla grande platea intatto nella sua bravura. Più che meritato il Globe ad Octavia Spencer per The Help, primadonna fra tante bravissime interpreti in un film che in sala è stato accolto da fragorosi applausi. Importante riconoscimento al film Una separazione per i film stranieri, testimonianza di una cinematografia, quella iraniana, molto vitale nonostante le difficoltà politiche in cui si muove. Scambio di battute al vetriolo tra Gervais e Madonna salita sul palco per ritirare il Globe per la miglior canzone (parole e musica della stessa Madonna) Masterpiece , inserita nel film da lei diretto W/E sul tormentato amore fra Wally Simpson ed Edoardo VIII. I riconoscimenti ai programmi televisivi, ormai a livello cinematografico visti gli autori e gli interpreti che li propongono (Scorsese e Neal Jordan tra i registi , Steve Buscemi, Wilam Hurt , Jeremy Irons o Glenn Close tra gli attori tanto per citarne solo alcuni) sono andati a Homeland, nuova serie su un reduce dalla guerra in medio Oriente, a Modern Family, ormai consolidata satira sulla famiglia americana, e per le miniserie a Downton Abbey, giunto già alla seconda serie, entrato nel Guinness dei primati come miglior serie in costume di tutti i tempi e a modesto avviso di chi scrive un prodotto che sfiora la perfezione. Primo premio nella storia del cinema e della tv ad un attore nano, l’ormai lanciatissimo Peter Dinklage per il fantasy di grande eleganza e sostanza Games of Thrones ed ennesimo premio invece per Jessica Lange in American Horror Story. Riconoscimenti anche per l’investigatore dolente e malinconico Luther, prodotto BBC, e si vede! , interpretato da Idris Elba e a Kate Winslet, magnifica Mildred Pierce, prima donna manager degli anni cinquanta che con le sue sole forze riuscì aprire una catena di ristoranti. Certo veder restare a mani vuote attori come Maggie Smith (Downton Abbey) e la sua tagliente ironia che illumina lo sceneggiato, o Glenn Close che si imbruttisce fino a diventare un uomo in Albert Nobbs fa un certo effetto, ed avremmo voluto che trovassero spazio anche gioielli di film come Il Figlio di Babbo Natale per l’animazione e 50/50 che riesce ad affrontare un argomento come il cancro con scene brillanti, ma la scelta è sempre ardua e le migliori pellicole dell’anno sono comunque state nominate, il che è già un viatico di sicuro successo per i film. A conclusione della serata rimane la sensazione di fondo che la maggior parte dei film in concorso fossero quest’anno rivolti con un occhio al passato (War Horse , Hugo, Moneyball, The help, The Artist, J. Edgar e My week with Marilyn sono tutti ambientati fra gli Anni Venti e gli Anni Sessanta, senza contare il film di Allen ambientato solo apparentemente nel presente) e che ci sia stato un grande ritorno a film intimistici improntati però a sentimenti e valori universali, cosa di cui evidentemente il cinema, e tutti noi, abbiamo un gran bisogno in questi anni di sbandamento sociale ed emozionale.
The Artist - di Michel Hazanavicius con Jean Dujardin, Bérénice Bejo, John Goodman, Penelope Ann Miller ****
Chiunque vedesse The Artist senza sapere che è stato girato nel 2011 penserebbe di star guardando un bellissimo vecchio film e direbbe “Oggi non si fanno più film così”. E invece sì. Invece esistono ancora produttori coraggiosi e registi come Michel Hazanavicius talmente innovativi da essere reazionari. Il film è elegante, raffinato, lineare, asciutto e delicato come i veri film muti degli Anni Trenta. Gli attori sono fisicamente ineccepibili, il baffetto alla Erroll Flynn di Jean Dujardin semplicemente perfetto, il tycoon di John Goodman divertentissimo e il cagnetto buffo e tenero come deve essere. In un bianco e nero di grande effetto The Artist racconta la storia di un divo del cinema muto che affronta con avventure e disavventure il suo rapido declino negli anni in cui inizia a diffondersi il sonoro. Avrà modo di crescere, di innamorarsi della nuova stella di Hollywood e di reinventarsi con un nuovo ruolo, messaggio quanto mai attuale. Un film che emoziona, diverte, che ricostruisce un mondo perduto e forse un po’ rimpianto. Un film che ha tantissimi pregi, primo fra tutti l’averci ricordato ancora una volta che la magia del cinema è sempre stata e sempre sarà la scintilla di emozione che si accende sullo schermo, al di là di esasperati effetti speciali. E che confeziona un perfetto abito vintage da indossare con orgoglio. I tanti premi già ricevuti e la valanga di Oscar che aspettano The Artist confermano la certezza che il grande cinema del passato è ancora un patrimonio immenso da non abbandonare mai.
L’Arte di Vincere - di Bennett Miller con Brad Pitt, Jonah Hill, Robin Wright, Philip Seymour Hoffman **
I film ambientati nel mondo del baseball, tanto amati dagli americani, hanno solitamente scarsa fortuna in Italia, forse perché i meccanismi del gioco ci sono estranei e questo rende i tanti passaggi “tecnici” dei film ostici e distanti. Chissà se questa nuova pellicola di Bennett Miller, complice la presenza della star Brad Pitt, ribalterà la tendenza. Diciamolo subito, le scene in campo sono molte, allenamenti e partite sono centrali nel film, ma la vera storia sta altrove, il cuore pulsante del film è nel rapporto tra Billy Beane, interpretato da Pitt, giovane manager di una squadra a corto di fondi e il neolaureato in economia Peter Brand che suggerisce un nuovo modo di costruire una squadra basandosi sulle statistiche, sulle caratteristiche di giocatori mal utilizzati in alcune squadre ma che stimolati e motivati possono diventare campioni altrove. I due saranno avversati dai dinosauri della squadra, manager anziani, allenatori e giocatori, che non comprendono fin dall’inizio la rivoluzionaria idea di “fare squadra” per vincere, anche se all’interno di quella squadra non ci sono più i Joe Di Maggio della situazione, venduti dai proprietari per fare cassa. Spaventato dal successo quasi più che dal fallimento, perennamente insoddisfatto e schiacciato da ricordi di quella che avrebbe potuto essere una brillante carriera e che invece finì precocemente senza mai decollare, Pitt tratteggia un personaggio in bilico fra l’entusiasmo e la disillusione, fra l’idealismo e il pratico realismo di dover gestire una squadra fra mille interessi e conflitti personali. La pioggia di candidature all’Oscar ci dice molto della voglia di riscatto degli Stati Uniti, del desiderio di credere ancora possibile l’American Dream, dove la forza di una squadra - e in questo il baseball è la perfetta metafora della vita - è fatta dalla fiducia, dal desiderio di riuscire, dalla collaborazione e dall’impegno più che mero talento. Il messaggio arriva chiaro e forte, ma il film resta un po’ algido, il che potrebbe essere un pregio pensando alle tante scene madri di altri film sullo sport, ma che lascia il desiderio di qualche sussulto in più.