Recensioni - Aprile 2012
Una Spia non Basta - di McG con Reese Witherspoon, Tom Hardy e Chris Pine *
FDR (acronimo di Franklin Delano Roosevelt, un nome un programma!) e Tuck, due spie della Cia sono amici e lavorano insieme da sempre, fra sparatorie e caccia ai terroristi. Quando però entrambi iniziano a conoscere una ragazza e scoprono che si tratta della stessa Lauren, single in carriera alla ricerca del grande amore, passeranno all'azione e alla guerra (il titolo originale è infatti "This means war" - Questo significa guerra). I metodi con cui si sfidano sono ovviamente quelli che quotidianamente applicano per la cattura di pericolosi criminali, intercettazioni - una fra le scene più divertenti del film è proprio quella che vede i due agenti installare una serie di microfoni e telecamere nella casa della ragazza con lei che continua tranquillamente a cucinare senza accorgersi di niente - cercando di rimanere amici anche nella sfida, che dopo poche scene diventa una partita tra i due, a chi riesce a conoscere meglio i gusti di Lauren, a chi la farà divertire di più, a chi le strapperà un appuntamento in più. Seguono ovviamente rivelazioni, litigi e musi lunghi, ma il lieto fine è assicurato. Fin dalla prima scena, sia pure d'azione fatta di inseguimenti e sparatorie, il tono è dichiaratamente leggero e scanzonato, e si prosegue così, fra battute un po' scontate e scene romantiche sempre sdrammatizzate da interventi tesi a far capire che la storia d'amore è solo pretesto per far sorridere. L'idea di partenza poteva essere sfruttata meglio, perchè le due superspie che sfruttano tutta la tecnologia e i mezzi della Cia per conquistare una ragazza è divertente e gli spunti per svilupparla sono infiniti (e qualcuno McG lo sfrutta appieno bisogna ammetterlo) ma il tono di fondo sa di già visto, sa di equivoci e gag costruite a tavolino per arrivare stancamente ad un finale consolatorio e bonario. Hardy e Pine fanno il loro onesto lavoro, la Witherspoon ha saputo fare di meglio (la ricordiamo magnifica in "Quando l'amore brucia l'anima" con cui vinse l'Oscar), ma la delusione nasce più che altro dal constatare ancora una volta la pigrizia di certe produzioni che si limitano ad assecondare uno script senza cercare di valorizzarlo con qualche guizzo, con qualche trovata, con qualche innovazione. La cosa più divertente resta il punto di vista dell'amica di Lauren, casalinga frustrata dalla battuta pronta. Se ci fosse stata lei al centro della storia ci saremmo divertiti sicuramente di più.
Hunger -
di Steve McQueen con Michael Fassbender, Liam Cunningham,
Stuart Graham, Brian Milligan, Liam Mc Mahon, Helena Bereen, Larry Cowan ***
Prima collaborazione Mc Queen - Fassbender tre anni prima di Shame (Hunger è infatti del 2008), Camera d'Oro a Cannes e manifesto dichiarato dello stile Mc Queen, visivo, fisico, inquietante e spiazzante. Il film segue la storia di Bobby Sands, esponente della lotta per l'indipendenza irlandese, in carcere negli Anni Ottanta quando Margareth Thatcher abolì lo status di prigioniero politico equiparando di fatto tutti i detenuti appartenenti all'Ira a terroristi comuni. A questo seguì lo sciopero "dello sporco" represso dalle guardie carcerarie con una ferocia impressionante e un ben più definitivo sciopero della fame in cui morirono ben nove detenuti in sette mesi, fra cui Bobby Sands appunto. Ma più che un film cronaca o un film biografia Mc Queen ci regala un'opera potente fatta di immagini forti, di pochissimi dialoghi - eccettuata la lunghissima scena centrale (23 minuti e 30 secondi) del colloquio in carcere fra Bobby e un sacerdote, tutta in piano sequenza, inquadratura a distanza sui due prima e primo piano stretto su Fassbender poi - e di un finale lento, prolungato, straziante e indimenticabile grazie anche al fisico devastato di Fassbender. Hunger è il racconto di una fede si potrebbe dire, non importa quale, del credere talmente in qualcosa da essere pronti a sacrificare la propria vita in nome di quel qualcosa. La libertà dell'Irlanda per Bobby Sands, la salvazione dell'umanità per Gesù Cristo. E non a caso certe scene, lasciate in assoluto silenzio, senza neanche un commento sonoro a stiepidirle, evocano il martirio di Gesù, le piaghe da decubito ricordano le stimmate, il lenzuolo macchiato di sangue evoca la Sindone, il volto emaciato e sperduto ripropone l'iconografia di tante immagini di Cristo sulla croce. Il lungo dialogo fra Bobby e il prete che tenta di convincerlo e non intraprendere lo sciopero che lo porterà alla morte e di optare per la via più diplomatica delle mediazioni è intenso, teologico e filosofico, ma è soprattutto la dimostrazione di quanto una fede sia più forte di una qualunque analisi sociale politica e culturale, di una qualunque ragione, di un qualunque compromesso. E infatti non c'è mai rabbia nelle parole di Sands, e non c'è rassegnazione, c'è solo la personale, intima e privata convinzione di star facendo la scelta giusta, coerente con la sua natura. Film potente dicevamo, tanto più nella sua capacità di raccontare un evento storico con toni antiepici e antieroici, mostrando solo i corpi, i gesti di detenuti e poliziotti (le violenze avvengono quasi sempre fuori campo e solo le nocche insanguinate che un poliziotto immerge nell'acqua del lavandino sono lì in primo piano a raccontare l'orrore di quei giorni), lasciando che siano i fluidi corporali a parlare, le cicatrici a raccontare, le celle sporche ad evocare. Mc Queen è capace come pochi di fare un cinema estremamente fisico, che scava nel corpo, e attraverso quel corpo, sempre più scarno, sempre più provato, sempre più mezzo di espressione e di rivendicazione, evocare l'universo che muove quel corpo, rendere materiale, quasi tangibile ciò che invece tangibile non è, quel groviglio di passioni e ideali che portò un ragazzo di ventotto anni a morire dopo 66 giorni di sciopero della fame. Film denuncia si usa dire di pellicole che evocano tragedie come questa, ma in questo caso la denuncia si fa opera d'arte e il vissuto diventa, cinematograficamente parlando, un magnifico esercizio di stile Mc Queen.
Il Castello nel Cielo - di Hayao Miyazaki - Animazione ***
Primo film realizzato dal neonato studio Ghibli di Miyazaki nel 1986 "Il castello nel cielo" ha ancora tutta la freschezza la poesia e la genialità di quando uscì. Del resto la magia del racconto fatto di colori, evocazioni letterarie e personaggi adorabili sono tipici del grande maestro giapponese che anche in questa sua prima produzione mette in campo la sua etica e la sua filosofia. Sheeta, ragazzina coraggiosa e in possesso di una pietra magica che le permette di lievitare in aria, e Pazu, suo indomito compagno d'avventura, piccolo minatore capace di sfidare eserciti e pirati pur di salvare la sua amica, sono la coppia di eroi piccoli e fragili, e per questo tanto più valorosi, che va alla ricerca di Laputa, mitica città sospesa in cielo (omaggio alla città di Laputa descritta da Swift nei Viaggi di Gulliver, ma i riferimenti letterari sono tanti, e non si può non pensare ad Atlantide e al suo mito mentre seguiamo Sheeta e Pazu nella oro emozionante ricerca) inseguiti da un gruppo di malvagi generai che vogliono sfruttare il potere di quella civiltà scomparsa e da ben più concreti pirati dell'aria che vogliono rubare il tesoro custodito nella città fantasma. Come sempre nei film di Miyazaki le ricostruzioni d'ambiente (in questo caso di mondi interi) sono affascinanti e poetiche, e sia il piccolo paesino minerario tutto arroccato sulle rocce in cui ha inizio il film, sia il pianeta sospeso nel cielo sono una trionfo di trovate, di suggestioni, di invenzioni colorate e magiche. E poi c'è la grazia infinita del legame fra i due bambini, e la dolcezza dei robot giardinieri, e la simpatia della famiglia di pirati, tanto numerosi quanto pasticcioni, guidati da una supermamma volante con le trecce alla Pippi Calzelunghe, che si affezionerà a Sheeta e la proteggerà dai veri cattivi, militari squadrati e avidi, che non si fa fatica a detestare. Le metafore che "Il castello nel cielo" mette in campo sono tante e tutte care a Miyazaki, il rapporto fra uomo e natura, con il meraviglioso giardino di Laputa caduto in disgrazia quando la civiltà si è spinta troppo in là con l'avidità e la tecnologia, la magia del volo come simbolo di libertà e di fantasia, la capacità di crescere attraverso ostacoli e difficoltà, ma soprattutto la solidarietà e l'amicizia come legame puro e sincero che tutto sconfigge e tutto vince proprio grazie all' amore che rende coraggiosi e forti anche i più fragili e spaventati. Tutta la magia e la poesia di Miyazaki quindi, ben prima dei capolavori come "La città incantata", "Il castello errante di Howl" o "Ponyo sulla scogliera" ma già capace di regalare emozioni sincere, suggestioni visive uniche e una grazia insuperata ai suoi piccoli eroi.
George Harrison: Living in the Material World - di Martin Scorsese con
Terry Gilliam, George Harrison, Paul McCartney, Ringo Starr, Yoko Ono, Olivia Harrison,
Dhani Harrison, Eric Clapton ***
La passione di Martin Scorsese per i grandi musicisti, che aveva già dato vita ai film dedicati a Bob Dylan e ai Rolling Stones (Bob Dylan: No Direction Home e Shine a Light) ci regala un'altro magnifico documentario dedicato questa volta a George Harrison, il più enigmatico dei Fab Four. Le testimonianze di amici e parenti, di collaboratori e naturalmente di Paul Mc Cartney e Ringo Starr ci restituiscono un'immagine poliedrica di George, interessato alla spiritualità e alla ricerca interiore ma capace di passioni e ironia molto terrene. Il materiale d'archivio è magnifico, e ci permettere di assistere ad alcune sedute di registrazione, ad interviste degli Anni Sessanta, a concerti indimenticabili, facendoci sentire parte della storia , anzi della Storia, perchè l'avventura dei Beatles è stata ben più della nascita e della fine di una rock band, è stata un fenomeno sociale, una rivoluzione culturale, una impronta indelebile nella storia della musica e del costume. Le interviste più toccanti sono quelle con la seconda moglie Olivia e con il figlio Dhani, mentre gli aneddoti raccontati da Paul e da Ringo ci restituiscono un George dotatissimo chitarrista che fece la sua prima audizione con John Lennon a bordo di un autobus a due piani suonando "Raunchy". Attraverso testimonianze e riflessioni ci rendiamo conto di quale sbandamento debbano aver vissuto questi quattro ragazzini di Liverpool divenuti in pochi anni icone quasi religiose per gli adolescenti di tutto il mondo, e il bisogno che tutti e quattro provarono di allontanarsi da tutto questo, di ritrovare una propria dimensione personale, di approfondire una ricerca spirituale che portò Harrison a seguire Ravi Shankar per imparare la meditazione, studiare i mantra e trovare un significato profondo all'esistenza. Gli episodi più "terreni" come la scoperta della relazione fra la prima moglie ed Eric Clapton, o l'aggressione che il musicista e la seconda moglie subirono nella loro casa ci fanno conoscere un George molto umano, reattivo e passionale, e capace di un humor molto british (quando subirono l'aggressione i coniugi Harrison avevano appena assunto una coppia di domestici e George, se pur con un polmone collassato, rivolgendosi ai due domestici traumatizzati dall'aggressione appena subita disse " Niente male il nuovo lavoro, vero?". Chi quell'epoca l'ha vissuta non può non rimpiangere il fermento musicale e culturale della Swinging London e il talento di musicisti immensi che hanno anche trovato il coraggio di abbandonare tutto per diventare uomini a tutto tondo, scegliendo, come fece Harrison, una strada sicuramente in salita, ma che gli ha permesso di raggiungere un magico equilibrio fra vita spirituale e vita materiale. E facendogli comporre, non dimentichiamolo, capolavori come "Something" e "My sweet Lord".
Leafie - La storia di un amore - di Oh Seongyun - Animazione ***
L'anelito di libertà delle galline aveva già ispirato l'adrenalinico e divertentissimo "Galline in fuga" ma con Leafie entriamo in un territorio molto diverso, che per certi versi ci riporta indietro all'animazione classica mentre per altri fa un deciso passo avanti nella maturità del prodotto animato. Leafie è una gallina triste, costretta a vivere in batteria per produrre più uova possibile mentre sogna di avventurarsi oltre il cortile e conoscere il mondo. Quando riesce a scappare la sua natura socievole la porta ad approcciare gli altri animali con gentilezza ed ingenuità, salvo scoprire che il mondo è ben altro da ciò che si aspettava. La grazia con cui attraversa la vita e gli ostacoli è però un antidoto alla cattiveria e alla maldicenza e questo ne fa un'icona di generosità ed altruismo di rara intensità. Quando un uovo di germano reale resterà "orfano" infatti lei lo coverà, alleverà il piccolo anatroccolo come se fosse suo e lo difenderà a costo della vita, spingendolo a volare via quando sarà il suo momento. Una grafica semplice e una natura caleidoscopica fanno da contorno a sentimenti profondi e mai stereotipati, animali antropomorfi come nella miglior tradizione Disney, un villain a tutto tondo, la faina che rende orfano l'anatroccolo Greeny e che Leafie combatterà per tutto il film, che però scopriremo essere anche altro oltre che una predatrice spietata, aprendo la strada per un approfondimento psicologico che manca sovente alle pur divertentissime animazioni degli ultimi anni tanto attente a regalare raffiche di battute e citazioni ma un po' carenti in emozioni. La grazia con cui Leafie affronta la vita e l'amore che riesce a trasmettere non solo all'anatroccolo orfano ma anche ai cuccioli della faina ne fanno un modello alto e sincero mentre la bellezza di alcune scene è assoluta, prima fra tutte la gara di volo cui partecipa Greeny dopo tante umiliazioni e tante emarginazioni dovute all'ottusità degli abitanti dello stagno che non concepiscono come una gallina possa crescere un germano. Non mancano i momenti divertenti e gli spunti brillanti, la figura del castoro e il gallo con la cresta finta ne sono un esempio, ma il tono di fondo resta quello morale, ma mai moralistico. E il finale, lasciato fuori campo e reso vivido solo dalla voce dolce e rassegnata di Leafie, è uno dei più toccanti della storia dell'animazione, maturo, profondo, esempio altissimo di amore incondizionato e di infinito anelito alla vita e alla libertà. La cinematografia coreana ci regala quindi un piccolo grande gioiello semplice e delicato come un fiore, lo stesso fiore con cui Leafie si agghinda la coda non appena scappa dal pollaio, vezzo femminile e dichiarato coraggio in un mondo in cui ogni accenno all'individualità è vista come stranezza da isolare e condannare. Messaggio universale mai presentato con tanta eleganza e lievità.
Marigold Hotel - di John Madden con Judi Dench, Maggie Smith, Bill Nighy, Tom Wilkinson, Dev Patel, Penelope Wilton, Celia Imrie, Ronald Pickup **
La terza età al cinema è sempre un argomento ostico da trattare, si rischia di scivolare nel sentimentalismo, o di accentuare i tono drammatici, o al contrario di fare di ogni piccola defaillance un pretesto per spunti comici. Fortunatamente lo stile british si tiene ben lontano dagli stereotipi e forte del suo humor asciutto e di un solido supporto di battute brillanti e taglienti e ci regala una commedia dai toni agrodolci perfettamente recitata peraltro visto che in campo scendono pezzi da novanta del cinema britannico come Judi Dench, Maggie Smith, Bill Nghy e Tom Wilkinson fra gli altri. Con queste carte vincenti al regista John Madden risulta facile mettere in scena questo gruppo di sette anziani, ognuno con le proprie difficoltà e frustrazioni che per un motivo o per l'altro, talvolta forzatamente, talvolta con spirito di avventura, decide di trasferirsi dall'Inghilterra. Le malinconie del viale del tramonto della vita sono stemperate da quel brivido vitale che ancora scorre sotto pelle, il coraggio che sembrava perduto può essere ritrovato di fronte all'ignoto, rappresentato in questo caso da un paese sconosciuto e da un Marigold Hotel che si rivela ben meno esotico di quanto promesso dal depliant. Il giovane indiano che gestisce l'albergo è il contraltare naturale, con il suo entusiasmo e la sua ingenuità, al cinismo e alla disillusione di chi conosce già il finale di quasi tutte le storie, ma è proprio vedendo il suo coraggio e la sua tenacia che i tremori della vecchiaia lasceranno il posto all'interventismo fatto di esperienza e competenza. Le trasformazioni sono forse fin troppo stereotipate (la nevrotica e un tantino razzista Maggie Smith che nel giro di due scene si trasforma in paladina del giovane indiano e pianifica il risanamento dell'hotel è francamente poco credibile) e certe svolte narrative sono un po' affrettate e troppo ottimistiche, ma il tono generale del film resta delizioso, e il finale un po' favolistico ci sta tutto, perchè dietro uno sguardo spento ed annebbiato dalle delusioni della vita è bello credere che ci sia ancora spazio per entusiasmi, passioni e slanci. La recitazione misurata e mai sopra le righe dell'intero cast fa di Marigold Hotel una perfetta partitura per malinconia e felicità.
Bel Ami - Storia di un Seduttore - di Declan Donnellan, Nick Ormerod con Robert Pattinson, Christina Ricci, Uma Thurman, Kristin Scott Thomas **
Alcuni capolavori letterari sono stati trasportati al cinema più di una volta, in versioni fedeli, o completamente reinventate, o addirittura destrutturate. Il Bel Ami di Guy de Maupassant è sicuramente uno di questi perchè è un personaggio ambiguo, concentrato su se stesso, capace di calpestare chiunque pur di far carriera ed entrare a far parte dell'alta società, specchio dei tempi (la Parigi di fine 800) ma anche terribilmente universale e contemporaneo. George Duroy, tornato dalla guerra di Algeria e in difficoltà economiche, riesce a farsi accettare dalle signore dell'alta società grazie al suo fascino e alla capacità di corteggiare donne annoiate e trascurate dai mariti. Riuscirà a fare carriera nel giornalismo e a partecipare ai giochi politici e sociali di chi conta, ma non sarà mai accettato fino in fondo, anzi, verrà sempre tenuto all'oscuro delle mosse politiche decisive come dei rapporti privati che hanno determinato fortune e carriere. Le tre donne che George sfrutterà senza legarsi veramente a nessuna e da cui verrà talvolta umiliato talvolta aiutato sono specchio della fragilità e della forza dell'universo femminile, e i ruoli sono stati affidati a tre attrici di forte personalità come Uma Thurman, la donna forte e dominatrice, Kristin Scott Thomas, la donna ingenua e fragile, e Christina Ricci, la donna passionale e volitiva, tutte e tre capaci di dare sfumature adeguate a caratteri che senza la loro compostezza recitativa avrebbero potuto risultare stereotipate. George Ha invece volto e fisicità di Robert- vampiro - Pattison, che tenta di togliersi di dosso la scia dell'eroe romantico succhiasangue per approdare ad un arrampicatore sociale succhiaanime, amorale e subdolo quanto basta per dare al suo personaggio una buona credibilità. I confronti migliori sono quelli con la Thurman, tesi e sempre in bilico fra attrazione fisica e disprezzo morale, mentre gli incontri con la Scott thomas e la Ricci restano un po' sbiaditi e scontati. Siamo sicuramente lontani anni luce da capolavori come "Le Relazioni Pericolose" di Stephen Frears o "L'età dell'innocenza" di Scorsese (del resto Pattison non è John Makovich nè Daniel Day Lewis) ma il film si mantiene su un buon livello sia come ricostruzione d'ambiente sia come rappresentazione di un personaggio che oggi come all'epoca di Maupassant attraversa la vita senza scrupoli e senza porsi limiti morali. E si apprezza il desiderio di Pattison di non voler vivere di rendita e di tentare la strada di film più adulti e di personaggi più ambigui.
The Rum Diary - Diario del desiderio - di Bruce Robinson con Johnny Depp, Richard Jenkins, Giovanni Ribisi, Aaron, Eckhart **
Johnny Depp è stato per anni amico dello scrittore Hunter S. Thompson, tanto che prese parte al documentario dedicato alla vita di Thompson e quindi non stupisce che la sua casa di produzione abbia acquistato i diritti di "The Rum Diary" e che lui abbia interpretato il protagonista di questa pellicola che ci trasporta a Puerto Rico alla fine degli Anni 50. Magnifica ricostruzione d'ambiente e di un'epoca, Rum Diary narra le tragicomiche avventure del giornalista Paul Kemp che si trasferisce a Puerto Rico da New York per collaborare con il giornale locale, diretto da Letterman, prototipo divertente (il parrucchino sbilenco lo caratterizza perfettamente) stanco e disamorato quanto aggressivo e rancoroso. I colleghi sono un campionario di tipi spiaggiati ai Caraibi e insabbiati in carriere perse e prospettive nulle, in cui Kemp si inserisce con un pizzico di scetticismo tentando inizialmente di proporre articoli con qualche contenuto ma adagiandosi ben presto all'andamento lento dell'isola, dove si va "per giocare a golf e non per leggere di scioperi e miseria" come gli ricorda il direttore. L'alcool scorre a fiumi, le prime esperienze con l'LSD sono al limite del comico e le avventure che coinvolgono Kemp e soci si fanno sempre più pericolose, tanto che finiscono anche in tribunale e nelle grinfie di affaristi senza scrupoli. In sottofinale ci sarà anche spazio per un rigurgito di orgoglio che dovrebbe portare alla pubblicazione di un articolo esplosivo e che invece finirà con l'ennesima sconfitta. Si sorride molto in alcune scene - e le espressioni di Depp, gigione da par suo, aiutano in tal senso - e soprattutto si gusta l'ambientazione che evoca il mito dello scrittore maledetto tutto alcool e droga che cerca la propria strada e la propria identità in un'isola sperduta ma che allo stesso tempo lo destruttura con scene esilaranti e con situazioni paradossali. Depp alla fine del mondo e ritorno, per omaggiare un'epoca letteraria ed alcolica che rimane unica.
Pollo alle Prugne - di Vincent Paronnaud, Marjane Satrapi con Isabella Rossellini, Maria de Medeiros, Golshifteh Farahani, Mathieu Amalric ***
Dopo l'intenso j'accuse di Persepolis torna la regista iraniana Marjane Satrapi e non manca di colorire a tratti anche questo suo nuovo lavoro con l'animazione, un'animazione dolce e ironica, malinconica e vitale. Come malinconico e vitale è l'intero plot che ci fa conoscere la vita di Nasser Ali grande violinista che un giorno, dopo che la moglie mai amata gli ha frantumato il violino, decide di lasciarsi morire giacendo a letto, fra fantasie e ricordi, fra nostalgie e speranze perdute. Un amore giovanile mai dimenticato, un'ispirazione lunga una vita che si spezza proprio come le corde dell'amato violino, una ragione per vivere che svanisce di fronte all'impossibilità di evocare ancora quell'amore che lo ha tenuto aggrappato al soffio della vita in tutti gli anni passati a suonare in giro per il mondo. C'è un struggente sentimento di solitudine e di sperdimento che pervade lo sguardo di Nasser, c'è la consapevolezza che solo l'amore può essere fonte di ispirazione, non solo artistica ma anche umana, e c'è la resa di fronte ad un destino che ci ha negato la possibilità di essere felici, una resa non rabbiosa però, quasi che l'accettazione di un fato avverso sia parte stessa di quel fato. Gli intermezzi in animazione sono ricami delicati e onirici in un film amaro e dolcissimo allo stesso tempo, capace di farci emozionare con tocchi lievi ed evocazioni lontane. Le figure femminili sono potenti e presenti - la madre di Nasser, rigida e pragmatica fino alla fine quando chiede al figlio di smettere di pregare per lei così che possa finalmente morire in pace (Isabella Rossellini), la moglie mai amata che invece lo ama teneramente da sempre (Maria de Medeiros), l'amore giovanile perduto e però più presente della realtà - e fanno da collante alla vita raminga e triste di Nasser, i figli pur nel loro entusiasmo infantile non riescono a strapparlo alla sua ferma volontà di morire, perchè senza valori in cui credere non si può vivere e l'unico valore in cui Nasser abbia mai creduto, l'amore che l'ha reso capace di comporre musica e per metafora creare vita, è ormai perduto per sempre. Due scene su tutte: l'incontro dopo trent'anni con l'amore della sua vita, che verrà replicata ben due volte nel film , la seconda con ben diverso significato, intensa, dolente, straziante e al contrario una grottesca presa in giro della realtà americana con un siparietto stile sit com per farci sapere quale sarà il destino di uno dei due figli di Nasser. Capace di far ridere e di emozionare la Satrapi ancora una volta dimostra come sia facile per lei raggiungere il cuore degli spettatori e parlare un linguaggio universale, quello dell'amore, sia pur calato in un contesto sociale e politico mai taciuto o rimosso.
Pirati ! Briganti da Strapazzo - di Peter Lord - Animazione ***
Lontanissimi i tempi in cui gli eroi dei film di animazione erano belli buoni e intelligenti, gli ultimi capolavori in computer graphic o stop motion ci hanno fortunatamente abituato a personaggi goffi (Shrek) e spavaldi (il Gatto con gli stivali) imbranati (il Figlio di Babbo Natale) o gaglioffi (Cattivissimo me) e per questo tanto più divertenti. La casa di produzione inglese Aardman Animations cui si deve la fortunata serie di Wallace e Gromit e Galline in Fuga fra gli altri prosegue la sua avventura con i pupazzi in plastilina e latex, unendo questa volta la computer graphic per i fondali, le navi, il mare e realizza un altro capolavoro con protagonista un pirata totalmente incapace e sfortunato, ma che ha ugualmente l'ambizione di vincere il premio "Pirata dell'Anno" - inseguire i propri obiettivi sempre e comunque, come suggerisce la canzone che accompagna varie scene del film "You can get it if you really want" (puoi farcela se davvero lo vuoi) - premio in stile Oscar con tanto di presentatore kitsch col ciuffo alla Elvis. Ma i concorrenti sono agguerriti, vantano tesori e ricchezze che il povero Capitan Pirata si sogna, come fare dunque? Quando lui e la sua altrettanto scombinata ciurma (un albino, un gottoso, una ragazza travestita da uomo tra gli altri, si imbattono nientemeno che in Charles Darwin l'impresa sembra vicina perchè il grande naturalista riconosce nel pappagallo mascotte di bordo un rarissimo esemplare di dodo e convince il capitano a recarsi a Londra per presentare la bestia alla comunità scientifica promettendogli in cambio ori e ricchezze infinite. Ma a Londra c'è la Regina Vittoria, nemica giurata dei pirati... le avventure che coinvolgeranno i nostri antierori sono esilaranti e sempre venate di un ironia britannica che dà l'impronta giusta al film, le citazioni e i riferimenti storici sono esilaranti (l'uomo elefante vestito proprio come nel film di Lynch, con cappello e sacco a nascondergli il viso una trovata geniale) le battute comiche quasi sempre al vetriolo sono sicuramente più per un pubblico adulto che per dei bambini, ma colpiscono nel segno regalando risate intelligenti e la trama un susseguirsi di colpi di scena, trappole e ribaltamenti di fronte che mantengono altissimo il ritmo senza mai cadute di stile. Da un punto di vista tecnico diciamo solamente che per animare la sola barba del capitano c'è voluto più di un anno di lavoro, e la cura maniacale con cui la Aardman realizza i suoi progetti si traduce in perfette messe in scena. Davvero difficile immaginare vette più alte per l'animazione, ma non poniamo limiti all'abilità dei grandi creatori inglesi e ci aspettiamo altri meravigliosi capitani coraggiosi a solcare oceani di fantasia e divertimento.
Piccole Bugie Tra Amici - di Guillaume Canet con Marion Cotillard, Jean Dujardin, Benoît Magimel, François Cluzet ***
Inevitabile ripensare al "Grande Freddo" di Kasdan mentre si assiste alla terza regia di Canet, visto che riunisce un gruppo di amici in un interno fra bugie, piccoli rancori e grandi difficoltà. L'incipit è di quelli classici, un incidente dopo una notte in discoteca e Ludo (il Jean Dujardin di The Artist) finisce in rianimazione. Gli amici accorrono, preoccupati per lui, ma anche per le imminenti vacanze che solitamente trascorrono tutti insieme nella casa del più ricco di loro a Cap Ferret vicino Bordeaux e che dovrebbero iniziare di lì a pochi giorni. Decidono di accorciare le ferie ma non rinunciare, e già questo ci dice quanto i vari personaggi siano focalizzati su loro stessi e le proprie esigenze, chi preoccupato di recuperare il rapporto con l'ex fidanzata, chi turbato dalle confidenze di un amico di vecchia data che improvvisamente si scopre attratto da lui chi incapace di ammettere il vuoto della propria vita e chi obbligato a confrontarsi con una gravidanza che comporta responsabilità mai cercate. Ci saranno scontri, rivelazioni, sfoghi e riconciliazioni, ma ci sarà soprattutto spazio per mettere a nudo le piccole meschine verità che ognuno di noi si porta dentro senza neanche avere il coraggio di ammettere con se stesso. Sono personaggi umani, umanissimi quelli che Canet mette in campo e talvolta il loro ridere e scherzare mentre il loro amico lotta fra la vita e la morte infastidisce, ma è un fastidio positivo, perchè ci restituisce quella coscienza e quella consapevolezza che spesso la superficialità del quotidiano fanno dimenticare. La voce critica del più vecchio di loro, un grillo parlante che ha il coraggio di smascherare falsi buonismi e ipocrisie, ha il valore di uno schiaffo all'egocentrismo imperante e al superficialismo dilagante della società in cui si muovono questi trenta quarantenni parigini, ecologici e liberali, ma incapaci di staccarsi dai propri piccoli problemi esistenziali anche quando la tragedia è di fronte ai loro occhi. Punta il dito Canet, ma è anche indulgente con questi giovani adulti, rendendoli meno brutalmente negativi di quanto avrebbe potuto fare se avesse voluto affondare il coltello, e la scena finale ce li restituisce più umani nel dolore, più consapevoli di loro stessi e delle loro meschine rivendicazioni. Un film atipicamente lungo per la cinematografia francese, più di due ore e mezzo, che si prende tutto il tempo necessario per i silenzi e per le scene madri, per le lacrime e le risate, per emozionare e indignare, per commuovere e per far riflettere. Il tutto con una colonna sonora impeccabile, con pezzi magnifici e pieni di pathos che accompagnano magnificamente le scene più toccanti. Un gran film che in Francia ha avuto critiche contrastanti ed incassi stratosferici a testimonianza che quando si toccano corde private tanto sensibili le reazioni sono inevitabilmente le più varie, e a testimonianza che Canet ha messo in scena caratteri e persone (non personaggi) molto molto reali.
Biancaneve - di Tarsem Singh con Julia Roberts, Lily Collins, Armie Hammer, Nathan Lane *
Il titolo originale del film, "Mirror Mirror" (Specchio Specchio) fa capire che questa volta al centro di una delle favole più famose di tutti i tempi è la regina cattiva, contraltare della innocente Biancaneve e sicuramente di maggior spessore come personaggio cinematografico, tanto che la parte è stata affidata a Julia Roberts, star che sa giocare a sufficienza con se stessa per affrontare un ruolo quasi fumettistico. Il regista indiano Tarsem Singh (The Cell, Immortals) ha l'idea buona, spostare i riflettori su un personaggio negativo invece che sull'eterna bellezza-bontà di Neve, qui ragazzina dolce e ingenua nella prima parte ma coraggiosa guerriera in seguito - i tempi cambiano e nessuna ragazza d'oggi accetta mele da una sconosciuta e si fa sottomettere - ma il film resta una semplice parodia di quel che avrebbe potuto essere, senza sviluppare mai a fondo le tematiche psicanalitiche che la favola dei fratelli Grimm ha sempre ispirato. Divertenti alcune scene, i trattamenti di bellezza di Julia Roberts sembrano usciti da una Spa new age, simpatica l'idea di trasformare i nanetti in briganti del bosco che si aggirano sui trampoli a far rapine, ma nessun guizzo vero, nessuna reale invenzione registica, perchè se è vero che in questa versione la giovane Neve prende coscienza di sè, dei disagi del popolo e di cosa significhi vivere in una tirannia, è altrettanto certo che i personaggi di contorno, il principe in primis, restano figurine senza spessore e senza carisma. Sprecato ad esempio impiegare un attore sublime come Nathan Lane in una parte di contorno (il valletto reale) quando avrebbe potuto dare maggior verve a tutto il film, e decisamente inutili ai fini del messaggio del film le scaramucce fra le due primedonne, visto che si mantengono sempre su un piano dialettico già visto e sentito. La gelosia di Gremilde avrebbe potuto dar luogo e ben altro script, e anche gli occhioni di Lily Collins (figlia del batterista dei Genesis Phil) avrebbero potuto venarsi di un pizzico di cattiveria in più invece di limitarsi a compiere un passo verso la consapevolezza e la coscienza sociale. Il balletto finale in stile Bollywood è decisamente divertente e strappa un sorriso, ma è un po' poco per non rimpiangere la vecchia classica meravigliosa versione Disney della fiaba.
Romanzo di Una Strage - di Marco Tullio Giordana con Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Laura Chiatti, Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni, Laura Chiatti ***
Ci sono eventi che nella memoria collettiva occupano un posto talmente ingombrante da rendere difficile qualunque approccio narrativo. La strage di Piazza Fontana del 1969 in cui morirono diciassette persone e ne furono ferite ottantotto è sicuramente uno di questi, ma Marco Tullio Giordana non si fa scoraggiare da una materia tanto scottante e prova a ricostruire la cronaca, ma soprattutto la non cronaca, cioè il non detto e l'insabbiato, il rimosso e il volutamente taciuto, di quei giorni. Giorni difficili, con lo stato impegnato a combattere gli estremismi politici di destra e di sinistra, con infiltrati ovunque, con depistaggi e delazioni, con i poteri forti e i servizi segreti attenti a vigilare ma non sempre a prevenire per favorire un clima politico che consentisse scelte estreme. In tutto questo la vicenda umanissima dell'anarchico Pinelli e del commissario Calabresi riesce a stagliarsi nitida in un film lucido e rigoroso ma anche sentimentale ed emotivo, perchè i volti di Favino (Pinelli) e Mastrandrea (Calabresi) hanno malinconia sincera e sofferenza autentica, e il confronto fra i due è sempre altro, altro da un interrogatorio, altro da un confronto ideologico, altro da uno scontro verbale. E' l'incontro tra due persone oneste che credono nei loro ideali e che per questi perderanno la vita, pedine sacrificabili in un gioco troppo grande per loro. La verità storica suggerita da Giordana è probabilmente quanto di più vicino alla realtà si potesse raggiungere dopo decenni di processi che hanno mandato assolti tutti e addebitato le spese processuali ai parenti delle vittime, ma quello che è più interessante nel suo film è la ricostruzione di un'epoca, la lettura di personaggi controversi come Valpreda, Freda, Ventura, simboli di uno scontro politico ed ideologico che oggi sembra lontanissimo ma che in quegli anni ha dilaniato l'Italia fino a farle sfiorare il colpo di stato. Il tormento morale e l'ambiguità di comportamento dei politici, Aldo Moro in testa (un perfetto Fabrizio Gifuni) sono il contraltare agli ideali puri e puliti di Pinelli e Calabresi e la quotidianità delle loro vite private dà la misura di quanto quegli uomini e le loro famiglie abbiano pagato per uno stato che pensava più ai propri interessi che a tutelare i propri cittadini. Una tragedia scritta da Shakespeare, questo potrebbe sembrare il viluppo di potere e sentimenti che avvolge l'intera vicenda, ma è tutta italiana la vergogna di un'epoca che ancora oggi ci portiamo dentro come una colpa collettiva. Una scena su tutte: la madre di Pinelli arriva in Ospedale per avere notizie del figlio e i medici la lasciano sola, ad implorare una verità che ancora oggi non può essere svelata.
The Raven - di James McTeigue con John Cusack, Alice Eve, Luke Evans,
Brendan Gleeson *
Onesto thriller che cerca di fare delle atmosfere gotiche il suo fascino, The Raven parte da uno spunto interessante per mettere in scena gli ultimi giorni di vita di Edgar Allan Poe e costruirci intorno un giallo di impronta tradizionale. In una Baltimora piovosa, notturna e vagamente spettrale un serial killer uccide e sue vittime ispirandosi alle opere letterarie di Poe, che dopo i grandi successi letterari trascorre le sue giornate fra bettole e disavventure, innamorato di una giovane e inviso al padre di lei. L'investigatore a capo delle indagini coinvolgerà Poe nella ricerca del colpevole e lo scrittore ritroverà vena poetica e grinta per tentare di catturare chi sfrutta le sue macabre creazioni letterarie per seminare dolore e paura. Film dignitoso e di buona fattura, senza invenzioni e senza impronte registiche originali, ma comunque in grado di sviluppare una trama misteriosa ambientando il tutto in una ambito di sicuro fascino come il mondo letterario di uno scrittore che ha scritto tra le pagine più originali di tutti i tempi. Cusack è un Poe alla deriva, non troppo carismatico e mai protagonista fino in fondo, ma tutto sommato il film si fa vedere per a sua scorrevolezza e per gli echi letterari che si rincorrono da un omicidio all'altro.
I Colori della Passione - di Lech Majewski con Rutger Hauer, Charlotte Rampling, Michael York, Joanna Litwin, Oscar Huliczka ****
I Colori della Passione sono quelli che Peter Brugel Il Vecchio dipinse nel 1564 nel quadro "La Salita al Calvario" un'opera complessa e criptica con più di cinquecento personaggi. E sono quelli che il geniale regista polacco Majewski restituisce in un film capolavoro che è un'esperienza visiva totalizzante ed appagante. L'idea di dare corpi e storie ad alcuni di quei tanti personaggi è già originale ed unica, ma la messa in scena è un atto d'amore verso l'arte e la pittura come raramente se ne sono viste in precedenza. Ogni inquadratura è fotografata ed illuminata come se fosse un quadro fiammingo, ogni scena ha un' estetica estrema ma mai superflua e l'equilibrio della composizione finale è una combinazione fra geometrie rigorose e fantasie sfrenate che restituisce tutta la bellezza dell'opera pittorica e tutta la genialità di Brugel. I dialoghi sono quasi inesistenti, e solo in alcune scene lo stesso Brugel, un intenso e misurato Rutger Hauer spiega la sua visione pittorica, la volontà di porre al centro del quadro, piccolo e quasi nascosto, il Cristo in Croce, perchè secondo lui i grandi avvenimenti della storia sono sempre scivolati via, quasi inosservati dai contemporanei. E così anche Gesù è solo uno dei tanti poveri vessati dagli invasori spagnoli drappeggiati in rosso, e il mulino sospeso sulla montagna con il mugnaio affacciato a guardar giù con aria indifferente il destino degli uomini metafora di un Dio lontano ed altero. Ci sono poi tutta una serie di personaggi apparentemente minori ma descritti con grande efficacia da pochi tratti caratteriali a dare all'opera un senso allegorico e profondo che restituisce un mondo antico e lo riempie di allusioni e messaggi universali. Il volto di Maria, una dolente e segnata Charlotte Rampling, chiuso in una sofferenza immobile ed eterna, ha la luce della maternità più matura e consapevole, la giovane moglie di Brugel ha negli occhi la solarità della giovane madre gioiosa e felice. E' solo uno dei tanti esempi di contrasti estremi e violenti che svelano la realtà in questo magnifico film fatto di silenzi, di squarci di luce e di un sottotesto affidato paradossalmente alle immagini. Un'esperienza visiva dicevamo prima, ma anche un'esperienza emozionante e coinvolgente, perchè la grandezza dell'opera di Brugel e la bravura di Majewskj, anche direttore della fotografia in questo caso, riescono a confezionare un rarissimo capolavoro di eleganza, bellezza e profondità, dove il significato (quindi il contenuto) ed il significante (l'espressione) coincidono con magica sintonia.
E' Nata una Star? - di Lucio Pellegrini con Luciana Littizzetto, Rocco Papaleo e
Pietro
Castellitto *
Avevamo una speranza accingendoci a vedere "E' nata una Star?", e cioè che il fatto di essere tratta da un libro di Nick Hornby ne facesse una commedia lontana dagli stereotipi italiani. E invece purtroppo no, siamo sempre intrappolati in gag abusate, in scene che potevano far sorridere trent'anni fa ma ormai sono superate e inutili, in battute che si intuiscono già prima che vengano pronunciate tanto sono scontate. L'idea forte naturalmente c'è, Lucia e Fausto, una coppia di genitori scopre all'improvviso che il figlio adolescente fa l'attore in film porno: che fare? Lo stupore, l'indignazione, la caccia agli autori del film e i dubbi etici e morali erano temi che avrebbero potuto dar vita a ben altro film, peccato che Pellegrini si limiti a mettere in campo la bravura della Littizzetto e di Papaleo (anche se a volte sono più caricati e caricaturali del dovuto) e a lasciare che il film si dipani fra una gaffe e l'altra (Papaleo che compra i dvd del film con il figlio e li lascia cadere per strada con i passanti che vedono e giudicano è davvero troppo abusata!) tra un disappunto e un fraintendimento, fra una banalità e l'altra. Una commedia italiana quindi, e non una commedia al'italiana, che voleva dire ben altro nei tempi d'oro in cui la carica di critica , anche feroce, sociale ed umana, sosteneva i film brillanti, ma una delle tante esili, esilissime pellicole che il nostro cinema sforna senza cercare mai di elevarsi e di tentare una sceneggiatura più corposa, una recitazione più sfumata, un quadro d'insieme che non si limiti a battute singole o scene divertenti (almeno nelle intenzioni) ma che comunichi non necessariamente un messaggio, ma almeno un pensiero che induca a riflettere sorridendo sui mali della nostra società, perchè la commedia questo dovrebbe fare, e bene lo sanno in Francia ed Inghilterra, ma questa è una annosa questione che a quanto pare i nostri produttori, troppo concentrati sul messaggio "Dobbiamo far ridere gli spettatori" non vogliono proprio capire a discapito di chi vorrebbe ridere sì ma senza lasciare a casa emozioni e riflessioni. Auguriamo però ai due attori script migliori, perchè li meritano (Papaleo torna alle ambientazioni di "Basiicata Coast to Coast" al più presto!)