Maggio 2013
Il Grande Gatsby - di Baz Luhrmann con Leonardo Di Caprio, Tobey Maguire,
Carey Mulligan, Jason Clarke ***
Scelto per aprire fuori concorso la rassegna di Cannes 2013 il Gatsby di Luhrmann ha echi di Moulin Rouge nelle scene coreografate di danze sfrenate nei ruggenti anni venti, un amore sofferto e drammatico come quello di Romeo + Juliet, una voce fuori campo che evoca la inarrivabile bellezza letteraria di Fitzgerald ma nonostante tutto lascia talvolta perplessi pur costruendo un affresco d'epoca di grande fascino. Siamo ai primi Anni venti e il giovane Nick Carraway, aspirante scrittore, si trasferisce a New York dove inizia a frequentare, grazie alla cugina Daisy, il mondo torbido, annoiato e trasgressivo dell'high society. Il giro di feste sfrenate, di tradimenti e alcool a gogò nasconde una noia sociale, un'inquietudine culturale e un vuoto esistenziale che Nick inizialmente fatica a comprendere ma a cui presto si abituerà grazie alla conoscenza del suo vicino di casa, il ricchissimo J. Gatsby, passato oscuro e fascino esibito nei sfarzosissimi party che dà ogni sera nella sua villa. Nick scoprirà pian piano molte verità su Gatsby, personaggio da sempre ambiguo, complesso, con un bisogno assoluto di controllo su se stesso e sugli altri capace di un amore puro ed idealizzato verso Daisy e di scatti di pura violenza. Le vicende sentimentali si intrecciano nella pellicola di Luhrmann con l'ampiezza scenografica e coreografica, alternando un intimissimo senso di vuoto con un caleidoscopio di luci, suoni, colori che stordiscono e catturano. C'è un cuore aritmico che è in bilico fra fibrillazioni sociali e bradicardiche delusioni affettive in Gatsby, c'è un'ambizione sfrenata che non stempera l'inquietudini delle umili origini, ma c'è soprattutto un mondo, un'epoca, un esplosione di musica jazz, di mondanità e di stordimento che se nelle pagine di Fitzgerald aveva il tono languido della trasgressione decadente ha, in un film che esce nel 2013, gli echi di un annoiato fine settimana in qualunque metropoli del mondo. Difficile imputare al regista questo senso di banalità che traspare dalle pur bellissime scene di ballo e di bevute, ma forse quello che manca per fare di questo Gatsby un grande Gatsby è la capacità di andare oltre le apparenze, anche se Di Caprio è magistrale nel caratterizzare il sulfureo J. che si trasforma in goffo e imbarazzato adolescente quando deve rivedere il grande amore della sua vita. C'è la morte alla fine della strada di chi esagera in sicurezza di sè, in speculazioni economiche ed emotive, e c'è lo sguardo gigantesco di un cartellone pubblicitario che tutto vede e niente giudica, perchè un personaggio come Gatsby risucchia ogni remora morale, ogni pregiudizio e ogni etica, inghiottite dal vortice di vitalità, di forza e di fragilità nascosta che emana ad ogni gesto, ad ogni desiderio, ad ogni sorriso. Bravissimo Di Caprio come dicevamo, un po' sottotono la Mulligan che non accende mai la su Daisy e Maguire fa ciò che deve, il testimone sbiadito di una vita superlativa, che fra fuochi d'artificio e bollicine di champagne non riesce mai ad assaporare il senso profondo della vita, vittima di quella sete insaziabile di perfezione e di assoluto che lo consuma.
A Lady in Paris - di Ilmar Raag con Jeanne Moreau, Laine Mägi, Patrick Pineau, Ita Ever, Fabrice Colson, Corentin Lobet ****
Delicato, sommesso, giocato sulle emozioni dimenticate e su quelle che riempiono di rabbia e rimpianti la vecchiaia il film di Ilmar Raag ha toni lievi ma accenti malinconici, scene sottolineate e svolte sussurrate, che ne fanno un piccolo ricamo d'arte cinematografica. Anna vive in Estonia e dopo la morte dell'anziana madre si trova sola, divorziata e con i figli ormai grandi lontani da casa. Quando riceve la proposta di un lavoro a Parigi, lei che parla perfettamente il francese, decide di accettare e arriva così in un elegante appartamento borghese, dove dovrà svolgere il lavoro di badante per Frida, anziana burbera ed eccentrica, di origini estoni anche lei, ormai lontana dal suo ruolo di donna bella e corteggiata, prigioniera in casa per non affrontare l'indifferenza della gente, fortemente legata all'ultimo uomo amato, Stèphan, proprietario di un bar e unico amico rimasto alla anziana donna. Anna inizialmente è accolta con rancore e cattive maniere, ma spinta da Stephan a non arrendersi resiste e pian piano fa breccia nella corazza di sarcasmo e cattiveria di Frida, riuscendo ad instaurare con lei un rapporto di reciproco rispetto in cui emergono le profonde solitudini, le frustrazioni, le fragilità e le paure di due creature apparentemente lontanissime per cultura, esperienza e carattere, ma in realtà più simili di quanto sembri, con il loro bisogno di amare ed essere amate, con il desiderio di appartenere ad un luogo e ad una città - Parigi diventa spesso soggetto nel film, con le strade notturne vuote e silenziose a parlare di solitudine, con i café dove si incontrano sempre gli stessi uomini ma non le stesse donne perchè, come dice Stéphan "le donne sono più intelligenti e dopo un po' si annoiano a frequentare gli stessi posti". C'è tutta la paura di invecchiare nel volto sempre mobile e bellissimo di Jeanne Moreau, ancora gelosa dell'ex amante perchè avere ottanta anni non impedisce di soffrire ancora per amore, ma che in finale di film spinge Stephan verso Anna, con un gesto generoso che però nasconde anche il bisogno di essere ancora una volta protagonista, deus ex machina che trasforma Anna da provinciale ad elegante parigina, che si diverte a scandalizzare i suoi amici benpensanti e che rivendica la libertà di essere sgradevole e aggressiva se questo significa essere ancora viva. L'apatia in cui versa Frida all'arrivo di Anna è speculare a quella in cui versa Anna, che lungo il lento fluire della pellicola riscoprono, senza clamori registici e senza scene madri ingombranti, il profondo significato del vivere e del confrontarsi con gli altri. Immensa la Moreau ma altrettanto intensa ed espressiva Laine Mägi nel dare alla sua Anna fragilità e forza, paura e desiderio, testa nel passato e cuore nel futuro. E Patrick Pineau è bravo a delineare un uomo in bilico fra egoismo e affetto, fra desiderio di indipendenza e rispetto per sentimenti ormai lontani ma mai dimenticati, fra tenerezza ed insofferenza.
Le Avventure di Taddeo l'Esploratore - di Enrique Gato - Animazione ***
Deliziosa produzione spagnola per questo timido e goffo emulo di Indiana Jones che va a caccia di tesori incas. Taddeo è un bambino orfano che vive con la nonna e sogna di trovare un giorno un grande tesoro, ma si accontenta di trovare nel giardino di casa uno dei gemelli del padre che non ha mai conosciuto. Diventato adulto Tad, Tad Stones, come si fa chiamare adesso, continua a scavare, ma solo nei cantieri edilizi, per lavoro. Dopo l'ennesimo licenziamento si reca a trovare un suo amico, il professor Humbert, vero archeologo, che proprio durante la visita di Taddeo scopre che un suo collega in Perù ha trovato la via che porta alla scoperta di Paititi, città magica Inca ma che ha bisogno della metà di un antica tavoletta in possesso del professor Humbert. Per una serie di imprevisti il compito di portare la tavoletta in Perù passa a Taddeo, che insieme al suo fedele cane attraversa l'Oceano, incontra Sara, figlia del collega di Humbert e si trova invischiato in una caccia al tesoro in cui non manca proprio nulla, dalle mappe da decrittare, alle pareti che nascondono tempi millenari, agli inseguimenti fra buoni e cattivi, alla conquista della bella Sara a scapito di Max Mordon, archeologo mito di Taddeo e fidanzato di Sara che si scoprirà essere il vero villain della storia. I personaggi di contorno sono una compagnia assortita e divertentissima, - il pappagallo muto Belzoni che si esprime con cartelli di pietra, l'autista Freddy parente stretto di Eta Beta con le tasche piene di oggetti da vendere per mantenere le sue innumerevoli famiglie, la mummia immortale che cita la psicanalisi con più sapienza di Woody Allen - le trovate originali non mancano - la mongolfiera a forma di hot dog su tutte, ma anche il tormentone telenovela - la trama chiaramente ispirata alle peripezie di Indy è ricca di ambientazioni accattivanti e la grafica lineare ha nelle scenografie e nel ritmo il suo punto forte. Godibilissimo quindi l'esperimento spagnolo, con un protagonista adorabile, paradigma di tutti i timidi sognatori che trionfano con la loro onestà e tenacia e capace di divertire in modo semplice e genuino. Una citazione a parte merita la scena in cui il professor Humbert regala un cappello a Taddeo e gli confida che è appartenuto niente meno che al grande Indiana Jones. Risposta lapidaria di Taddeo "Mai sentito nominare..." che rende perfettamente il senso del tributo che Enrique Gato ha voluto rendere al mito dell'archeologia cinematografica, con un film ironico, tenero e che piacerà non solo ai bambini.
Confessions - di Tetsuya Nakashima con Takako Matsu, Yukito Nishii, Kaoru Fujiwara, Masaki Okada ****
Cinematograficamente potentissimo, visionario ed ipnotico, estetico ma non estetizzante, capace di raggelare e inorridire senza mai strappare il velo alle emozioni "Confessions" ha forse una scarsa verosimiglianza, ma se si abbandona il giudizio razionale sui comportamenti deviati di adolescenti ed adulti strappati all'empatia umana da un dolore sordo che corrode la ragione e si segue il percorso tortuoso e perverso dei protagonisti si rimane incantati dalla facilità con cui Nakashima sa distribuire colpe e nevrosi, deliri e dogni infranti, ribaltando ruoli e costringendo i personaggi entro pericolosi labirinti mentali. Una scuola media giapponese, una scolaresca distratta, la signora Moriguchi è un'insegnate che sta per abbandonare il suo ruolo e prima di lasciare i suoi alunni racconta una storia, la sua storia, di madre cui è stata uccisa la figlioletta di pochi anni, proprio da due ragazzi della sua classe. Archiviato come incidente dalla polizia l'omicidio della bambina è diventato per la madre un fatto privato, e la sua vendetta sarà altrettanto mostruosa del gesto criminale che l'ha generata, anche se non sarà una punizione fisica, ma una tortura psicologica lenta ed inesorabile, che sconvolgerà l'intera scolaresca e farà uscire allo scoperto fragilità, rabbie e desideri di protagonismo dei giovani alunni. Non anticipiamo altro della trama perchè i tanti flashback, e forward, vanno assaporati e scoperti man mano, con lo sgomento, lo sconcerto, e l'incanto dello spettatore finalmente sorpreso da un film originale, teso e violento, ma estremamente poetico nello svolgimento e nella realizzazione. Le tante voci narranti, che a volte quasi si sovrappongono sono una melodia dissonante che magicamente compone una sinfonia agghiacciante che intrappola vittime e carnefici. La solitudine di un bambino abbandonato si trasforma in rabbia e violenza assoluta, l'amore dolente di una madre trasforma una donna in nemesi algida e scarnificata, la voglia di protagonismo - vera tragedia dell'adolescenza contemporanea - diventa movente lucido e pianificato, privato di ogni passione ed emozione, magistralmente risolto da Nakashima con l'esplosione finale - fisica, metaforica ed emotiva - che ci restituisce un ragazzo umano, privato del suo futuro e smascherato nella sua fragilità di figlio. Protagonisti abilissimi nell'attenersi alle stravaganze registiche - anche acustiche con echi e voci ovattate - volute da un regista coraggioso e visionario, geniale inventore di un universo sociopatico pericolosamente tangente a quello contemporaneo.
No - I Giorni dell'Arcobaleno - di Pablo Larrain con Gael García Bernal, Alfredo Castro, Antonia Zegres ****
Accolto calorosamente all'ultimo Festival di Cannes e candidato agli Oscar come Miglior Film Straniero il film di Larrain è una ricostruzione storica accurata, una pagina di ottimo cinema e una analisi antropologica sottile. L'azione si svolge in Cile, 1988, nazione schiacciata e ferita da quando nel 1973 il generale Pinochet, con un colpo di stato, prese il potere spodestando il presidente Allende. Gli anni di repressione, torture, con migliaia di uomini e donne scomparsi, hanno alzato il livello della tensione e le critiche internazionali costringono Pinochet ad indire un referendum che legittimi la sua posizione. Il fronte del no è consapevole del rischio brogli e intimidazioni ma decide di mettere in campo ogni forza ed ogni idea possibile per convincere i cileni a vincere la paura e ad andare a votare. La televisione di stato concederà ogni giorno quindici minuti alle ragioni del sì e quindici minuti a quelle del no, e saranno minuti fondamentali per far conoscere a chi guarda la verità, e ad offrire un'alternativa alla paura paralizzante che fa prevedere un fortissimo astensionismo. Gli spot preparati dagli esponenti politici del "no", fatti di immagini cruente della repressione militare, vengono sottoposti al giudizio di René Saavedra, pubblicitario di successo che passa con disinvoltura dai forni a microonde alle telenovelas. Il giudizio lapidario di Renè è che uno spot del genere "non vende" e all'osservazione inorridita dei vertici del comitato che immagini di torture e sequestri non devono vendere ma emozionare lui replica che "non sarà con immagini così tristi che convincerete i cileni a vincere la paura, dobbiamo parlare di felicità". Ed è così che vengono girati una serie di spot che parlano di futuro, di felicità, di speranza e libertà, in stile pubblicitario con musiche accattivanti e tormentoni musicali legati ad immagini solari che inizialmente sconcertano gli esponenti più radicali ma che poi hanno un tale successo televisivo da costringere gli avversari ad ingaggiare a loro volta un pubblicitario - il capo di Renè tra l'altro - per girare spot nello stesso stile non paludato. L'esito del referendum cambierà le sorti del Cile e la lenta passeggiata che Renè compie fra la folla esultante, concedendosi un timido sorriso prima di tornare a girare patinati spot per programmi televisivi, ci ricorda come un'idea vincente possa essere contagiosa. Due scelte raffinate e originalissime contraddistinguono "No", la prima è quella di affidarsi ad una fotografia e ad una regia perfettamente calate negli anni in cui il referendum si svolse, l'altra quella di sovrapporre in numerose scene i volti invecchiati di chi all'epoca partecipò agli spot - attori, cantanti, politici e presentatori tv - a quelli dei veri spot in cui appaiono giovani, in un gioco di rimandi raffinato ed emozionante. Lo scetticismo dei politici di fronte allo stile di chi vende prodotti commerciali ci dimostra quanta strada da allora abbia fatto la politica, perchè oggi nessuna campagna elettorale può prescindere dal potere dei consulenti di immagine e dagli strateghi della comunicazione. La figura di René - un Gael Garcia Bernal trattenuto ma incisivo nel suo procedere - padre premuroso e attivista frenato all'inizio del film, è una carattere autentico e sincero, che rende la pellicola ancora più intensa, lontana dagli estremismi e dai fanatismi, fedele alla storia ma ancora di più al pathos cinematografico. Toccante la visione degli appelli televisivi di Christopher Reeve, che insieme a Jane Fonda e Richard Dreyfuss appoggiò la campagna del no e inquietante la domanda di fondo che pone il film: la televisione ha davvero il potere di influenzare un voto, e se - come in questo caso - riesce a squarciare un velo d'indifferenza e a coinvolgere chi non aveva il coraggio di partecipare - è sempre un male o un male necessario?
Fire with Fire - di David Barrett con Josh Duhamel, Rosario Dawson, Bruce Willis,
Vincent D'Onofrio *
Svogliato film d'azione che non aggiunge niente di nuovo alle centinaia di pellicole simile prodotte negli anni. Jeremy Coleman, vigile del fuoco, assiste in un negozio ad una sparatoria ad opera di un gruppo di esalatati ariani ai danni del proprietario e di suo figlio. La sua testimonianza può inchiodare il capo della banda Hagan cui dà la caccia da tempo il poliziotto stanco e disincantato Mike Cella e così Coleman viene inserito nel programma protezione testimoni. Naturalmente si innamora della bella federale che deve proteggerlo, naturalmente verrà rintracciato da Hagan e naturalmente darà vita ad una controvendetta fatta di sparatorie ed agguati. L'andamento del film è talmente prevedibile che neanche la buona volontà di Bruce Willis e Vincent D'onofrio salvano dal tedio e l'ultima parte rischia di risultare ridicola nel suo crescendo di sguardi truci e frasi fatte. La trasformazione da riservato e corretto pompiere a giustiziere col coltello fra i denti di Duhamel lascia francamente indifferenti, lo spessore psicologico del gruppo di fanatici al seguito di Hagan è decisamente superficiale e pigro e lo sguardo ironico-stanco di Willis non può da solo giustificare un progetto fotocopia di tanti altri, con dialoghi stereotipati e trama inconsistente.
Qualcuno da amare - di Abbas Kiarostami con Ryo Kase, Denden, Rin Takanashi, Tadashi Okuno ***
Impianto quasi teatrale per il nuovo lavoro di Kiarostami che approda in Giappone e rinchiude i suoi protagonisti in ambienti ristretti, un salotto affollato di libri, una macchina, un locale notturno, un officina, creando una sensazione di prigione emotiva entro cui si muovono - un po' sperduti, un po' vittime della coazione a ripetere - le figure leggermente sbiadite del plot. Akiko è una studentessa approdata a Tokio dalla provincia insieme ad un'amica, studia all'università ma lavora anche come prostituta recandosi a casa di facoltosi uomini. In più ha un fidanzato gelosissimo che ignora la sua doppia vita e la bombarda di telefonate per sapere dove è e cosa fa - paradigmatica nel descrivere l'ossessione del ragazzo la richiesta di lui di far contare ad Akiko le mattonelle del bagno del locale dove dice di trovarsi per poter poi controllare se sia vero contandole a sua volta. La storia inizia in medias res, Akiko deve recarsi a casa di un anziano professore a cui il suo protettore tiene molto, lei tentenna, non ha voglia, deve studiare per un esame, ma alla fine decide di recarvisi. Giunta lì trova uno studio affollato di libri, di quadri, di passato fatto di foto e di solitudine fatta di minestre riscaldate. Il dialogo si fa intimo, complice, ma mai erotico, tanto pù che Akiko si addormenta poco dopo essere arrivata. Il mattino dopo il professore la accompagna in macchina all'università e lì conosce il fidanzato di lei, che lo scambia per il nonno venuto a Tokio in visita. Il vecchio professore sta a gioco, regalando perle di saggezza al ragazzo. Il ritorno di Akiko li vedrà insieme per qualche ora, salvo poi dividersi e riunirsi ancora a carte scoperte, con la verità svelata e il futuro compromesso. Mai completamente risolto il film vive di lampi nel buio, dialoghi profondi e sinceri inseriti in scene fin troppo rallentate e rarefatte, momenti intensi e commoventi - le registrazioni dei messaggi telefonici della nonna di Akiko sono sublimi, come pure le confidenze sentimental-pettegole della vicina di casa del professore, figure marginali che però risultano più centrate e ficcanti dei protagonisti - finendo per risultare nel complesso un po' asfittico e decisamente carente nel finale, sospeso e interlocutorio come è nelle corde di Kiarostami, ma non del tutto appagante, perchè se l'apparente distacco emozionale può essere metafora di quella solitudine che paralizza e spaventa è però troppo poco sviluppato il pathos sottostante, quello strisciante legame che unisce i tre protagonisti senza mai veramente amalgamarli in una trama convincente. Come dicevamo non mancano i momenti di pregio, però si ha l'impressione di una mano un po' svogliata nello scavare nelle anime dei personaggi, lasciando che siano semplicemente i loro sguardi sperduti a comunicare la fragilità e l'inquietudine, ma da un regista che ci ha emozionato con "il Sapore delle Ciliegie" dove davvero dietro i silenzi si nascondevano abissi di emozione possiamo e dobbiamo aspettarci di più.
Effetti Collaterali - di Steven Soderbergh con Rooney Mara, Jude Law ,Channing Tatum, Catherine Zeta-Jones, Vinessa Shaw ***
Le dark ladies di Soderbergh si intrecciano con drammi sociali, speculazioni finanziarie e ricerca farmaceutica, in una pellicola multiforme, sicuramente avvincente, mai prevedibile, ma un po' troppo affollata di tematiche per inserirsi fra i migliori lavori del regista. Emily Taylor accoglie all'uscita del carcere il marito Martin che ha scontato quattro anni per insider trading e insieme cercano di rimettere insieme una vita interrotta bruscamente. Una mattina lei sale in macchina, spinge il pedale dell'acceleratore e si lancia contro un muro. Il ricovero conseguente la porta a confessare la depressione che da anni la assilla e la mette in contatto con uno psichiatra, il dottor Banks che la prenderà in cura cercando la terapia adatta per lei visto che gli effetti collaterali degli ansiolitici sono spesso più difficili da sopportare della cura. Da questo momento in avanti la trama non può essere svelata, perchè il nucleo pulsante del film è un thriller in piena regola, anche se Soderbergh si diverte a disseminare il plot di sottotrame impeccabili e vibranti, come la depressione trattata alla stregua di banale disturbo dagli spot televisivi di pillole miracolose che promettono la felicità, la sperimentazione di farmaci sulla pelle di pazienti ignari, le speculazioni economiche che manovrano il mercato azionario. Sono rivoli che avrebbero potuto diventare oceani se il regista avesse voluto fare un film sulla scia di Erin Brockovich ma qui il nocciolo della questione è l'indagine solitaria svolta dal dottor Banck per scoprire l'inganno che lo ha fatto precipitare in un incubo di accuse e condanne morali, e il gioco a carte copertissime di tutti i protagonisti, abili manipolatori e allo stesso tempo vittime dei propri desideri ha una tempistica perfetta e interpreti sottili e ambigui quanto basta a farci godere ogni colpo di scena. Vendette e raggiri, colpevoli ed innocenti, sono tutti pedine di una scacchiera sofisticata che predispone ad un finale inevitabilmente cupo. Perfettamente in parte Jude Law, ambigua e algida Catherine Zeta-Jones, abilissima Rooney Mara a tenersi in bilico fra vittima e carnefice e decisamente sacrificato Channing Tatum che al secondo film consecutivo con Soderbergh può esibire solo in poche scene il suo fisico da magic Mike.
Hansel & Gretel: Cacciatori di Streghe - di Tommy Wirkola con Jeremy Renner, Gemma Arterton, Framke Janssen, Peter Stormare, Thomas Mann *
Non bastava il Lincoln cacciatori vampiri, arrivano ora i fratelli Hansel e Gretel, nati dalla penna dei Grimm, in versione semi horror a caccia di streghe e mostri. Lasciati i panni dei bambini sperduti nel bosco attirati dalla casetta di marzapane abitata dalla strega li ritroviamo ormai adulti, armati fino ai denti e pronti ad aiutare paesi e città assediati da forze oscure come Augsburg, dove sono scomparsi numerosi bambini che si pensa siano stati rapiti dalle streghe in vista della notte della luna rossa durante la quale potranno diventare immortali se riusciranno ad avere l'aiuto forzato di una strega bianca, cioè quelle streghe votate al bene che vivono in incognita nella società. Hansel e Gretel daranno la caccia alla più perfida delle streghe, Muriel, che rivelerà loro segreti spiacevoli del loro passato con cui dovranno imparare a convivere. La vittoria finale del bene è scontata e gli scontri epici con mostri vari e streghe dalle fattezze terrificanti faranno felici gli appassionati di horror, i personaggi macchiettistici e caricaturali sono degni dell'intrattenimento più scontato e gli effetti speciali e il make up non stupiscono più di tanto relegando il film ad un esercizio di genere fatto di sparatorie, morti a gogò, ambientazioni dark e naturalmente un mostro buono goffo e timido. Dire che si rimane delusi sarebbe fuorviante, perchè poco ci si può aspettare da una favola forzata all'horror e all'avventura adrenalinica più pura, però è vero che lo spunto di usare due personaggi fortemente legati alla tradizione favolistica più cupa faceva sperare in qualcosa di più intrigante ed affascinante, ma evidentemente la produzione voleva solo creare uno dei tanti prodotti commerciali che ricalcano i loro precursori (non a caso citavamo in apertura il Lincoln a caccia di vampiri che con l'Hansel e Gretel di Wirkola ha molti difetti in comune) e che si dimenticano già allo scorrere dei titoli di coda.