Ottobre 2012
Un sapore di ruggine e di ossa - di Jacques Audiard con Marion Cotillard,
Matthias Schoenaerts, Bouli Lanners, Céline Sallette **
Si può definire un film una struggente storia d'amore se la frase ti amo viene pronunciata solo una volta, a due minuti dalla fine, e per di più al telefono? Se i due protagonisti non si baciano quando fanno l'amore e se lui sbuffa ad ogni accenno di discorso sentimentale? Si può sì, se i protagonisti sono Ali e Stephanie, entrambi menomati dalla vita sia pure in modo totalmente diverso, che si incontrano e non si accorgono di quanto quell'incontro li stia profondamente cambiando a loro insaputa, e forse anche contro il loro volere. Ali è appena arrivato in Francia dal Belgio con il figlio Sam di cinque anni che conosce appena - tanto che il figlio non lo chiama papà ma Ali - si installa a casa della sorella e fa qualche lavoretto qua e là come buttafuori. Stephanie è un'allenatrice di orche in un parco acquatico e lo incontra una sera in discoteca. Di lì a poco la vita di lei sarà sconvolta da un incidente in cui perderà entrambe le gambe, un incidente che le toglierà la voglia di vivere e ogni slancio emotivo. Gli incontri con Ali, un uomo disincantato, che fa sesso con qualunque ragazza gli capiti senza legarsi sentimentalmente a nessuna, è di quelli sbilenchi, senza un percorso lineare e senza troppe aspettative, lui se la carica sulle spalle per farle fare il bagno in mare, lei lo accompagna agli incontri di lotta clandestina cui lui partecipa, saltuariamente fanno l'amore, ma solo quando lui è opé, operativo, cioè libero, senza impegni, senza donne, senza altro da fare insomma. Naturalmente a Stephanie questa situazione, che inizialmente aveva accettato come un bonus extra da una vita ormai segnata e bruciata, comincia ad andare stretta, e tenta di coinvolgere Ali in una crescita emozionale, ma lui scarta, si sottrae, quasi spaventato da un se stesso diverso dall'uomo superficiale, facile da gestire e da accontentare, che è stato finora. Un incidente sul ghiaccio al piccolo Sam cambierà definitivamente le cose, quasi che i sentimenti di Ali fossero stati fino a quel momento congelati e nascosti, e che attraverso la sofferenza anche lui abbia imparato a vivere, e ad amare. La trama, tratta da una storia vera, avrebbe potuto facilmente trasformarsi in un melò sdolcinato e patinato, ma Audiard tiene ben fermo il timone e lascia alla Cotillard e a Matthias Schoenaerts poco spazio per scene madri e per sentimentalismi lasciando che siano le ferite della vita a condurre i loro passi, sicuri e sfrontati quelli di Ali, incerti sulle protesi quelli di Stephanie, ma entrambi capaci di trovare la strada giusta per riappropriarsi della vita, dei sentimenti e del futuro, pacatamente, quasi che vi sia in entrambi una consapevolezza latente. Un film rigoroso, che indulge sui monconi delle gambe di Stephanie senza essere mai pietistico e che non ha paura di mostrare un uomo in tutta la sua informe rudezza, che regala silenzi più che parole e che racconta l'amore come se fosse una conquista. Perchè in fondo lo è.
Reality - di Matteo Garrone con Claudia Gerini, Nunzia Schiano, Ciro Petrone,
Loredana Simioli ***
Se non fosse una amara realtà che purtroppo contagia con la sua folle malia milioni di giovani la parabola triste che Garrone racconta con la sua maestria e poesia metropolitana potrebbe essere una favola surreale, la cronaca fantascientifica di un mondo parallelo in cui i valori si ribaltano, le regole sfuggono, il caos trionfa. Ma non è così. Perchè sia pur estremizzandola Garrone, attraverso la storia di Luciano Ciotola, pescivendolo napoletano ipnotizzato dal desiderio di partecipare al Grande Fratello, racconta una realtà personale e sociale che inquieta e fa riflettere. Venuto per caso a conoscenza dei provini che la produzione del Grande Fratello sta svolgendo a Napoli, Luciano, istrionico e simpatico, decide di partecipare, spinto anche dai figli, per tentare di cambiare vita. Ma quello che succede subito dopo aver registrato il provino va ben oltre i limiti di una normale aspettativa, Luciano comincia ad immaginare che qualunque cliente della pescheria sia un emissario della produzione, si comporta in modo palesemente falso per sembrare migliore di quello che è - la scena in cui offre da mangiare ad un mendicante che giorni prima aveva scacciato è agghiacciante nella sua finta bontà - regala i mobili di casa per dimostrarsi generoso e arriva a vendere la pescheria per riarredare casa in attesa che una troupe venga a filmarla. La sorta di follia che lo coglie non ha limiti e a ben poco può il tentativo della moglie di riportarlo ad una misura e ad un buon senso perso dietro un sogno indefinito di fama e denaro. Reality sta Bellissima come Garrone sta a Visconti? Non proprio perchè la dolcezza sperduta della Magnani qui è persa in una presunzione nevrotica che è figlia di una società dove Luciano Ciotola non è una mosca bianca, bensì la punta di un iceberg di giovani alla deriva, fascinati da se stessi e dall'idea di sè che possono proiettare, indipendentemente da ciò che sono. L'ambientazione nei bassi di Napoli colora da storia di un velo di pietas ma resta la crudele verità di un uomo, di un paese, di una società, che non sa più sognare in grande, ma solo in Grande Fratello.
Un estate da giganti -
di Bouli Lanners con Marthe Keller, Martin Nissen,
Zacharie Chasseriaud, Paul Bartel ***
Una casa isolata in campagna, due fratelli adolescenti che passano lì l'estate da soli, una madre lontana e indaffarata col lavoro che si informa distrattamente con brevi chiamate sul cellulare, un futuro incerto e un presente sbandato, fatto di spinelli e di corse con la macchina del nonno ormai morto, questa è la cornice in cui facciamo la conoscenza di Zach e Seth, cui si unisce Dany, un ragazzo del luogo maltrattato dal fratello. La solitudine inizialmente sembra ai tre ragazzi un paradiso di libertà in cui mangiare ciò che si vuole, non mettere in ordine, rubacchiare le provviste al vicino e fumare apertamente. Ma quando i soldi finiscono i tre cadono nella trappola di uno spacciatore della zona, che si offre di affittare la casa del nonno per sei mesi in cambio di poche centinaia di Euro. Ingenuamente i ragazzi accettano e si ritrovano senza casa, senza i soldi promessi e senza alcun punto di riferimento. Solo una gentile signora con figlia down li accoglierà per qualche ora in casa - una sempre affascinante Marthe Keller - ma il vagabondare dei tre prosegue, fra irruzioni in case vuote e falò notturni nei boschi. L'impianto narrativo del film di Lanners è semplice, non cerca scene ad effetto e sensazionalismi, si limita ad accompagnare gli sguardi ora eccitati ora sperduti dei tre ragazzi, ed è in questo mezzo tono la forza del film che mai denuncia apertamente l'assenza genitoriale ma lascia che sia l'atteggiamento dei figli a giudicarla, nel loro modo di rispondere alle chiamate di lei, speranzosi prima, spaventati poi, delusi nel finale, quando abbandonano il cellulare nelle acque del fiume. Sta tutta in questa scena la crescita di Zach e Seth, che da ragazzini avventurosi si sono trasformati in adolescenti delusi dal mondo degli adulti, e sanno che per il futuro potranno contare solo su loro stessi. C'è l'essenza dell'adolescenza in questa pellicola, e i tre ragazzini, a tratti spavaldi, a tratti impauriti, a tratti fiduciosi, rispecchiano perfettamente - sia pure in un contesto quasi surreale - le incertezze e le fragilità di un'età sempre più indifesa, in bilico fra bisogno di indipendenza ed adultità - e infatti i dialoghi fra i tre quattordicenni vanno dal fumare spinelli alla masturbazione al vendicare a suon di botte l'amico maltrattato dal fratello - e la fragilità tipica di chi sta appena uscendo dall'infanzia - i dialoghi fra Zach e Seth su quando e come e soprattutto se la madre tornerà a prenderli sono a dir poco struggenti nella loro asciuttezza - e le scene lievi di campi di grano mossi dal vento e del placido fluire del fiume sono una cornice stridente e per questo ancora più bruciante della solitudine emozionale in cui gli adolescenti si trovano nella società di oggi - non è un caso che sia di soli pochi mesi fa un altro film francese "17 ragazze" che affrontava da un'angolazione diversa la stessa confusione di chi non ha punti di riferimento proprio nell'età in cui se ne ha più bisogno.
Cogan - Killing them softly - di Andrew Dominik con Brad Pitt, Ray Liotta,
James Gandolfini, Richard Jenkins **
Idea forte e riuscita del film: i passaggi televisivi di Obama e Mc Cain nei mesi della campagna elettorale 2008, i commenti di economisti ed esperti sulla crisi finanziaria, la storia americana che si dipana, parole su parole cifre su cifre analisi su analisi e che fa da sfondo a tutto il film, come una colonna sonora inquietante e minacciosa. Idea debole del film: pensare di riempire tutto uno script con dialoghi pulp alla Tarantino di un gruppo di malviventi, mezzetacche e boss, killer e scagnozzi, vigliacchi e spavaldi. La trama è semplice, semplicissima, pur nella sua confezione a scatole cinesi: due rapinatori fanno il colpo in una bisca clandestina, dando il via ad una girandola di esecuzioni, di regolamenti dei conti, di giochi di potere fra boss più o meno credibili - speculari a quelli dei potenti - e ripristino delle gerarchie necessarie a che un business - poco conta che sia l'economia mondiale o gli incassi di una partita a poker clandestina - sia redditizio. Brad Pitt è un perfetto killer freddo e distaccato che non vuol perdere tempo a far picchiare il proprietario della bisca perchè tanto poi dovrà essere eliminato e quindi "perchè farlo soffrire inutilmente?", che dispensa perle di saggezza - vi ricorderete a lungo la battuta finale sull'America - e che uccide con la stessa disinvoltura con cui si accende una sigaretta, Gandolfini è perfetto nell'incarnare il vecchio killer in disgrazia e Liotta fa in suo onesto mestiere, però resta la sensazione di un film incompiuto, con alcuni lampi ironici e diabolici, ma fiacco nell'affidare ai lunghi primi piani, spesso all'interno di una macchina, il compito di sostenere un film di non azione, nonostante alcune esecuzioni fulminee, ma comunque di tensione, perchè se è vero che i killers di Tarantino hanno fatto da spartiacque per tutti i gangster's movies che sono seguiti è anche vero che i delinquentelli di Dominick non sono all'altezza delle surreali conversazioni delle Iene o di Pulp Fiction e fanno un po' pena nel loro girare a vuoto su argomenti che in altri mani avrebbero potuto diventare dialoghi esilaranti o terrificanti.
The Wedding Party - di Leslye Headland con Kirsten Dunst, Isla Fisher, James Marsden, Lizzy Caplan *
Lo scorso anno fu la volta di "Le amiche della sposa", primo tentativo di femminilizzare un genere altrimenti tipicamente maschile, e cioè le scorribande, alcoliche, sessuali e quant'altro di un gruppo di testimoni dello sposo. L'alchimia riuscì - grazie anche ad una strepitosa Melissa McCarthy candidata all'Oscar - e così l'industria americana ci riprova affidando il progetto a Leslye Headland che, conscio del paragone, decide di spingere sul pedale del grottesco, del volgare, del "sesso droga e vanità" facendo passare alle sue quattro protagoniste una notte a dir poco da incubo, tra vestiti della sposa strappati, invidie malcelate, vecchi amori che rinascono e vizi che faticano ad essere tenuti a freno. E' la sera prima del matrimonio di Becky, grassa ma felicemente fidanzata con un ragazzo bello e ricco, e le sue tre amiche del cuore fin dai tempi del liceo si uniscono a lei per l'addio al nubilato e la cerimonia. Sono Regan donna in carriera ex bulimica e decisamente a disagio con il fatto che la prima del gruppo a sposarsi sia quella che al liceo tutti prendeva in giro per i chili di troppo, c'è gena, incativita da un fidanzamento andato a monte e dedita ad una vita spericolata fatta di uomini e droghe, e Katie, bambina mai cresciuta, viziata e incapace di instaurare un rapporto sentimentale stabile. Le seguiremo nel corso di una notte mentre litigano, fanno l'amore, si scoprono vulnerabili ma anche adulte, con tutto ciò che comporta. Gli spunti qua e là disseminati per un'analisi dolente - sia pure fatta di battute sagaci - i sarebbero pure, è che vengono puntualmente lasciati cadere nel vuoto a favore di battute fiacche, scene confuse e mai realmente divertenti, discorsi dei testimoni imbarazzati ed imbarazzanti, un susseguirsi di gag e dialoghi di scarsissimo fascino, sia dialettico che narrativo. Peccato, speravamo di assistere ad un coraggioso e sfacciato umorismo al femminile ma invece siamo di fronte ad un più banale scimmiottamento del peggior "best man movie".
Le belve - Savages - di Oliver Stone con Taylor Kitsch, Blake Lively, Aaron Johnson, John Travolta, Benicio del Toro, Salma Hayek ***
Tratto dal libro di Don Winslow che ha collaborato alla sceneggiatura l'ultimo lavoro di Oliver Stone si concentra su una storiaccia nera di droga e violenza, amore e amicizia, sogno e realtà. Tre ragazzi californiani, Chon, reduce dall'Afghanistan, Ben buddista e pacifista e Ophelia, bella e innamorata di entrambi, condividano un menage a trois armonioso e felice e hanno un giro d'affari molto redditizio grazie ad una produzione di marijuana di altissima qualità. La loro attività infastidisce però uno dei tanti cartelli messicani - capitanato dalla vedova nera Elena - che prima tenta un accordo con loro, poi rapisce Ophelia per costringerli a scendere a più miti consigli. Ma non ha fatto i conti con l'amore che i due ragazzi provano per Ophelia e che li porterà a mettere in atto una vera a propria guerra contro il potentissimo cartello. Non diciamo oltre della trama, ricca di sottotrame, di svolte impreviste, di cadenze d'inganno e addirittura di un doppio finale tutto giocato sui toni del western, con tanto di musica in stile mezzogiorno di fuoco e deserto polveroso a far da sfondo, ma diciamo che le tonalità del film sono quelle del noir contemporaneo, del pulp, del melò trasgressivo, con personaggi che sembrano cuciti addosso ai loro interpreti tanto risultano millimetricamente sopra le righe quando lo devono essere - Travolta e Del Toro su tutti - ma anche romanticamente drammatici e dolenti nell'esprimere, e mascherare, le proprie fragilità. Stone fa di tutto per attenersi allo script originale, ma inevitabilmente ci mette del suo, tagliando, ampliando, costruendo una cornice a chi nel libro non la aveva (la storia familiare di Dennis-Travolta per esempio) imprimendo una languida luce dorata alle scene in cui Opherlia, voce fuori campo, racconta la sua storia. Ci sono echi di Tarantino nei dialoghi, ci sono sussulti di Sodebergh in alcune scene violente, ma ci sono soprattutto i mille frammenti dei tanti Stone che abbiamo conosciuto nella sua carriera, il documentarista spietato, il visionario, il romantico suo malgrado. La naturalezza con cui i tre ragazzi vivono il loro amore è lasciata scivolar via senza sussulti perversi, la semplice istintiva natura materna di Elena in aperto contrasto con la sua crudeltà diciamo così professionale ha uno spessore tragico e sincero, i personaggi di Travolta e Del Toro, caricaturali e grotteschi nei loro limiti caratteriali sono niente altro che i fools di Shakespeare - del resto il nome di Ophelia riecheggia il mondo estremo, violento e romantico del Bardo, e alcune scelte registiche catturano per la capacità di conciliare l'estrema brutalità della realtà con i desideri più intimi dei protagonisti. I tre ragazzi, "beautiful savages" come dirà Ophelia in finale sono davvero selvaggi, nel senso più naturalistico del termine, istinto ed amore a governarli, e anche il pacifico Ben, seppur con difficoltà, entra nel gioco senza sconti necessario a riconquistare il loro paradiso perduto. Un film di sostanza oltre che di trama, stilisticamente languido e violento, che ci riconcilia con uno Stone corposo, romantico, ironico e violento, come nei suoi momenti migliori.
Le migliori cose del mondo - di Laís Bodanzky con Caio Blat, Denise Fraga, Fiuk,
Paulo Vilhena **
Arriva dal Brasile un affresco sull'adolescenza delicato e sincero, senza esagerazioni dialettiche come spesso succede nelle commedie made in Italy e senza la presunzione di suggerire perle di saggezza o di giudicare i comportamenti giovanili. La storia ruota attorno a Hermano detto Mano quindicenne di Sau Paulo che frequenta il liceo, sta imparando a suonare la chitarra, ha una cotta per la bella della scuola ma si confida con l'amica di sempre. Piccole quotidianità fra bullismo e blog denigratori, le prime avventure erotiche e le prime delusioni dagli amici che tanto amici non son, ma soprattutto la crisi familiare che Mano, insieme al fratello maggiore Pedro, affronta con il dolore e lo stupore che colgono chiunque debba affrontare per la prima volta una deflagrazione emotiva, tanto più che i genitori non si stanno semplicemente separando, ma si stanno separando perchè il padre, professore universitario, ha deciso di fare coming out a proposito della propria omosessualità e di presentare ai figli il suo nuovo compagno. E' decisamente troppo per Mano e soprattutto per Padro, e quell'universo spensierato e sereno che dovrebbe circondare la vita di due teenager va in frantumi coinvolgendo anche i rapporti affettivi. Non c'è spettacolarizzazione nel film di Bodanzky, non c'è mai indulgenza sui momenti critici, c'è anzi rispetto e pudore nel narrare i sentimenti fragili e contraddittori dei giovani, e la grazia con cui accompagna gli snodi narrativi è ciò che distingue "Le migliori cose del mondo" da altri prodotti ben più grevi e grezzi. Ci piacerebbe vedere più spesso una sceneggiatura tanto accurata nell'analisi dei sentimenti e tanto veritiera dei comportamenti, tanto precisa nel contestualizzare piccoli drammi e cocenti delusioni senza metterli in ridicolo e senza enfatizzarli, e tanto capace di accompagnare con affetto, fermezza e dolcezza quel percorso magico e doloroso che è l'adolescenza.
Killer Joe - di William Friedkin con Matthew McConaughey, Emile Hirsch,
Thomas Haden Church, Gina Gershon ***
Di famiglie disfunzionali e allo sbando la cinematografia americana ci ha fatto ampio dono negli anni, ma la famiglia Smith sale di diritto fra le più terrificanti della storia del cinema. C'è il padre Ansel, apatico e disinteressato a tutto, la sua seconda moglie Sharla che conosciamo in apertura di film quando va ad aprire la porta nuda dalla vita in giù, scena spiazzante che Friedkin gioca con maestria per farci capire in che casa, e in che film, ci sta invitando ad entrare, c'è il figlio di Ansel Chris, che ha debiti per droga, scommette e non sa che fare della propria vita e la giovane Dottie, ragazza tendente all'autistico, ingenua a tratti, fin troppo determinata in altri. In questo contesto nasce l'idea di uccidere la madre dei due ragazzi, la prima moglie di Ansel, per intascare i soldi dell'assicurazione. E' Chris a proporre l'idea al padre, ma sarà proprio il ragazzo quello più incerto sulla realizzazione finale, mentre la candida Dottie, dito in bocca e baby doll adolescenziale si dimostrerà decisissima a portarla a termine. Il padre come al solito segue la scia e Sharla si svelerà un'abile doppio - o forse triplo - giochista. La scelta del killer cade su Joe Cooper, poliziotto con una meticolosa propensione al crimine che per 25000 dollari è disposto a commettere l'omicidio. Salvo che i soldi per un anticipo gli Smith non li hanno e così Joe propone loro di avere Dottie a disposizione fin quando non potranno saldare il debito. Da qui in poi la girandola di eventi e di situazioni paradossali e provocatorie non avrà limite fino al parossistico finale che ovviamente non va raccontato. A Friedkin, già autore di pellicole forti e spiazzanti come "L'esorcista" e "Vivere e morire a Los Angeles", di cui qua e là si sentono gli echi nelle scene concitate ed in quelle erotiche, evidentemente andava di avventurarsi nel territorio pulp, a modo suo beninteso, e con un testo teatrale del Premio Pulitzer Tracy Letts a sostegno. Il film ha un merito su tutti, regalarci un personaggio ambiguo, contraddittorio e seducente come pochi, quel killer Joe capace di perversioni cruente e di impennate etiche, di tratti tenerissimi e di scatti crudeli. Matthew McConaughey aderisce alla pelle di questo villain con un'eleganza trattenuta, con un guizzo negli occhi e con un linguaggio del corpo semplicemente perfetti e relega i comprimari ad uno scomposto balletto di gesti sgraziati, di esagerati sensi di colpa e di patetici tentativi di riscatto. Il salotto in cui si svolgono gran parte delle scene è claustrofobico quanto basta per dar modo alle psicologie deviate di manifestarsi, e ai contrasti di esplodere, e in questo luogo non luogo è Dottie ad assumere il ruolo di catalizzatore, è lei a tenere testa a Joe, a tirare le fila di una partitura incompiuta ma perfettamente orchestrata. I colpi di scena ne fanno un thriller, i brandelli di anima che vengono messi a nudo ne fanno una pellicola in cui analisi sociale e psicologica la fanno da padrona, i litri di sangue che scorrono ne fanno un pulp quasi comico - il pugno diretto e fulminante che Joe assesta a Sharla non può non far ridere, ma questo è Friedkin, un regista poliedrico e bulimico, che non sottrae - e questo può essere un limite del film che con qualche pestaggio in meno avrebbe guadagnato in asciuttezza e rigore - ma che sa come tratteggiare un carattere, come girare una scena difficile - complice una coscia di pollo fritto - e come dirigere gli attori - i duetti Dottie Joe sono ad altissima tensione. Bislacco, stravagante, volutamente sopra le righe e con una trama e uno svolgimento quasi surreale "Killer Joe" potrebbe essere un post moderno B movie, ma un B movie di grandissimo talento, infinita ironia e mano registica di grande esperienza e coraggio.
On the road - di Walter Salles con Kristen Stewart, Garrett Hedlund, Kirsten Dunst,
Sam Riley, Steve Buscemi, Viggo Mortensen **
Le trasposizioni cinematografiche di libri noti sono sempre un rischio, figuriamoci la trasposizione di un libro che è diventato il manifesto di una generazione, il faro di riferimento per chiunque volesse vivere una vita fuori dagli schemi, un'opera che ha superato i confini della letteratura per entrare in quelli del mito tout court, e questo da più di cinquant'anni. La pellicola di Walter Salles ci restituisce un'epoca - la fine degli Anni Quaranta e i primi Anni Cinquanta, un'inquietudine, un processo di crescita e di indipendenza con diligente eleganza, e presenta i personaggi di Sal, voce narrante e di Dean, magico seduttore incapace di tregua emotiva con pacatezza narrativa regalandoci due figurine tendenti allo stereotipato, il giovane ingenuo scrittore che ha fame di vita e di esperienze ed il bad guy, che poi tanto bad non è, che trascina l'amico in un vortice di avventure. Le trasgressioni di allora risultano risibili se non contestualizzate debitamente e questa magia a Salles ed ai suoi attori non riesce, nonostante i cameos di Steve Buscemi, di Viggo Mortensen e di Kristen Dunst, manca qualcosa che trasformi un dignitoso affresco d'epoca in un composto ben amalgamato, in cui non ci sia solo una infinite serie di personaggi strampalati, di discese nei più o meno abissi di droga e sesso, di spire di fumo e stanze disordinate. Manca la magia che fa si che noi si segua lo scorrere del tempo e dei pensieri di Sal con empatia ed emozione, e non si può imputare tutta la colpa al fatto che gli attori siano poco carismatici - dimentichiamoci senza rimpianti l'idea di affidare il ruolo del protagonista a Marlon Brando che per anni ha attraversato la mente di registi e produttori fino al nulla di fatto che poi è stato - questo è un altro mondo, che risulta anacronistico e datato, come forse può apparire anche il romanzo di Kerouak a chi lo leggesse oggi, ma che ha dalla sua lo stile, la potenza della parola cui non corrisponde la potenza delle immagini. Sal viaggia, Dean lo introduce nella vita con calci e spintoni, la strada del mondo e delle emozioni si compie e approda sui tasti di una vecchia macchina da scrivere, gli occhi lucidi di Dean in sottofinale sono toccanti, ma avremmo voluto essere trasportati con urgenza e passione, anima e sguardo, in quel mondo lontano, con echi di jazz e di dopoguerra, non trascinati diligentemente per mano come in un piccolo museo della storia americana.
Paranorman - di Chris Butler - Animazione ***
Sempre più spesso i film sentono il bisogno di rappresentare i bambini e gli adolescenti più fragili, più emarginati, più solitari, forse perchè sono specchio della realtà molto più dei fantomatici eroi cui una volta veniva affidato il ruolo del protagonista. La scorsa stagione fu la volta de "Il figlio di Babbo Natale" in cui un impacciato, frustrato e bistrattato ragazzino salvava il Natale, ora è il turno di Norman, adolescente introverso ed estromesso dalla comunità scolastica, freak per definizione, cui solo un compagno obeso si rivolge per cercare solidarietà. Norman è diverso dagli altri ragazzi, ma è diverso anche dalla propria famiglia, dal padre che lo rimprovera di continuo, dalla sorella che lo prende in giro, e tutto ciò perchè Norman parla con i morti. Da sempre sente le loro voci, li ascolta raccontare aneddoti e disavventure, li saluta la mattina per strada - un traffico di fantasmi che neanche la peggior metropoli nell'ora di punta! - e soprattutto intrattiene conversazioni con la defunta nonna che secondo Norman siede sul divano di casa sferruzzando e commentando i film horror di cui il nipote è appassionato. L'isolamento di un adolescente simile è destinato a durare ben oltre l'età scolare, ma un episodio a dir poco sconvolgente - l'invasione della cittadina da parte di una serie di zombie e fantasmi - farà capire a tutti gli abitanti che solo un bambino come Norman può salvarli, un bambino capace di andare oltre le proprie paure e capace di ascoltare gli altri, fossero pure streghe dell'Ottocento. Sì, perchè la tanto temibile invasione è stata scatenata dal risveglio di una terribile strega condannata a morte secoli prima e che altri non era se non una bambina solitaria ed emarginata quanto Norman, desiderosa solo di essere ascoltata e capita, che è ciò che farà il piccolo eroe sedendosi accanto a lei in una toccante e vibrante scena. Come toccante e vibrante è tutto il film di Chris Butler, già nel team di Coraline, capace di scendere nel territorio dell'horror per incanalarlo nella malinconia e nella tenerezza. Non ci sono cattivi tout court da punire o sconfiggere, c'è solo da insegnare agli adulti ottusi e pieni di paura verso ciò che non conoscono e non comprendono che dietro una strega si può nascondere una bambina spaventata. Personaggi costruiti con gran cura, dettagli visivi e registici di pregio, battute e citazioni divertenti quel tanto che basta per sdrammatizzare scene ad alta tensione, ma soprattutto la vena poetica a sostenere un'originalissima pellicola che affronta una tematica irta di ostacoli in un film per bambini - l'horror vero e proprio deve spaventare per definizione ma in un cartone animato non si può calcare troppo la mano - ma che piacerà moltissimo anche agli adulti, perchè il metatesto comunica un messaggio universale ed eterno e perchè i bambini come Norman e come la streghetta mortalmente ferita dalla cattiveria degli altri sono la preziosa parte fragile di tutti noi.
Taken 2 - La vendetta - di Olivier Megaton con Liam Neeson, Maggie Grace,
Famke Janssen, Rade Serbedzija **
I sequel devono seguire regole ben precise: non deludere i fan del film originario, essere ancora più spettacolari e lasciare un finale aperto ad un capitolo successivo. In questo senso "Taken 2 - La vendetta" si attiene perfettamente all'assunto perchè il plot è quasi identico a quello del primo capitolo, le scene spettacolari - inseguimenti, esplosioni, combattimenti e agguati - si susseguono praticamente lungo tutti i quasi novanta minuti della pellicola e perchè nell'ultima scena verremo a conoscenza dell'esistenza di due ulteriori nemici che non tarderanno ad entrare in azione sconvolgendo ancora una volta la vita di Bryan Mills, agente segreto in pensione a cui criminali poco lungimiranti hanno sempre la infelice idea di rapire i familiari, la figlia Kim nel primo episodio, la moglie Lenny nel seguito, durante una vacanza ad Istanbul che dovrebbe segnare il recupero del rapporto fra i due. I rapitori sono i familiari dei tanti bad guys caduti per mano di Mills nel primo film, ma la fine sarà la stessa perchè l'ex agente, anche se ostacolato, ferito e in questo caso perfino catturato, non esiterà a far piazza pulita di chiunque si frapponga fra lui e la liberazione dei suoi cari. Se al posto di Liam Neeson ci fosse stato un attore come Bruce Willis per esempio, o Mel Gibson, avremmo avuto sguardi ironici, battute a raffica e un tono scanzonato, la presenza di Liam Neeson invece, sguardo dolente e stanco, imprime al tutto un tono più composto, pur nella baraonda di scene d'azione improbabili e numero di morti al secondo pari solo a quelli del più efficiente Terminator. Inutile aspettarsi ciò che un film di genere, e del genere, non può dare, e cioè una trama sofisticata o un'approfondimento della psicologia dei personaggi, però quello che Olivier Megaton, con la produzione di Luc Besson, si propone di fare, e cioè offrire un curato e ineccepibile film d'azione, non si può negare che ci venga offerto, con una regia adrenalinica e spettacolare, con scene d'inseguimento ad alta tensione - originale e d'effetto l'idea di affidare la guida della macchina di Mills inseguita dai criminali alla figlia Kim, bocciata per ben due volte all'esame della patente! - e un onesto infantile divertimento, disimpegnato e semplice, ma ben costruito e recitato. Certo se davvero decideranno di girare un'ulteriore seguito Besson e soci dovranno trovare qualche espediente di sceneggiatura in più per evitare un'ulteriore ripetizione di trama, anche perchè i familiari stretti di Mills sono finiti, a meno che il vecchio agente non voglia impugnare la sua scintillante armatura anche per lontani parenti e vicini di casa....
Total Recall - Atto di Forza - di Len Wiseman con Colin Farrell, Jessica Biel, Kate Beckinsale, Bill Nighy, Bryan Cranston **
La passione hollywoodiana per i remake è ormai giunta a livelli parossistici si sa, ma ci sono titoli che effettivamente possono essere reinventati e rivitalizzati da una nuova versione. Nel caso di Total Recall - Atto di Forza, remake del'originale di Paul Verhoeven del 1990 con Arnold Schwarzenegger, l'unico motivo per rimettere mano ad un film ancora oggi impeccabile era quello di far sfoggio della nuova tecnologia, sfoderando effetti visivi fantasmagorici che danno vita ad una girandola di luci, colori e invenzioni pirotecniche lungo quasi tutto il film. Ma basta questo a giustificare la ripresa del racconto di Philip K. Dick in una versione adrenalinica che non si concede un attimo di pausa e che dimentica il fascino malinconico del protagonista Hauser, uomo cui hanno strappato la memoria e quindi la coscienza di sè trasformandolo in un ennesimo eroe tutto muscoli e combattimenti? Sinceramente no e anche svilire il ruolo di Matthias, capo della resistenza - un sempre carismatio Bill Nighy - a poche scene prive di emozione sembra una scelta sciatta e superficiale. La folle corsa di Douglas Quaid /Hauser che da timido e frustrato operaio si scopre un agente segreto dopo una visita alla Recall, società che inventa memorie per chi vuole sfuggire alla monotonia della vita quotidiana, è un percorso a ritroso nella propria vita precedente, di cui aveva avuto alcuni flashback in sogno, per ritrovare se stesso, la compagna e gli amici della resistenza. Le scene d'azione sono sicuramente ben girate e gli effetti speciali contribuiscono a tenere alto il livello scenografico del film, ma quanto erano più intensi i mutanti del film originale, e quanto più significativo il tracciato umano di ribellione e di rivolta contro gli oppressori, qui stilizzati in macchiette stereotipate. Manca pathos, manca spessore psicologico dei personaggi, manca la metafora sociale, manca la fantasia - il passaggio fra le due colonie con un ascensore che passa attraverso il centro della terra è davvero poca cosa per sostituire il magnifico - anche visivamente sia pure con i limiti della tecnologia del 1990 - pianeta rosso su cui approdava Schwarzy in cerca di risposte - e i personaggi di contorno - Lori la moglie fittizia tutta rabbia e scariche di proiettili - il comandante Cohaagen, sterile nel suo delirio di potere - nulla aggiungono alla messa in scena. Un remake essenzialmente estetico quindi, sicuramente mirato ad un pubblico giovane abituato ai nuovi film d'azione che non si ritagliano neanche una scena intimistica, ma che deluderà profondamente chi aveva amato i dolenti mutanti dell'originale. Unico gioiello di citazione la signora che precede Quaid in fila al controllo passaporti, è identica a colei dietro la cui maschera si nascondeva Hauser nella versione originale, cadenza d'inganno che strappa un sorriso, l'unico.
Iron Sky - Saranno nazi vostri - di Timo Vuorensola con Julia Dietze, Christopher Kirby, Gotz Otto, Tilo Prückner **
Stendiamo numerosi veli sul titolo italiano che svilirebbe anche il capolavoro dei capolavori - ma a che pubblico mirano i distributori con una frase tanto volgare e banale? - e concentriamoci su un progetto singolare, portato a termine con finanziamenti collettivi e che coinvolge parecchie nazioni europee, un progetto che affianca la fantascienza alla satira, reinventa il passato e il futuro e nel far questo parla molto di presente, di chi ci governa e di come sia praticamente impossibile ipotizzare un futuro di pace e armonia. L'ambientazione è un futuro prossimo, in cui una presidente donna degli Stati Uniti - un' imitazione dell'imitazione di Sarah Palin - per risollevare le proprie sorti organizza una nuova missione sulla Luna con un astronauta nero - lo slogan dell'operazione è "Black on the moon? She can" che già satireggia non poco su recenti slogan - salvo che la Luna è già occupata, abitata e colonizzata niente meno che dai nazisti, che si sono rifugiati lì nel 1945 e che hanno costruito una base a forma di svastica dove addestrano biondissimi bimbi ariani per una futura invasione della terra. L'impatto dell'astronauta John Washington con la paradossale colonia di nazisti è quanto meno brutale tanto più che una volta catturato viene sottoposto ad esperimenti che gli sbiancheranno la pelle e gli faranno crescere dei biondissimi capelli, ma incontrerà anche una gentile soldatessa che è cresciuta credendo che "Il grande dittatore" di Chaplin sia un corto di dieci minuti teso ad elogiare Hitler, ma che capirà ben presto che le cose sono andate in modo radicalmente diverso da come le hanno insegnato. Segue una fase centrale ambientata sulla terra dove il comandante delle truppe naziste viene scambiato per un geniale stratega di comunicazione politica - il che è tutto dire - e una battaglia spaziale in cui provvisoriamente - molto provvisoriamente - le nazioni della terra si coalizzano per abbattere il nemico comune. L'ambientazione - scenografia, effetti speciali e ricostruzione degli ambienti ha un rigore antico, la satira diventa critica feroce in gran parte delle scene, affondando senza pietà su questioni spinose con sagacia e precisione, la metafora sociale e il tratteggio dei personaggi - stereotipati nella caricatura ma purtroppo perfetti esempi di realtà - accompagnano ogni quadro terrestre o lunare che sia, ma la sensazione generale è che l'idea iniziale sia ripetuta all'infinito con declinazioni diverse, con accenti diversi e con sfumature diverse, ma senza aggiungere nulla più a ciò che già con un paio di scene si era già chiaramente delineato. La terza parte del film, quella dedicata alla battaglia, è dilatata oltre misura, e anche le battute cominciano a perdere colpi nel finale, quando le carte sono state ampiamente scoperte. La recitazione è dichiaratamente sopra le righe e ci può stare, ma anche qui la coazione a ripetere è fin troppo palese, quasi che gli autori, dopo aver trovato una buona idea di partenza, si siano poi arrotolati su loro stessi, senza trovare il modo di uscire dal labirinto della satira, della caricatura, dello sberleffo politico. Il cinema può - e deve - fare un passo in più nel terreno della poesia e dell'arte, come fece Chaplin appunto.
Candidato a sorpresa - di Jay Roach con Will Ferrell, Zach Galifianakis,
Dylan McDermott, Dan Akroyd, John Lithgow, Katherine La Nasa, Sarah Baker **
La guerra dei Roses versione politica, questa la lotta senza quartiere che ingaggiano Cam Brady, deputato repubblicano di lunga nomina e Marty Huggins, ingenuo, idealista, manovrato a sua insaputa da imprenditori corrotti. Il tono farsesco non deve trarre in inganno però, perchè dietro le innumerevoli gag cui danno vita Ferrell e Galifianakis, perfetti nei rispettivi caricaturali ruoli, c'è la vera natura delle campagne elettorali statunitensi, crudeli, spietate, capaci di distruggere vite e famiglie pur di accaparrarsi un voto in più e incurante di ogni benchè minimo scrupolo morale. L'estremizzazione dei caratteri è un perfetto esempio di come si possa - e si debba - calcare la mano per smascherare un malcostume purtroppo estremamente reale e gli spot elettorali via via sempre più surreali per violenza e cattiveria sono una metafora intelligente e canzonatoria di un mondo sempre più spettacolarizzato ad uso e consumo del pubblico televisivo. Non conta più il messaggio, il programma o l'impegno, conta chi sa picchiare più forte, e non solo metaforicamente. Si ride apertamente nel film di Roach perchè la satira, seppur feroce, non è mai bacchettona o predicatoria, ma certi atteggiamenti, certi loschi individui - su tutti il deus ex machina della campagna prima di uno poi dell'altro candidato - un godibilissimo Dylan McDermott - sono uno schiaffo diretto a ciò cui la politica è ridotta, un palcoscenico su cui far esibire candidati manovrati da chi ha permesso la loro elezione con lauti finanziamenti, salvo poi esigere un pesante tributo una volta insediati là dove potranno favorire i loro corrotti mentori. Il finale apparentemente consolatorio e buonista è invece una piccola impennata d'orgoglio che ci ricorda, fra uno sberleffo e una battuta, che c'è ancora qualcuno che fa la differenza. Basta trovarlo...
Ted - di Seth MacFerlane - con Mark Wahlberg, Mila Kunis, Seth MacFerlane, Joel McHale, Giovanni Ribisi ***
Un bambino e il suo orsacchiotto di peluche sono inseparabili, tanto che il piccolo John Bennet una notte esprime il desiderio che il suo amico Ted prenda vita, cosa che regolarmente accade cambiando le vite di entrambi per sempre. La trama di quella che può sembrare una favola natalizia non deve però fuorviare, perchè basta leggere il nome dello sceneggiatore e regista, Seth MacFerlane - creatore della serie animata dissacrante ed innovativa "Griffin" - per capire che ci troviamo di fronte ad un film tutt'altro che classico e scontato. Perchè Ted diventa una star televisiva ospite dei talk show, crescendo impara ad apprezzare l'alcool, gli spinelli e il sesso facile e non ha certo il linguaggio che ci ci aspetterebbe da un dolce teddy bear (e infatti negli Usa il film è stato vietato ai 14 anni). E John cresce all'ombra del suo carismatico orsacchiotto, incapace di assumersi le proprie responsabilità al lavoro e fin troppo inconcludente nel rapporto con la fidanzata Lori. Il confronto fra John e Ted, fatto di confidenza, intimità e complicità esclude chiunque tenti di intromettersi fra i due e inevitabilmente Lori si sottrae, lasciandoli alle loro sfrenate feste e all'incoscienza di un'eterna adolescenza. Ma a quel punto Ted si rivelerà più maturo e generoso di quanto si era fino ad allora immaginato e, anche a costo di farsi da parte, aiuterà John a crescere e a vivere la propria vita. Atipica e sempre spiazzante la pellicola di MacFerlane prende uno tra i più importanti miti americani, il teddy bear e lo destruttura dall'interno facendogli assumere il ruolo del teddy boy, sboccato e incurante delle regole, lontanissimo dal politically correct, l'amico immaginario di cui ogni bambino ha bisogno ma che diventa un'ostacolo alla maturazione se non lo si abbandona dopo l'adolescenza. La satira sulla società americana è feroce (esilarante la presenza di un imbolsito Flash Gordon, mito di John e Ted da sempre), l'analisi della difficoltà delle nuove generazioni di staccarsi dall'eterno Peter Pan in cui si crogiolano per non entrare nell'adultità è amara e profonda, ma è il personaggio di Ted il vero perno della storia, un pupazzo che prende vita, dietro cui John si nasconde per non dover affrontare le proprie paure, una coscienza - spesso sporca - che sta al Grillo Parlante come l'interpretazione sarcastica e dissacratoria della vita sta alla saggezza delle vecchie favole. Sicuramente in alcuni passaggi scatologici e insistentemente volgari il film rischia la deriva macchiettistica ma si riprende sempre con una sterzata graffiante e ci consegna un personaggio talmente surreale da diventare in alcuni momenti - soprattutto in sottofinale - quasi poetico. E decisamente perfetto nell'animazione e nell'espressività.
Elles - di Malgoska Szumowska con Juliette Binoche, Anaïs Demoustier, Joanna Kulig, Louis-Do de Lencquesaing *
Come ammantare di un alone intellettual-psicologico-sociale una pellicola assolutamente banale e inutilmente patinata? Guardate Elles e lo saprete. Nonostante gli sforzi di Juliette Binoche, letteralmente scrutata dalla macchina in perenne close up, il film di Malgoska Szumowska analizza poco e male le tematiche che si propone di mettere in campo, e cioè la prostituzione giovanile e le frustrazioni di una cinquantenne, che nel caso in questione non avrebbe nessuna ragione al mondo per lamentarsi. Anne è una giornalista e sta preparando un articolo dedicato alle giovani studentesse che si prostituiscono per incrementare le entrate. Nel far questo entra in contatto con due ragazze che le racconteranno la loro storia, fatta di incontri in alberghi di lusso, soldi facilissimi, illusioni zero e senso di colpa minimo. Parallelamente assistiamo allo svolgersi della vita iperborghese di Anne, una bellissima casa, un marito forse un po' distante ma neanche troppo, un figlio adolescente che meriterebbe due schiaffoni invece dell'indulgenza della madre e un corpo che sta sfiorendo. Motivi sufficienti per Anne per sentirsi amareggiata, per lasciarsi andare a danze sfrenate ed alcoliche con una delle due prostitute - scena che ricorda da vicino una famosa pubblicità della Binoche per quanto è finta e gratuita - per essere irrequieta e indisponente col marito, per andare in crisi senza nessuna ragione. Le camere lussuose dove le ragazze incontrano i loro clienti, quasi tutti eleganti, raffinati, che cucinano per loro il pollo al borgogna - ma si può davvero pensare di fare cinema serio e raccontare la prostituzione scolorendola così? - le loro case elegantemente arredate, i vestiti di marca, danno un'idea completamente falsata di un mondo torbido e squallido che con ben altra mano registica si poteva tracciare, e le isteriche inquietudini della Binoche - che si lancia anche in una scena di autoerotismo a dir poco malriuscita e malrecitata - restano algide, incomprensibili, quasi capricciose. Una sola scena ha una sua poesia, un sottofinale surreale intorno ad una tavola, ma è decisamente poco per salvare un film che rende seducenti le scene di sesso a pagamento quando avrebbe dovuto renderle disgustose e svilisce ogni vera inquietudine femminile riducendola ad una insoddisfazione superficiale e mai realmente sentita. Spiace per la Binoche, che offre il suo volto mobile, spesso struccato, ad una donna che non la merita, e ad un film che non merita la nostra attenzione.