Festival, Anteprime, Inediti, Rarità Vai a pagina: 2 - 3
Per gli appassionati di cinema le uscite settimanali sui grandi circuiti sono sempre insufficienti. E così si va alla ricerca dei tanti magnifici film mai distribuiti in Italia, delle anteprime presentate ai Festival o di quei film passati sotto silenzio nelle sale. Qui di seguito trovate una selezione di ciò che ancora non è arrivato nelle sale, di ciò che non ci arriverà mai e di ciò che può essere sfuggito ai più. Speriamo di suggerirvi così qualche pellicola che possa saziare la vostra fame di buon cinema. |
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The Big Wedding - di Justin Zackham con Robert De Niro, Diane Keaton, Susan Sarandon, Katherine Heigl, Amanda Seyfried , Robin Williams ****
Con un cast del genere si rischiava che le stars si pestassero i piedi e che lo script diventasse un vassoio per sostenere gag e battute - vedi il recentissimo e deludentissimo Parental Gudiance con Billy Cristal e Bette Midler - ma il film è invece uno di quei magici equilibri fra commedia e riflessione amarognola sulla vita, fra dialoghi e situazioni brillanti - e non ne mancano - e una sferzata malinconica che fa un po' male un po' bene ai cuori che hanno superato gli anta. La famiglia Griffin - padre Ben e madre Ellie, divorziati da ennesimi anni, la nuova compagna di lui Bebe, e i tre figli di ben ed Ellie si riuniscono per il matrimonio del più giovane dei ragazzi, Alejandro, adottato quando era piccolo. Tutto andrebbe bene, gli affetti-dispetti e i rancori-rimpianti si mescolano come in tutte le famiglie ma l'affetto è sincero e profondo e la cerimonia si svolgerebbe in un quasi idillio - a prescindere dalle beghe religiose fra la famiglia Griffin e la cattolicissima famiglia della giovane sposa Missy, ma arriva a sconvolgere gli equilibri- e a movimentare un bel po' il film la madre naturale di Alejandro, non cattolica, di più, fervente con il rosario in mano a tutte le ore, a cui certo non si può dire che Ben ed Ellie hanno divorziato anni prima.... e così Bebe viene esiliata in albergo, i due ex coniugi si ritrovano sotto lo stesso tetto e letto - letteralmente - e le complicazioni sono ciò che lo spettatore non vede l'ora di gustare con tutto ciò che un cast del genere, diretto con mano tradizionale ma felice da Justin Zackham, sa mettere in campo. E' davvero un piacere vedere tanti volti che hanno fatto la storia del cinema riuniti in una elegantissima villa in Connecticut e la trama apparentemente leggera non tragga in inganno, gli argomenti nascosti fra le pieghe dei glomourissimi abiti da cerimonia sono di quelli pesanti dal fallimento sentimentale al rancore dei figli, dai sensi di colpa per i tradimenti all'incapacità di assumersi responsabilità, dalla sofferenza di non riuscire ad avere un figlio al bisogno di far coincidere sesso e amore... mica poco per un big wedding, ma moltissimo per un film corale che fa sorridere e luccicare gli occhi...
Killing Season - di Mark Steven Johnson con Robert De Niro, John Travolta, Milo Ventimiglia, Elizabeth Olin ***
Duetto inedito Travolta De Niro per un confronto aspro e fisico, una riflessione sulla guerra e sulla vendetta affidata però più ad una sevizie del corpo che della mente, ed è un peccato perchè nei rari momenti in cui i due si lasciano andare a ricordi, rimorsi e rimpianti il tono del film sale nettamente. Benjamin Ford è un ex combattente dell'esercito americano, ha combattuto in quattro conflitti e ora vive isolato nei boschi, fotografando cervi e scaldandosi le vecchie ossa accanto al camino. Emil Kovac viene dall'Europa dell'Est, con una foto in tasca e un arco in spalla. L'incontro fra i due è l'inizio di uno scontro brutale, segnato da una violenza che viene da lontano, perchè Benjamin era a capo del gruppo di soldati che giustiziò alcuni miliziani serbi fra cui Emil, che però è sopravvissuto e vuole uccidere colui che gli ha sparato in testa durante la guerra serbo-bosniaca in cui entrambi erano soldati. i ruoli di vittima e carnefice si scambiano con un ritmo che dopo poche scene diventa prevedibile, ma la tensione psicologica in alcune scene è di forte impatto, e i fantasmi del passato si aggirano intorno ai due duellanti ora in fuga ora a caccia di un nemico invisibile quanto concreto, il passato con gli orrori della guerra. Poco conta se qualcuno vincerà la sfida poco conta quali saranno le torture e le punizioni, poco contano le motivazioni e le giustificazioni, la guerra lascia ferite aperte che non possono guarire, e che pregiudicano il futuro di chi resta. Come dice il personaggio di Travolta "il mio paese sembra normale, ma se guardi bene ti accorgi che ogni cosa è ancora ricoperta di sangue" perchè quella che è stato uno fra i conflitti più feroci del secolo scorso ha lasciato tracce così profonde che chiunque vi abbia partecipato - anche se americano e anche se tornato alla sua vita - non può dimenticare, tant'è che Benjamin è il prototipo del reduce che lascia moglie figli, civiltà per rifugiarsi lontano da tutti, alla ricerca di quella pace perduta fra gli orrori di corpi seviziati, donne stuprate e bambini torturati. Nel finale di film scorrono sul televisore di un bar le immagini dei conflitti in corso oggi, Siria, Afghanistan, a ricordarci che niente cambia nei secoli, che le guerre puniche sono dietro l'angolo e che l'umanità non è in grado di prescindere dai conflitti, e di creare anime torturate che cercano vendetta ma forse vogliono solo il perdono. Se potete vedete il film in originale perchè l'accento serbo di Travolta è parte del dolore e del disagio del personaggio, e il confronto fra i due leoni di Hollywood come dicevamo cresce bene nelle scene più intime, mentre le scene di torture fisiche sono - se pur funzionali - fin troppo enfatiche e manieristiche.
a Single Shot - di David M. Rosenthal con Sam Rockwell, William H. Macy, Melissa Leo, Jeffrey Wright ***
Un film irrisolto ma affascinante, lento ma ipnotico, incapace di trovare una chiusura spiazzante ma che costruisce una catena di eventi ben calibrati. John Moon ha perso il ranch del padre, parecchi lavori, e da ultimo anche la moglie e il figlio che se ne sono andati, lasciandolo a vivere da solo al limite della città. Va a caccia, da solo, e una mattina spara per prendere un cervo e invece per sbaglio colpisce una ragazza, che muore fra le sue braccia. Al panico e all'orrore per quanto accaduto si aggiunge lo stupore quando trova fra gli oggetti della ragazza una valigia piena di dollari. Da lì in poi sarà tutto un precipitare di eventi un domino di tessere che scoprono traffici illeciti uomini spietati e giochi più grandi di lui che portano John a mettere a repentaglio la sua vita e quella di chi gli sta a cuore. Un thriller atipico, tutto giocato sui toni dolenti dell'uomo schiacciato dal fallimento ma ancora capace di lottare per coloro che ama, una cittadina dove confluiscono interessi e giochi di potere privi di etica o di morale, personaggi senza scrupoli, e altri fragili che subiscono senza potersi ribellare, un microcosmo di umanità dolente e sfuggente, in cui solo alcune figure femminili brillano per - fin troppa - generosità. Le possibilità di sceneggiatura e di cast non mancano di certo però "A single Shot" resta un'occasione mancata, perchè si ha sempre l'impressione che la trama debba aprirsi da un momento all'altro e invece non accade mai. E il personaggio dell'avvocato viscido interpretato da William H. Macy poteva diventare un catalizzatore straordinario che non fosse stato lasciato i margini della storia.
Lovelace - di Rob Epstein, Jeffrey Friedman con Amanda Seyfried, Peter Sarsgaard,
Juno Temple, Sharon Stone ***
Biografia patinata e leggiadra nella prima parte, discesa negli inferi nella seconda, che racconta il lato oscuro della fama e del successo, con impietosa e dolorosa sincerità. La pellicola di Epstein e Friedman racconta la vita della più famosa pornostar di tutti i tempi, Linda Lovelace, prendendo spunto dal libro autobiografico che la diva che negli Anni 70' sdoganò i film porno scrisse anni dopo quando raccontò la verità sui quei diciassette giorni in cui "Gola Profonda" fu girato e sul rapporto con il marito Chuck Traynor, artefice della sua carriera ma anche aguzzino sadico e violento. Linda è giovanissima quando conosce Chuck, vive con i genitori - una madre durissima e inflessibile e un padre ormai rassegnato alla vecchiaia, ha avuto una bambina data in adozione e sogna di trovare il grande amore. Chuck la conquista, la sposa, e da lì in poi cambia tutto, perchè prima la costringe a prostituirsi, poi le impone di girare il film che farà di lei una star del porno e non solo, ma anche la vittima di un ambiente e di un uomo che vede in lei solo la gallina delle uova d'oro (pensate solo che "Gola Profonda" incassò qualcosa come 600 milioni di dollari e a Linda andarono solo 1200 dollari). Dopo l'esplosione del fenomeno "Gola Profonda" Linda è in tv e sulle copertine, invitata a tutti i grandi party hollywoodiani, conosce Hugh Hefner di Playboy e Sammy Davis Junior, tutto sembra perfetto... ma come dicevo nella seconda parte del film scopriamo cosa c'era dopo quelle feste, cosa nascondeva la personalità di Chuck, cosa subiva la donna più famosa d'America. E' interessante la scelta di raccontare in pratica la stessa storia due volte, le stesse scene girate in modo diverso rivelano che la realtà non è mai solo quella che ci appare, e che dietro ogni verità se ne nascondono molte altre. Linda girerà solo quell'unico film pornografico, le cui riprese durarono solo 17 giorni, ma per tutti e per sempre è stata e sarà la star del porno. Forse per questo, dopo aver trovato il coraggio di lasciare il marito e il cinema si ritirerà a vita privata, avrà un marito e un figlio, finchè non morirà nel 2002 in un incidente di macchina. La sua biografia sconvolse l'America e la sua adesione al movimento femminista ne fece una bandiera della ribellione alla violenza domestica. Due scene su tutte: la telefonata con il padre quando Linda è all'apice del successo e il confronto con la madre - una rigidissima Sharon Stone che assomiglia sempre più a Faye Dunaway a furia di ritocchi e tiraggi - due donne diverse per età, mentalità e aspettative, ma il cui legame va al di là delle parole o dei gesti fisici. Una storia paradigmatica quella di Linda Lovelace, ben girata e ben interpretata da Amanda Seyfried che le regala una fragilità autentica e mai posata, e che è anche uno spaccato d'epoca, con l'America puritana e bigotta pronta però ad applaudire la star del porno perchè quando si diventa famosi ogni giudizio morale passa in secondo piano, e ciò che conta è solo farsi fare l'autografo dalla diva di turno, come dimostra l'agente di polizia che incurante delle ferite di Linda picchiata dal marito gli porge carta e penna per poter vantare di aver conosciuto la famosa "gola profonda". Tristissima verità ma purtroppo ancora attualissima.
Welcome to the Rileys - di Jake Scott con Kristen Stewart, James Gandolfini, Melissa Leo, Lance E. Nichols - 2010 - Drammatico - Gran Bretagna ****
Una coppia di mezz'età, apparentemente normale, senza grandi scosse nè entusiasmi, ma ben ancorata al quotidiano. E invece no, perché qualche anno prima hanno perso una figlia, e se Doug cerca di trovare una qualche normalità nel lavoro, Lois invece si è chiusa in casa, e in se stessa, per non dover affrontare il mondo ed il suo dolore. Così quando Doug parte per una convention lei aspetta pazientemente che torni per riprendere la loro spenta vita di coppia. Ma Doug non torna, perché incontra una giovane sbandata e decide di fermarsi ad aiutarla, come se salvare una ragazza sconosciuta fosse un po' salvare quella figlia che invece ha perduto. All'inizio Lois è chiaramente sconvolta dalla decisione del marito, ma poi trova la forza di uscire da quella casa prigione, prendere la macchina e avventurarsi fino a New Orleans per stare vicino al marito. Sono scene bellissime quelle in cui la grande Melissa Leo, attrice capace di sfumature sottilissime, si fa coraggio, apre la porta di casa ed esce, ed altrettanto belle le scene in cui un goffo e impacciato Gandolfini, anche lui bravissimo nel tratteggiare un uomo inadeguato al dolore come alla vita, cerca di arginare la furia di un adolescente che vive al limite fra droga e strip clubs. Grande atmosfera, grande recitazione, e grande intensità fanno di questa pellicola un raro esempio di film semplice, senza trame complesse, ma capace di raccontare l'elaborazione di un lutto molto meglio di mille analisi psicanalitiche.
The English Teacher - di Craig Zisk con Julianne Moore, Nathan Lane, Greg Kinnear,
Lily Collins, Michael Angarano ***
La messa in scena di uno spettacolo teatrale in un liceo di provincia come palcoscenico per emozioni e sentimenti dolce amari. Deliziosa questa commedia sentimentale che permette a Julianne Moore di fare una adorabile zitella, a Nathan Lane di gigioneggiare da par suo e alla commedia sentimentale di ricordarci i suoi pregi di delicatezza elegante, di buon gusto garbato e di divertimento bilanciato dalle emozioni. Linda Sinclair è cresciuta con il naso immerso nei libri, ha avuto pochissimi uomini - tutti sbagliati - e insegna letteratura inglese sperando che Shakespeare o Dickens possano ispirare i suoi giovani allievi. Quando un suo ex alunno, Jason Sherwood torna in città dopo essersi laureato a New York in drammaturgia, con un testo teatrale da lui scritto e molti rifiuti di metterlo in scena in tasca Linda decide di aiutarlo e insieme a Carl Kapinas, insegnante di recitazione del suo liceo, decide di mettere in scena la piece anche se il preside inorridisce all'idea che il testo si concluda con un doppio suicidio e quindi impone ai due insegnanti di cambiare il finale, cosa che naturalmente Jason non deve sapere altrimenti deciderà di non mettere in scena la sua opera rimaneggiata. Da qui è tutto un susseguirsi di equivoci, sentimenti contrastanti, confronti aspri - Jason è in rotta col padre e Linda prende le sue difese prima di capire che i torti e le ragioni nella realtà sono meno netti che nelle tragedie di Shakespeare - e il film si avvia ad un sacrosanto happy end dopo aver molto sudato pianto - e divertito gli spettatori - per raggiungerlo. Si ride, ci si emoziona, si capisce quanto sia difficile oggi per tutti riuscire a comunicare a far valere le proprie ragioni, ad essere sinceri e ad esprimere le proprie emozioni e si prova un grande piacere nel vederlo esprimere ad una deliziosa come sempre Julianne Moore che nonostante gli occhialoni, i capelli legati e i vestiti anonimi resta luminosissima e bellissima. L'alchimia che scatta fra lei e il padre di Jason ha tempi comici classici, regalandoci quei duetti-battibecchi che hanno fatto la storia del cinema nella commedia brillante, e la naturalezza di Nathan Lane nel ricevere applausi su un palcoscenico ci ricorda che grande attore di Broadway lui sia. Dopo essere stato presentato al Tribeca Film Festival speriamo che questo gioiellino arrivi anche in Italia primo a poi, magari seminascosto fra un blockbuster di fantascienza e un cacciatore di qualcosa...
Pawn - di David A. Armstrong con Nikki Reed, Forest Whitaker, Ray Liotta, Sean Faris **
Niente è come sembra e soprattutto nessuno è chi sembra nel film di Armstrong, in cui una rapina in un fast food si trasforma in avventura complessa e articolata, in cui doppi, tripli e anche quadrupli giochi coinvolgono delinquenti abituali, poliziotti, innocenti sospettati dei peggiori crimini solo perchè hanno alle spalle qualche reato lieve, e abili rapinatori vengono scambiati per poliziotti eroici. Impossibile davvero anche solo accennare alla trama senza svelare dettagli che fin dalle prime scene sposta l'asse investigativo avanti e indietro senza sosta, diciamo solo che un gruppo di rapinatori entra in un semi deserto fast food e, presi in ostaggio i clienti, si prepara ad aspettare che arrivi la mezzanotte quando il timer permetterà l'apertura di una cassaforte in cui è conservato qualcosa di molto più prezioso del denaro. L'arrivo di un poliziotto sconvolge i precari equilibri e dall'esterno arrivano ordini e richieste sia da parte del negoziatore della polizia sia da parte di chi regge le fila dell'impresa criminale... La trama, pur se infarcita come dicevamo di colpi di scena e di ribaltamenti di fronte, resta pur sempre nel filone rapina con ostaggi, fra ricatti emotivi, tensioni psicologiche e giochi di potere che si svolgono lontani dal centro dell'azione. La presenza di Forrest Whitaker e Ray Liotta, nomi decisamente spendibili al box office, è puramente decorativa limitandosi a pochissime scene girate probabilmente in mezza mattinata lavorativa, mentre il grosso del lavoro lo fa Michael Chiklis che in molti ricorderanno per il poliziotto ruvido Vic Mackey nel telefilm Shields e che generosamente offre la sua fisicità ad un ruolo confezionato ad arte per lui. Un thriller che si segue con piacere senza dubbio, senza mai cali di tensione e lungaggini narrative, ma che risulta in definitiva un po' troppo esile per lasciare un segno profondo oltre la superficie.
La Responsabilità - The Liability - di Craig Viveiros con Tim Roth, Talulah Riley, Jack O'Connell, Peter Mullan - Gran Bretagna - 2012 ***
Presentato con successo al Torino Film Festival il nuovo film di Viveiros ("Ghosted") è godibile e dal ritmo serrato, ironico e grottesco, molto benservito dai due attori principali . Certo non inventa nulla nel settore del thriller intinto nel sangue e condito di sarcasmo, ma ha una sua personalità disinvolta che lo rende piacevole. Adam ha diciannove anni, una madre siliconata in stile Marilyn e un patrigno, Peter, che detesta, tanto da mandargli una foto col telefonino quando in un incidente di macchina distrugge la sua preziosa Mercedes. Ma Peter non è genitore adottivo qualunque come scoprirà suo malgrado Adam, gestisce un traffico di prostituzione dall'Est Europa ed è in contatto con killers e malavitosi. Per punire Adam e farsi risarcire della macchina ridotta un rottame gli impone di fare da autista a Roy, un misterioso, silenzioso e bizzarro ometto - un Tim Roth in stato di grazia come quasi sempre del resto - e di accompagnarlo a compiere un lavoro. Adam, riluttante all'inizio, si scopre entusiasta quando capisce il vero lavoro di Roy, il sicario professionista. Al ragazzo il tutto sembra un'avventura, mentre Roy, sul punto di ritirarsi, svolge quell'ultimo lavoro svogliatamente e senza alcuna partecipazione emotiva. Quello che li aspetta sarà una lunghissima notte di cui non anticipiamo nulla, in cui una miriade di colpi di scena sposta continuamente il baricentro della trama e coinvolge lo spettatore in una sarabanda di esecuzioni, incontri, tradimenti e insperate vie di fuga. Come dicevamo i due strampalati buddy buddy, Tim Roth e Jack O'Connel sono perfettamente bilanciati nel duetto tragicomico che li vede alternativamente vittima, carnefice e giudice, ma anche Peter Mullan nelle poche scene in cui è presente fa sentire la sua fisicità e si diverte ad impersonare un cattivo cattivissimo. Uno di quei film di chiarissimo stampo inglese - anche se echi tarantiniani si aggirano numerosi - ambientato nel Nord dell'Inghilterra e impregnato di humor nero, accenti pesanti - se potete godetevelo in originale - e dialoghi che dalle battute leggere iniziali passano man mano che la notte si fa alba ad un amaro manuale per sopravvivere alla vita, con le inevitabili delusioni e trappole. Tutto in una notte per Adam e Roy, cattivo maestro e padre bonario l'uno, ragazzo viziato e amico fedele l'altro, caratteri complementari ed antitetici, ma capaci di supportarsi e sopportarsi con spassosa e toccante alchimia cinematografica. Una curiosità: nella colonna sonora, proprio in apertura di film, è inserito niente meno che il pezzo di Fred Bongusto "Una rotonda sul mare" degli Anni Sessanta e ci piacerebbe sapere dove il giovane regista inglese l'abbia ascoltata.
Unconditional - di Brent Mc Corkle con Lynn Collins, Michael Ealy, Bruce Mc Gill, Danielle Lewis, Kwesi Boakye **
Ispirato ad una storia vera ma sceneggiato in modo da circondare la realtà di una patina sentimentale al limite del favolistico il film di McCorkle affonda pur sempre le mani in un uno di quei temi che fatalmente fanno impantanare anche registi più esperti. La storia è semplice e vede protagonisti due amici d'infanzia che negli anni si sono persi di vista. Samantha ha un ranch, scrive e disegna libri per bambini, ma la sua vita è andata in pezzi quando il marito è stato ucciso durane una rapina. Joe, cresciuto nei quartieri neri fra violenza e abbandono minorile dopo una breve parentesi in carcere si è laureato brillantemente in informatica ma ha lasciato tutto per dedicarsi al recupero dei ragazzi del suo quartiere, cercando di dar loro un futuro, una speranza, una fuga dal degrado e dall'indifferenza della società. Si incontrano per caso in ospedale - lei perchè ha soccorso una bambina investita, lui perchè di quella bambina è il tutore - e riallacciano i rapporti, raccontandosi i reciproci dolori. Samantha si affeziona a quei bambini senza famiglia e senza riferimenti, ma non dimentica che i killer del marito è ancora a piede libero e crede di identificarlo in uno dei vicini di casa di Joe nel ghetto dove lui è tornato a vivere per aiutare le famiglie in difficoltà. Naturalmente nello svolgimento della trama si scendono - o si salgono - tutti i gradini della gamma sentimentale - la tenerezza per i bambini, il dolore per la perdita del marito per Samantha, la malattia per Joe - è in dialisi e sta aspettando per un trapianto - dal desiderio di vendetta si passa alla voglia di dedicarsi agli altri e il riscatto passa attraverso la comprensione. Non si può negare che il messaggio del film è forte, e importante, e nobile la scelta di un ragazzo come Joe che dopo uno sbandamento giovanile potrebbe, grazie ad una laurea ottenuta col massimo dei voti, allontanarsi dalla miseria - fisica e morale - del suo vecchio quartiere e invece sceglie di restare, di farsi carico di vite spesso destinate a perdere prima ancora che la partita sia iniziata,ed è sincera ed onesta la messa in scena del rancore di Samantha, del desiderio di vendicarsi di chi le ha distrutto la vita, ma c'è un'indulgenza sentimentale nelle scene prevedibili e scolastiche che vanifica il tutto, rendendo il percorso di Samantha e Joe leggermente stereotipato pur nella meritoria messa in scena dal coraggio di restare e nella capacità di abbandonare un progetto di vendetta per abbracciare il gesto generoso di donarsi agli altri. Interpreti diligenti, simpatico Macon, il bambino che pur di passare per un bullo ed essere rispettato per questo, nasconde i buoni voti presi a scuola perchè essere un secchione, in ambienti come quelli in cui vive, serve a poco, mentre atteggiarsi a piccolo boss può fargli avere il rispetto degli altri. Morale tristissima per un film che cerca di conciliare il tono alto, austero e drammatico di un dramma sociale come quello dei bambini dei quartieri degradati e quello sentimentale fatto di amore - naturalmente Joe dopo il trapianto si può finalmente sposare con la ragazza che non osava corteggiare date le sue scarse possibilità di sopravvivenza - di amicizia, di perdono e di impegno morale, naturalmente accompagnato dalla scoperta della fede che Samantha abbraccia proprio in finale di film dedicando la sua vita al prossimo. Troppa grazia per riuscire ad essere cinematograficamente appassionante...
Border Run - di Gabriela Tagliavini con Sharon Stone, Billy Zane, Miguel Rodarte,
Giovanna Zacarías **
Quando una star Hollywoodiana - nota più per dei film evento che per la sua finezza interpretativa - decide di produrre un film di profondo impegno sociale di solito c'è da tremare, se poi decide anche di interpretarlo il rischio di trovarsi davanti ad un pasticciaccio è legittimo e purtroppo non sfugge a questo clichè Sharon basic insinct Stone che si imbarca meritoriamente in un progetto di denuncia dolente e bruciante, ma nel realizzarlo mette insieme così tanti luoghi comuni, così tanti personaggi stereotipati e così tanti inutili colpi di scena da vanificare ogni buon proposito. Sophie Talbert è una giornalista televisiva che proprio mentre si sta occupando di immigrazione clandestina dal Messico per un servizio scopre che il fratello, che lavora sul confine per aiutare chi rischia la vita per arrivare negli Stati Uniti, è scomparso. decide quindi di andare ad indagare di persona e si troverà a scendere tutti i gradini dell'inferno psicologico e fisico che affronta chi è costretto ad affidarsi ai coyote, i corrieri di esseri umani, per tentare di fuggire dalla povertà ed offrire a se stesso e ai propri figli un futuro. La realtà che Sharon si trova a fronteggiare, armata di improbabili ricci neri da medusa, occhi spalancati da troppo botulino e determinazione tipica del prototipo di giornalista proposto dal cinema statunitense, è davvero un girone dantesco, fatto di lunghi viaggi stipati nel doppiofondo di un camion, di stupri ed ispezioni fisiche degne dello schiavismo - alle ragazze si controllano i denti ed i genitali - di traffico di droga coatto - i clandestini vengono riempiti di ovuli di droga a loro insaputa dopo essere stati sedati - e di ogni altra nefandezza si possa immaginare, il tutto gestito da una improbabile virago che impugna due pistole alla volta, prende a calci le donne incinte e risulta talmente macchiettistica da perdere ogni credibilità. naturalmente i buoni si rivelano cattivi e i cattivi hanno motivazioni nobili in fondo al cuore, naturalmente i due fratelli si ritrovano e naturalmente Sophie fa una scena madre al poliziotto di confine che ha sparato ad un messicano degna di un film serio ma che grazie alla sua immobile fronte paralizzata dal botulino risulta risibile e quando al termine del film la si vede con i capelli raccolti da due fermagli adolescenziali prendersi cura di un'orfana messicana si capisce che l'operazione per quanto seria fosse nelle intenzioni dell'attrice americana le è sfuggita di mano per carenze nella sceneggiatura, nella regia e nell'interpretazione. Provaci ancora Sharon, magari rimanendo più aderente alle tematiche forti che si vogliono raccontare e perdendosi meno in spettacolarizzazioni che non giovano a nessuno, men che meno alla bellezza di un film.
Compliance - di Craig Zobel con Ann Dowd, Dreama Walker, Pat Healy, Bill Camp ***
Leggere all'inizio del film che la vicenda narrata è ispirata a fatti reali lascia a dir poco sconcertati, ma rende l'episodio più credibile e più contestualizzato pur nella sua gravità. Siamo in un piccolo centro dell'Ohio, è inverno, nevica e in un fast food il personale sta preparandosi a gestire un venerdì sera affollato di clienti. Sandra, la manager del piccolo gruppo distribuisce compiti e incarichi, Becky, la giovane cassiera si lamenta con i colleghi per i turni massacranti e scherza su fidanzati e corteggiatori. Improvvisamente squilla il telefono e Sandra viene informata dall'agente di polizia Daniels che Becky è sospettata di aver rubato soldi ad una cliente e di essere coinvolta in un traffico di droga. L'agente chiede a Sandra di portare Becky in una stanza isolata e di interrogarla in proposito. Sandra esegue controvoglia e trascina Becky nello stanzino sul retro. In costate contatto con l'agente Daniels esegue l'interrogatorio che ben presto si trasforma in perquisizione corporale e in umiliazione pubblica quando l'agente ordina a Sandra di far assistere come testimoni uno o più colleghi. La ragazza proclama la sua innocenza, Sandra cerca di opporsi alle violenze psicologiche che l'agente continua ad imporre con voce ferma e tono minaccioso, ma l'autorità, il rispetto delle regole - compliance appunto - impone a tutti i dipendenti di obbedire all'autorità, facendo di Becky lo strumento passivo e violato dei voleri dell'agente che scopriremo ben presto non essere affatto un agente, ma un maniaco che dalla sua casa si diverte a far ballare le pedine inconsapevoli del suo tragico gioco. L'ingresso in scena del fidanzato di Sandra che dovrà coprire uno dei turni di sorveglianza alza il livello di tortura psicologica e fisica fino ad una conclusione agghiacciante. Solo uno dei dipendenti mette in discussione le regole dell'agente Daniels e contatta la polizia che chiarirà l'episodio riuscendo ad arrestare l'uomo che aveva già commesso più di settanta reati simili. La spirale di panico che si stringe come una prigione intorno al'indifesa Becky è quella concreta, fisica, fatta di paura e rabbia, ma la spirale di incertezze e di sottomissione cui si sottopongono Sandra ed il fidanzato è quella che spaventa di più, perchè è frutto di quel misto di rispetto per le regole - anche quando sono palesemente assurde come le richieste dell'agente Daniels in fatto di perquisizioni e punizioni corporali - e di paura delle autorità che non lascia scampo al ragionamento, all'analisi, al giudizio acritico. Sandra non mette mai in discussione l'autorità costituita, non si ferma a riflettere, non trova mai il coraggio di opporsi al gioco al massacro, e il fidanzato si spinge ancora oltre, diventando complice carnefice dell'agente, vittima del desiderio e della forza di persuasione di chi manovra dietro una cornetta anonima menti e corpi. Inquietante e lucidamente freddo nell'esecuzione delle scene, camera incollata su visi e corpi chiusi in uno spazio immobile e inconcepibile al di fuori del buco nero in cui i protagonisti precipitano con lo squillo del telefono, il film di Zobel è un paradosso che colpisce proprio nel punto dove fa più male, nel giudizio libero e nella capacità di pensiero, dimostrando che purtroppo basta un voce autorevole, una minaccia velata di denuncia - qualche infrazione al ristorante, il tasso alcolemico troppo alto - e una capacità di persuasione per convincere chiunque a fare qualunque cosa. Il finale in uno studio televisivo dove Sandra racconta imbarazzata l'episodio dà ancora di più la misura dell'orrore di una società dove una semplice voce può trasformare delle persone normali in automi amorali e perversi, e dove nessun grido di aiuto è ascoltato quando la mente è ottenebrata da un'ideologia, un preconcetto, una fede, sia pure la più - apparentemente - giusta come quella di obbedire ad un agente di polizia.
The Incredible Burt Wonderstone - di Don Scardino con Steve Carell, Steve Buscemi, Jim Carrey, James Gandolfini, Alan Arkin, Olivia Wilde ***
Cast stellare per un progetto malinconico, ironico e irriverente, che colpisce tutto e tutti, facendo satira vera e riflessione sincera sulla triste verità che il magico mondo della magia e dello spettacolo in generale non è poi così magico visto da vicino, e dietro le parrucche e i trucchi più scintillanti si nascondono solitudini profonde. Anni Settanta, Burt Winselstein è un bambino solitario che riceve in dono dalla madre assente anche il giorno del suo decimo compleanno una confezione per prepararsi da solo la torta e una videocassetta in cui un famoso mago, Rance Holloway, insegna i trucchi di prestigio per farsi tanti amici. A Burt non sembra vero di poter trovare il modo di conquistare qualche compagno di scuola con i suoi giochi ed inizia a studiare il manuale e ad esibirsi durante la pausa pranzo. L'unico ad essere impressionato dai suoi giochini è Anton, malaticcio e isolato quanto Burt, che si entusiasma per ogni piccola magia compiuta dal compagno. Sarà l'inizio di un'amicizia trentennale che li porterà negli Anni Ottanta a diventare i maghi più famosi dello show business con un loro teatro a Las Vegas dove fanno in pieno ogni sera. Dietro le quinte il rapporto fra i due negli anni si va deteriorando, Burt è un egocentrico senza speranza che colleziona donne e parrucche scintillanti, Anton soffre il ruolo di secondo, ma finchè il pubblico applaude the show goes on. Arrivano però gli Anni Novanta, i reality show e l'avvento di un nuovo tipo di mago, Steve Gray, che si taglia con le lamette, passa la notte sdraiato sui carboni ardenti, trattiene l'urina per sei giorni e inventa ogni giorno altre torture che appassionano il pubblico, decretando di fatto la fine del duo Burt and Anton e di un intrattenimento vecchio stile. Abbandonati anche dal loro manager i due litigano furiosamente e mentre Anton parte per la Cambogia per portare la magia nei villaggi più poveri Burt si ritrova a fare spettacoli in centri commerciali o ospizi per anziani. E proprio lì incontrerà il suo vecchio maestro, quel Rance Holloway che gli aveva insegnato ad amare i trucchi di prestigio e che riesce a fargli riscoprire il vero incanto della magia. Il trucco finale che riporta in auge Burt e Anton è una trovata fra le tante del film che lasciamo a voi scoprire, ma non sveliamo nessun trucco nel confessare che ci si diverte apertamente a vedere le tre, anzi quattro, anzi cinque star del calibro di Steve Carrell, Steve Buscemi, Jim Carrey, Alan Arkin e James Gandolfini esibire tutto il loro carisma per dar vita a personaggi esilaranti e malinconici, spesso spiazzanti ma sempre irresistibili, fra trucchi, sguardi, parrucche e lamenti - leit motiv di Burt nei momenti di commozione e spasso per gli spettatori - che trasformano una trama tutto sommato esile e paradigmatica come tante in una sarabanda di scene sottili, umoristiche e taglienti, che mettono in ridicolo la società, i vizi personali e l'esasperazione del mondo dello spettacolo che è sempre più alla ricerca dell'eccesso per stupire e raccogliere audience, ma nel farlo non si fa mai pedante ma anzi, più spinge sul registro del grottesco più risulta efficace e sfacciatamente divertente. Cameo del vero illusionista David Copperfield, che risulta meno ingessato del solito e riesce anche a far sorridere, ma forse il merito è dell'atmosfera magica del film...
I, Anna - di Barnaby Southcombe con Charlotte Rampling, Gabriel Byrne, Hayley Atwell, Eddie Marsan - 2012 - Gran Bretagna **
"Tanto rumore per nulla" direbbe Shakespeare, e non si potrebbe dargli torto, perchè al di là della magnifica confezione, dell'impeccabile stile elegante e patinato, dei grandi attori coinvolti e del fascino che scaturisce dal suo ritmo lento e old style - a tratti viene in mente "Seduzione pericolosa" con Al Pacino e Ellen Barkin, che sia perchè la Barkin è stata la moglie di Byrne? - la trama rimane algida e poco originale, oltrechè facilmente intuibile ben prima della fine del film, difetto veramente imperdonabile per un film giallo che si potrà dire quanto si vuole che punta più sull'indagine psicologica e sulle dipendenze emotive, ma che non può essere così smaccatamente esile. Una sera come tante, una donna matura si reca ad uno speed date, un giovane torna a casa con il viso tumefatto, un ispettore di polizia riceve una chiamata mentre sta per staccare, un corpo di uomo giace a terra nel proprio appartamento nel palazzo dove la donna ha dimenticato l'ombrello in ascensore. L'ispettore indaga, la donna, Anna nella vita, ma Allegra negli incontri anonimi, ha dei flash inquietanti, il ragazzo si dà alla fuga con la madre - moglie dell'uomo ucciso con cui il figliastro aveva un pessimo rapporto - i giorni passano senza che le indagini facciano un solo passo avanti. Il rapporto fra Anna e l'ispettore Reid si fa personale pur nel contesto degli accertamenti investigativi, i dialoghi ci fanno intuire solitudini, fallimenti e qualche desiderio appannato dai sospetti. Non sveliamo oltre della trama ma sfidiamo chiunque a non sapere quale sia il segreto di Anna ben prima che lei stessa lo ricordi e l'amarezza dell'ispettore non può che fare il paio con la sua trasandatezza nelle indagini. Come dicevamo la confezione è di gran fascino e le interpretazioni si lasciano guardare con la simpatia che si accorda a degli attori bravi e carismatici, ma scena dopo scena la stanchezza della trama prende il sopravvento e tutto diventa più spento, più esercizio di mestiere che di fantasia. Peccato, perchè alcuni spunti erano degni di ben altro sviluppo, e due protagonisti ammaccati dagli anni ma ancora in grado di affascinare e girare scene di seduzione dolenti e amare potevano dare vita ad un british thriller molto più sofisticato ed intrigante.
1942 (Back to 1942)- di Xiaogang Feng con Adrian Brody, Tim Robbins, Fan Xu, Dao Ming Chen, Alec Su, Hanyu Zang ****
Sontuoso affresco di un orrore mai narrato prima, capolavoro di equilibrio fra la grande Storia e la storia quotidiana di chi quella Storia subisce, epopea di un popolo che mai si fa massa informe ma mantiene la propria dignità di individui sia pure piegati dal dolore e dalla miseria. Questo e molto altro è il film di Feng presentato all'ultimo Festival del Cinema di Roma, due ore e mezzo in cui si partecipa con emozione, con orrore e con grande coinvolgimento visivo e sonoro ad un passaggio fisico e storico davvero unico. Siamo in Cina, nel 1942, la guerra con il Giappone e le forze alleate è in una fase cruciale e nella regione dello Henan una siccità senza precedenti, unita all'invasione della cavallette - e soprattutto alimentata da un governo centrale che non invia aiuti perchè tutte le scorte di grano sono destinate all'esercito hanno ridotto alla fame milioni di persone che si trovano costrette ad allontanare le loro case per cercare rifugio, e cibo, nella regione dello Shaanxi. Il viaggio sarà estenuante per il freddo, la scarsità di cibo, per i continui bombardamenti aerei da parte dei Giappone e soprattutto per la costante sensazione di abbandono che i profughi vivono sulla propria pelle, costretti a rubare, nutrirsi della carne dei compagni morti, a vendere figlie e mogli per dar loro una chance di sopravvivere come serve o prostitute, ridotti a sagome umane senza espressione e senza volontà, una lenta processione di morte e di sofferenza. La camera di Feng indugia su due gruppi famigliari, maestro Fan, un ricco proprietario terriero che parte con moglie, figlia, nuora incinta - il figlio è morto durante la rivolta dei contadini - e un giovane servo e una famiglia di fittavoli, marito, moglie, due bambini piccoli e la vecchia madre di lui. La solidarietà fra i due gruppi una volta così lontani, ricchi gli uni, perennemente in difficoltà gli altri, si fa strada lentamente, ed unisce uomini e donne in un destino mostruoso e folle a cui sopravviveranno solo pochissimi di loro, provati e vinti. Parallelamente al tragico esodo di un popolo solo e disperato assistiamo alle trame politiche, vergognose e codarde, di generali ed ufficiali corrotti, di strateghi che intervengono nella tragedia dell'Henan solo quando un giornalista americano, Theodore White - grande Adrian Brody segnato dagli orrori che fotografa e che ricorda gli scatti di Robert Capa - e svelerà la loro indifferenza con una serie di articoli sul Times per i quali vincerà il Pulitzer, e solo per non perdere la faccia e il potere. Il confronto fra il mondo reale, tragico ed indifeso del popolo cinese in fuga sotto le bombe giapponesi - difficilmente scene di guerra sono state tanto potenti, realistiche, emozionanti e convincenti - e gli intrighi politici fatti di sotterfugi, di ricatti e di raggiri è vibrante, straziante, magistralmente reso con scene asciutte e dirette, lasciando che siano gli occhi dello spettatore a svelare la verità di una tragedia che ufficialmente contò circa 3.000 vittime mentre i dati reali si rivelarono tragicamente superiori raggiungendo la cifra mostruosa di 3.000.000 persone morte di fame e di indifferenza. Coraggioso Feng a tradurre in immagini visivamente potenti un affresco che riunisce storia, politica, cronaca ed umanità, peccato solo che il personaggio di Tim Robbins, Padre Simeon, non abbia avuto spazio maggiore per espandersi, avrebbe potuto aggiungere una chiave di lettura ulteriore. Ma è un peccato veniale per un film davvero da non perdere.
The Playroom - di Julia Dyer con John Hawkes, Molly Parker, Cody Linley, Olivia Harris - USA ***
Le inquietudini degli Anni Settanta, la rivoluzione sessuale, la voglia di indipendenza delle donne, la difficoltà degli uomini di accettare un cambiamento epocale, tutte realtà ormai conclamate, ma che la regista Julia Dyer sceglie di inquadrare con gli occhi di chi, quella rivoluzione e quel cambiamento, lo subì in modo traumatico, e cioè gli adolescenti e i bambini che erano figli di quegli uomini e quelle donne così in crisi e concentrati sui propri problemi da essere incapaci di svolgere il ruolo di genitore, costringendo quei giovani a crescere in fretta in famiglie non più tradizionali ma neanche trasformate in qualcosa di compiuto. La famiglia in questione è quella dei Cantwell, il padre Martin avvocato, la madre Donna casalinga frustrata che beve troppi drink e diventa l'amante di uno dei loro più cari amici - che quasi tutte le sere con la moglie è ospite a casa Cantwell - e i loro quattro figli, unitissimi fra loro, abituati all'assenza fisica e psicologica dei genitori e stretti intorno a Maggie, la maggiore, una ragazza di quindici anni che ruba la pillola anticoncezionale e le sigarette alla madre ma che è molto più matura e responsabile di lei nell'accudire i fratelli. E' sera a casa Cantwell, gli adulti si ritirano in salotto a chiacchierare e i bambini salgono in soffitta, dove Maggie inizia a raccontare una storia che ha per protagonisti quattro fratelli che scappano di casa dopo che i loro genitori sono morti in un incidente aereo - metafora, desiderio, rabbia e giudizio si uniscono nella scelta del soggetto con dolente consapevolezza da parte dei quattro ragazzi - e mentre al piano di sotto si svolge un piccolo psicodramma in cui Donna confessa la propria relazione clandestina e Martin coinvolge Maggie per aiutarlo a convincere la madre a restare, incapace di affrontare da solo il suo dramma di uomo, al piano di sopra i bambini viaggiano nello spazio e nel tempo, in un paese dove non esistono adulti, nè menzogne, nè cattiveria, un sogno inconscio e palese, un bisogno primario di protezione negato nella proclamazione di indipendenza da chi adulto dovrebbe essere e invece non è. Finale amaro, senza sconti nè aperture, che cancella l'illusione che ogni bambino avrebbe diritto a coltivare nella propria casa e apre la strada ad un percorso in salita per chiunque abbia partecipato a quella notte senza ritorno. Asciutto, ben recitato - il padre trattenuto e vigliacco di John Hawkes è di grande intensità sotto l'apparente indifferenza - il film della Dyer sceglie un'ottica nuova per raccontare un'epoca cinematograficamente sfruttatissima e convince nel tratteggiare un'adolescenza sperduta, fragile e spaventata, ma ben decisa a non farsi strappare il futuro, dando inizio ad una società e ad un mondo fatto di ribellioni, fughe e rivendicazioni di libertà che oggi diamo per scontati ma che agli inizi degli Anni Settanta erano solo un progetto in fieri, e come tutti i processi di rinnovamento e cambiamento, confuso e doloroso quanto necessario.
Robot & Frank - di Jake Schreier con Frank Langella, Susan Sarandon, Liv Tyler,
James Marsden - USA ***
Delicata apologia della memoria, commedia dolce amara capace di ironizzare sulla demenza senile senza mai però svilire a macchietta il protagonista. Siamo in un futuro piuttosto simile al presente, ma i robot sono ormai entrati a far parte del quotidiano come collaboratori domestici o come badanti di persone anziane. Frank, una vita vissuta ai limiti della legge, qualche anno di galera per furti alla Robin Hood a persone ricche, due figli trascurati e una moglie abbandonata per inseguire sogni e libertà, comincia a dar segni di demenza, con perdita di memoria e lucidità e così il figlio decide di regalargli un robot che si occupi di lui. Inizialmente Frank lo vive come un'ingerenza nella propria autonomia, non sopporta che lo accompagni ovunque, anche alla biblioteca dove Frank corteggia una simpatica bibliotecaria - la sempre affascinante Susan Sarandon - ma pian piano inizia una sfida dialettica e una "conoscenza" reciproca che li porta ad una simbiosi conflittuale ma anche affettuosa, visto che il robot è programmato per prendersi cura di Frank con tatto e delicatezza e Frank trova nel piccolo computer un interlocutore che lo fa tornare al passato, alle sue avventure, al desiderio di riprenderle usufruendo delle capacità tecniche del robot - come per esempio individuare la combinazione di una cassaforte in pochissimi minuti. E quando ad una cena di beneficenza incontrano un ricco arrogante che a Frank sembra essere sul punto di truffare la biblioteca cittadina e quindi la sua amica, decide di tornare in scena progettando un furto nella cassaforte del magnate. Un'ultima avventura , un'ultima emozione, un'ultima azione per chi è nella fase finale della via può essere ciò che fa la differenza fra lasciarsi morire ed avere voglia di vivere, quel progetto, quello scopo che da troppo tempo manca, perchè la società non concede spazi agli anziani e perchè la famiglia non sempre può bastare - quando la figlia di Frank, la ancor deliziosa Liv Tyler, si trasferisce da lui per prendersene cura non riesce a trovare la modalità giusta e finisce con l'infastidirlo con le sue premure. Il film di Schreier ha il pregio di essere aderente alle problematiche degli anziani senza tacere le difficoltà e la sofferenza che il decadimento mentale provoca a chi lo sperimenta in prima persona - la scena in sottofinale nella biblioteca è un perfetto esempio di dramma familiare che tocca nel profondo - ma ha anche i toni leggeri della commedia buddy buddy e poco conta che uno dei due amici sia un robot, la coppia cinematograficamente funziona e Frank Langella regala la sua fisicità e il suo sguardo ironico ad un personaggio tenero e combattivo, fragile e spericolato, costruendo un anziano paradigma di tutti gli anziani, cui basta la scintilla di un desiderio o di un interesse per tornare a partecipare a quella vita di cui solo un piccolo robot bianco sembra capirne il valore.
De Marathon - di Diederick Koopal con Stefan de Walle, Martin van Waardenberg,
Marcel Hensema, Frank Lammers - Olanda - 2012 ****
Capolavoro di equilibrio estetico ed emotivo, capace di coniugare con semplicità e naturalezza vita e morte, passione e rancore, amarezza e speranza. Rotterdam, una piccola officina automobilistica gestita da quattro amici di mezza età con l'aiuto di un giovane egiziano rimasto vittima di incidente e per questo claudicante. Gli affari vanno così così, ma Gerard, Leo, Niko e Kees non si perdono d'animo, fanno grandi feste di compleanno con le loro famiglie e cercano di risolvere i problemi con un sorriso - chi ha un figlio adolescente svogliato, chi una moglie troppo giovane e frivola, chi ha paura di confessare la propria omosessualità e chi non trova il coraggio di ribellarsi ad una moglie bigotta al limite del fanatismo - Quando a Gerard diagnosticano un cancro all'ultimo stadio la situazione potrebbe precipitare, anche perchè arriva una richiesta di tasse non pagate per 40.000 Euro, ma Youssouef, il giovane egiziano che lavora per loro, raccontando del suo passato di maratoneta sponsorizzato, dà ai quattro un'idea folle quanto appassionata, partecipare alla maratona di Rotterdam con magliette sponsorizzate e coprire così i debiti. Gerard tace a tutti, tranne a Youssouef, la sua malattia e così i quattro iniziano ad allenarsi ogni giorno, scontrandosi naturalmente con le difficoltà fisiche e psicologiche di una preparazione così dura. Non anticipiamo oltre perchè il finale va vissuto intensamente con i quattro protagonisti, e perchè l'emozione e il divertimento con cui si arriva a tagliare il traguardo del film è un regalo prezioso che il regista Koopal confeziona con arte, misura e coraggio. Coraggio di fare un film decisamente divertente, con scene e situazioni in cui non si può che ridere di gusto, per poi farci tornare drammaticamente alla realtà della vita senza falsi pudori e subito dopo richiamarci al sorriso senza vergogna, proprio come è la vita, fatta di lacrime, sangue e sudore, ma anche di sorrisi, emozioni e sentimenti profondi. Perfetti gli interpreti, godibilissimi i dialoghi, incantevoli e a volte surreali i comprimari, davvero non si può chiedere di più ad uno di quei film che gli americani chiamano "drama comedy" ma che tradotto in olandese si pronuncia capolavoro. Speriamo solo che non decidano di farne un remake oltreoceano, potrebbe venir fuori uno di quei tristi melò che ogni tanto l'industria cinematografica di Hollyood sforna senza ritegno e invece è bene che questo gioiellino resti un fresco, riuscitissimo esempio di cinema europeo autoriale e indipendente, comico e drammatico, vincente e convincente. Per la distribuzione italiana le speranze non sono molte, ma chissà che il riferimento ad una pratica sportiva del titolo non faccia miracoli...
Marie Kroyer - di Billie August con Birgitte Hjort Sorensen, Soren Saetter-Lasse,
Tommy Kenter, Lene Maria Christiensen - Danimarca - 2012 ***
Grande ritorno al cinema di Billie August con una biografia di riflesso, perchè il film è dedicato alla moglie del grande pittore Peder Severin Krøyer, detto anche Soren Kroyer, impressionista danese del primi anni del Novecento della scuola di Skagen - detta anche "Hip Hip Hurrà", titolo tra l'altro di un quadro di Kroyer perfettamente ricostruito nel film - uno dei grandi maestri della tradizione nordica che scelse, insieme ad altri artisti, di andare a vivere sulla costa danese di Skagen, dove la luce permetteva loro di dipingere quadri luminosi e intensi. La vita di Kroyer, di sua moglie Marie e della figlioletta Vibs scorre tra una pennellata, una mostra e una passeggiata in riva al mare, ma i demoni mentali di Kroyer sono in agguato, le crisi di nervi si fanno via via più violente e a Marie non resta altro da fare se non ricoverarlo. I ritorni a casa saranno sempre più conflittuali e dolorosi, le scenate tracimano nella paura e le parole aspre di Soren feriscono Marie pur nella consapevolezza che è la malattia mentale a parlare. L'amore di lei è forte, cerca di resistere, ma durante una vacanza in Svezia conosce Hugo Alfvén, compositore, ex amante di una sua amica, e se ne innamora perdutamente, ritrovando quella spensieratezza che la schizofrenia di Soren le ha strappato. Confessata la sua passione al marito ottiene una proposta tanto bizzarra quanto struggente: potrà continuare a vedere il suo amante ma lui dovrà trasferirsi a Skagen, perchè Soren non vuol rinunciare del tutto a Marie. La situazione ovviamente precipita, Soren dopo aver umiliato i due imbraccia addirittura il fucile e Marie è costretta a scappare lasciando la figlia col padre - una donna che abbandona il marito, sia pure violento e schizofrenico non aveva diritto in quel tempo a crescere una figlia - e a trovare la sua strada da sola perchè anche Hugo si dimostrerà inaffidabile ed egoista. Il finale del film è un magnifico esercizio di emozioni trattenute e sincere, con il confronto Marie-Soren prima - impregnato di tenerezza e rimpianto - e Marie-Hugo poi - un concentrato di amore e amarezza - e un treno che si allontana sui binari chiude una storia che al di là dei meriti di sceneggiatura e di racconto - solido, emozionante nella resa della malattia mentale, dei legami affettivi e della identità femminile nei primi anni del XX Secolo - ha il suo punto forte nella meticolosa e appassionata ricerca di ricreare non solo l'ambiente dove i Kroyer vissero, ma le ambientazioni dei quadri, i loro lineamenti e le loro espressioni - ogni inquadratura di Soren sembra un suo autoritratto - le composizioni scenografiche che si ritrovano identiche nelle tele di Kroyer - la scena del brindisi nel giardino della loro casa è un esempio su tutte - La luce che inquadra ogni scena è magnificamente dotata di vita propria, proprio come la considerava Kroyer che chiude la sua vita allungando la mano verso un raggio di sole, così come aveva fatto per anni davanti alla tela bianca, alla ricerca dell'ispirazione, dell'eccellenza, della meraviglia, quella meraviglia che la giovane moglie Marie ha dovuto faticosamente inseguire fra i meandri del suo cuore perdendo tutto prima di trovare se stessa.
Vai alla Galleria di Opere di Peder Severin Kroyer
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90 Minutter - di Eva Sørhaug con With Bjørn Floberg, Fred Heggland, Aksel Hennie, Annmari Kastrup - Norvegia - 2012 ****
Presentato in concorso al Festival di Stoccolma "90 Minutter" è un film forte e crudo, diretto, spietato e capace di avvicinare una materia ostica come quella della violenza sulle donne in modo estetico ed etico, senza paura di mostrare l'abisso dell'animo e del corpo, e senza mai avere intento professorale o morale. L'ambientazione alto borghese di case arredate in perfetto stile minimal scandinavo, con i toni freddi del bianco a predominare crea un senso di attesa sospesa, di spazio tempo dilatato fino all'esplosione finale. I protagonisti dei tre episodi sono tre uomini diversi, di età diverse, di cultura diversa, di temperamento diverso, ma ognuno a suo modo è uscito dai binari dell'emotività, del vivere relazionandosi in modo sano con gli altri, del comprendere i motivi del proprio malessere e cercare di risolverli. Johan è un uomo oltre i sessanta, e in una giornata come tante, ma che dal suo sguardo capiamo non sarà come tante, disdice l'abbonamento al giornale, interrompe l'affitto della casa in campagna, regala il grande uccello bianco che vive con lui. Fred è intorno ai quaranta, e nel fine settimana si reca a casa dell'ex moglie per vedere i bambini, un rancore sordo verso la donna che non è più sua, una frustrazione e una gelosia che l'amore per i figli scalfisce appena. Trond è un giovane intorno ai trenta, appena divenuto padre, incapace di gestire lo stress di una vita che cambia, dipendente dalla cocaina e dalla violenza che scarica sulla moglie, legandola al letto e violentandola. Lo svolgersi della trame è lento, ipnotico, quasi a suggerire che l'evoluzione di un gesto estremo non sempre nasce da un impulso, e se la scelta finale di Johan è un atto d'amore malato e folle, ma pur sempre un atto d'amore - le cui motivazioni restano fuori campo e fuori copione, perchè in fondo non serve sapere la ragione per cui si arriva ad un suicidio omicidio - atto d'amore magistralmente risolto con una scena di immenso pathos allorchè cambia i vestiti alla moglie per non farla trovare sporca e in disordine, la scelta di Fred è lucida e definitiva, perchè non c'è futuro senza superamento del passato, mentre quello che spinge Trond a sfogarsi sulla giovane moglie incapace di reagire fino alla scena finale è un evidente esempio di quanto sia impossibile crescere quando il disagio e l'inadeguatezza mordono le viscere. Li vediamo spesso alla finestra questi tre uomini, guardare il mondo fuori, incapaci di partecipare, paralizzati dalle proprie paure, dai propri fallimenti, desiderosi solo di trovare un capro espiatorio, di sfuggire alle proprie responsabilità, di sfogare quel dolore che non li abbandona mai. Immagini pacate, voci quasi sempre sommesse, confronti mai aperti e mai risolti sono la perfetta scelta della regista Eva Sørhaug per raccontare tematiche tanto atroci senza scadere nel romanzato, nella facile allegoria, nella più stereotipata e ricattatoria scena madre, e non si può non leggere il chiaro intento di denuncia non solo della violenza sulle donne, ma anche della mancanza di comunicazione e dell'incapacità di confrontarsi con delusioni e fallimenti, fenomeno che purtroppo riempie le pagine di cronaca quasi quotidianamente. Resta l'abbraccio finale di Johan a scaldarci il cuore in un film davvero magnifico, che sconvolge per la semplicità e il coraggio delle immagini e soprattutto conquista per la grazia e l'eleganza nel farci scendere negli inferi dei sentimenti quando diventano malati e incontrollabili.
Paperman - di John Kahrs - Animazione - Vincitore del Premio Oscar 2013 come Miglior Cortometraggio d'Animazione ***
Deliziosa animazione Disney old style, filmato in un bianco e nero elegante e d'atmosfera, romantico e poetico il film di Kahrs regala emozioni e sorrisi con la grazia lieve di un foglio di carta che veleggia nell'aria sospinto dal vento. Ed è proprio un foglio di carta il deus ex machina di un amore in fieri, di un colpo di fulmine alla fermata della metro fra un ragazzo che sta andando al lavoro e una ragazza che aspetta il suo stesso treno. Lui ha delle carte in mano, il vento ne fa volare una sul volto di lei che imprime col rossetto il segno delle sue labbra sul foglio, unica pennellata di colore del film. Una volta in ufficio il ragazzo rivede quelle labbra rosse sul foglio e alzando lo sguardo sul palazzo di fronte ritrova la ragazza della metropolitana, seduta in una sala d'attesa. Tenterà in ogni modo di mandarle un messaggio usando le scartoffie - che il capo deposita sulla sua scrivania con aria truce - per fabbricare aereoplanini di carta che regolarmente finiscono per andare ovunque tranne che nella stanza dove è seduta la ragazza, ma sarà proprio il foglio con le labbra di lei impresse ad aiutarlo, con una magia che solo l'amore sa creare. Divertente, ironico, romantico e appassionato il cortometraggio vincitore del Premio Oscar 2013 per il Miglior Corto d'Animazione, senza dialoghi e senza parole, ha una forza espressiva fatta di sguardi e desideri, di tentativi frustrati e prove da superare come nelle migliori favole e crea due personaggi delicati, timidi, che conquistano fin dal primo incontro fatto di sorrisi e sguardi complici. Le fattezze del ragazzo ricordano Rudy della mitica "Carica dei 101" e non si può non pensare a Pongo e Peggy che spingono i loro padroni ad uscire per andare al parco quando i fogli di carta spingono i due ragazzi uno incontro all'altro. A testimonianza che la magia Disney, pur nell'innovazione che l'ha accompagnata negli ultimi anni, è strettamente legata al proprio passato e alla poesia dei suoi classici.
Curfew - di Shawn Christensen con Shawn Christensen, Fatima Ptacek, Kim Allen - Vincitore del Premio Oscar 2013 come Miglior Cortometraggio ***
Dopo essere stato presentato al Tribeca Film Festival e aver vinto premi a quasi tutti i Festival cui ha partecipato il corto di Shawn Christensen si è aggiudicato l'Oscar 2013 come Miglior Cortometraggio raccontando con grande delicatezza ed originalità la storia di Rick, un giovane che sta tentando di suicidarsi nella sua vasca da bagno quando riceve la telefonata della sorella Maggie che non vede da tempo e che gli chiede di badare a sua figlia Sophia per qualche ora. Rick accetta e seppur riluttante e anche debilitato dal sangue perso va a prendere Sophia, dieci anni e un carattere risoluto che come prima cosa gli consegna un block notes con i luoghi dove dovranno passare la serata, le cose che potranno mangiare e altri rigidi dettami cui attenersi. Sarà una lunga serata fatta di scoperte, confessioni, promesse ed emozioni impreviste per zio e nipote che non si vedevano da quando lui la lasciò inavvertitamente cadere quando lei era una neonata, finendo pressochè bandito dalla famiglia. Al rientro a casa anche Maggie avrà qualche confessione da fare e il finale del film è un ulteriore apertura ad un futuro che sembrava compromesso. La delicatezza dei dialoghi, gli sguardi sperduti, la fragilità degli adulti e la fresca spontaneità di Sophia sono toccanti e ci suggeriscono come sia facile perdersi nei meandri e nelle difficoltà della vita, e come sia altrettanto facile ritrovarsi in un abbraccio fiducioso o nella risata di chi ancora crede negli altri. Straordinaria la piccola Fatima Ptacek e di grande intensità la scelta di lasciare le motivazioni al suicidio di Rick fuori dalla storia perchè, sembra suggerire Christensen, poco conta perchè si è caduti - o perchè si è lasciato cadere nel caso dell'incidente che segnerà Rick ben più che Sophie che ride al racconto dello zio - conta molto di più che qualcuno sia pronto ad aiutarci a rialzarci, magari con una richiesta di aiuto che dà senso al vivere con gli altri e per gli altri.
Cheerful Weather for the Wedding - di Donald Rice con Felicity Jones,
Luke Treadaway, Elizabeth McGovern, Mackenzie Crook, Zoë Tapper, James Norton ***
Prodotto dalla BBC e presentato al Tribeca Film Festival il film di Rice incanta e seduce con atmosfere rarefatte quanto taglienti, con una ricostruzione d'epoca magnifica e con caratteri inquieti e distanti dagli stereotipi di alcune commedie matrimoniali recentemente passate sul grande schermo. Siamo in Inghilterra negli Anni Trenta e in una grande tenuta fervono i preparativi per il matrimonio di Dolly che subito dopo partirà per l'Argentina con il marito. Arrivano alla spicciolata amici e parenti, accolti da Mrs Thatcham, la madre di Dolly, con quella perfetta ipocrisia sociale che la fa sorridere a tutti, anche alle vecchie cugine zitelle o agli zii sordi e un po' svampiti. Fra tutti gli invitati serpeggia una domanda: dove è Dolly? Lei è in camera, nascosta a tutti, anche a Joseph, archeologo arrivato da Londra con cui Dolly l'estate precedente aveva avuto un'infuocata love story, terminata senza un vero motivo. Joseph fa di tutto per incontrarla, spera ancora di poterla riconquistare, ma lei si nega, spaventata da sentimenti non ancora sopiti, fino al disperato confronto finale, che porterà ad un ulteriore confronto, aspro e liberatorio fra Joseph e la madre di Dolly che, dopo aver ascoltato verità scomode e dolorose, tornerà ad esibire la sua maschera migliore per a portare a termine la giornata e la cerimonia, nel più perfetto stile britannico. Elegante e sarcastico, graffiante e malinconico, capace di far sorridere con scene divertenti costruite ad arte e di far riflettere sulla volatilità dei sentimenti e su quanto sia difficile vivere liberi da legacci sociali e condizionamenti familiari (oggi come negli Anni Trenta, come sempre) la pellicola è interpretata con grazia, perfidia e levità da Elizabeth Mc Govern (rodata ai costumi dei primi anni del XX Secolo da tre stagioni di" Downton Abbey" ) nei panni di Mrs Thatcham, dalla deliziosa, maliziosa, egoista e sperduta Felicity Jones nei panni di Dolly e da Luke Treadaway, innamorato deluso, rancoroso e speranzoso fino alla fine. Ambientato nel countryside inglese, con scene costumi e locations perfetti "Cheerful weather for the wedding" è un affresco sociale e sentimentale a tinte solo apparentemente pastello, perchè sotto i brindisi e i vestiti da cerimonia c'è tutta la crudeltà di un modo prigioniero di se stesso e delle proprie convenzioni, seguire la lieve traccia dell'orribile paralume regalo di una qualche lontana parente per credere, lo ritroverete in una delle ultime conversazioni di Mrs Thatcham e capirete quanto impossibile fosse per Dolly fare una scelta diversa. E se il "cheerful weather "- il tempo delizioso - che dà titolo al film esiste solo nelle parole di Elizabeth Mc Govern mentre le foto della cerimonia si sono svolte sotto una pioggia battente saprete anche che spesso la verità è solo quella che raccontiamo a noi stessi e agli altri.
The Giant Mechanical Man - di Lee Kirk con Jenna Fischer, Chris Messina,
Topher Grace, Malin Akerman ***
Commedia romantica dai toni delicati, quasi sommessi, eppure convincente per lo spessore dei personaggi, sperduti ma mai domi, fragili ma mai sconfitti, spaventati ma ancora capaci di credere nei propri sogni. Presentato al Tribeca Film Festival 2012 ha per protagonisti due trentenni non ancora realizzati, alla ricerca di loro stessi e del proprio destino. Tim è uno di quei personaggi che vediamo ogni giorno per strada, con la faccia dipinta d'argento, il vestito di plastica e i trampoli se ne sta immobile fissando i passanti, statua moderna simbolo dell'alienazione umana come dice lui, simbolo di un'umanità che è ferma, bloccata, imprigionata in una maschera che non esprime nessun sentimento e nessuno slancio, Janice invece ha da poco perso il lavoro, non ha di che pagare l'affitto ed è costretta a trasferirsi dalla sorella minore, sposata, che la tratta come una bambina, le organizza incontri sentimentali e la fa sentire completamente inutile e incapace di crearsi una propria vita. Ogni volta che Janice incontra Tim per strada si ferma a parlare brevemente con lui, una terapia fatta di sfoghi e riflessioni amare sul comportamento umano, senza che lui reagisca naturalmente, coerente con il suo ruolo. Pressati dalle difficoltà economiche entrambi accettano un lavoro in uno zoo per arrotondare le entrate e così si conoscono, si scoprono simili, si avvicinano. Naturalmente ci saranno gli inevitabili fraintendimenti, le scene romantiche si alternano a cocenti delusioni e gli stilemi del dramedy sono perfettamente rispettati, ma c'è un atmosfera sincera e autentica che fa del gigante meccanico e della sua innamorata una coppia credibile cui si ha voglia di concedere la chance della felicità, perchè sono esseri umani reali, mai stereotipati, mai caricaturali o enfatici, sempre misurati nelle loro malinconie, nei dubbi, nelle frustrazioni e negli slanci. Gli interpreti, freschi e semplici, sono perfettamente in parte, simpatici e garbati, capaci di esprimere emozioni sfumate e schive, ma profonde e vere.
Yeralti - di Zeki Demirkubuz, con Engin Günaydin, Nergis Öztürk, Serhat Tutumluer, Nihal Yalçin, Murat Cemcir, Feridun Koç, Serkan Keskin, Sarp Apak - Turchia - 2012 - ***
Vincitore all'Istanbul Film Festival del miglior premio per la regia, per l'interpretazione maschile e per la fotografia "Yeralty", liberamente ispirato alle "Memorie del Sottosuolo" di Dostoevskji è un progetto coraggioso e visionario che non ha paura di scendere nel sottosuolo dell'animo umano e trovare i sentimenti meno nobili che solitamente vengono tenuti nascosti e portarli in superficie, complice una follia strisciante che avvolge il protagonista sempre più strettamente. Il protagonista è Muharrem, un impiegato solitario e rancoroso che vive solo, ha un rapporto conflittuale con amici e colleghi e non trova ragione del proprio disagio. Le uniche parole che scambia sono al mattino, con la domestica che viene a fare le pulizie. i vicini di casa lo disturbano e lui non trova di meglio da fare che scagliare patate contro le finestre, e proprio una patata diventerà la sua compagna inseparabile, simbolo del coraggio di manifestare la propria sgradevolezza, la propria strisciante follia, la malinconia sorda e la solitudine crudele che lo attanaglia. Una cena con gli amici pronti a festeggiare la pubblicazione del libro di uno di loro diventa per Muharrem un palcoscenico su cui sfogare antichi rancori, umiliazioni e risentimenti, trovandosi poi più rancoroso e frustrato che mai. Il peregrinare da una prostituta all'altra non sazia il suo famelico bisogno di contatto umano, perchè nel delirio che sempre più avviluppa il suo corpo e la sua mente Muharrem non cerca davvero un contatto con gli altri, cerca una via d'uscita all'orrore che lo invade e lo piega. La sua voce stanca, che parla di se stesso e degli altri con una lucida crudeltà fa da sottofondo ad una Istambul notturna, indifferente, febbrile nel traffico e indolente nello scorrere quotidiano di gioie e dolori. Un film coraggioso dicevamo in apertura, perchè nella lenta, inesorabile discesa di Miharrem nella solitudine più cupa e rancorosa Demirkubuz on concede nulla alla gradevolezza, le scene dei confronto fra lui e chiunque entri nella sua sfera emotiva malata sono aspre, spigolose, piene di quel dolore compatto che solo la solitudine concede a chi si abbandoni a lei con rabbia e disperazione. E' una regressione allo stadio più primario ed essenziale della natura umana quello che compie Muharrem, che arriva ad ululare come un cane, a ringhiare, senza paura di guardare un faccia quella follia che lo sta consumando, perchè è come se solo affrontandola, vivendola e - forse -sconfiggendola potrà tornare ad essere un essere umano. Intenso e inquietante Engin Günaydin nel ruolo del protagonista, capace di rendere credibili anche le manifestazioni più violente e dialetticamente crudeli di Muharrem, perchè il dolore del suo sguardo è sincero e credibile, come il silenzio della sua casa distrutta è sinonimo di un mente dove solo le macerie hanno senso, solo il caos ha diritto di regnare, solo il dolore trionfa sulla vita.
Liberal Arts - di Josh Radnor con Josh Radnor, Elizabeth Olsen, Richard Jenkins, Allison Janney, Zac Efron - Usa - 2012 - ***
Delicato e sincero, ma anche amaro e tagliente il film di Josh Radnor da lui anche interpretato è una perfetta metafora della vita perchè crescere - a qualunque età - non è mai un percorso lineare, e perchè nessuno arriva in Paradiso con gli occhi asciutti. Jesse Fisher ha 35 anni, lavora senza entusiasmo a New York in un college all'ufficio ammissioni e ha appena rotto con la propria compagna quando riceve la telefonata di un suo vecchio professore dell'università dell'Ohio dove lui ha studiato che lo invita per la festa del suo pensionamento. Jesse nei pochi giorni che passa al college ritrova quell'atmosfera sospesa nel tempo che è quella dei vent'anni, dei sogni in tasca, del futuro davanti a sè e della passione per i poeti romantici, quella delle relazioni spensierate, delle serate a bere birra e del fantasticare su grandiosi progetti che puntualmente non si sono avverati. E fa la conoscenza di Elizabeth, detta Zibby, diciannove anni, bella, romantica, appassionata di musica classica e attratta da lui che gli chiede di scriverle da New York, scriverle una lettera vera con carta e penna. Jesse lo fa ed inizia una relazione a distanza, in cui i due si confrontano, si confidano e in qualche modo si innamorano. Il successivo incontro sarà pieno di aspettative, ma anche di delusioni e di decisioni inevitabili, perchè il mondo di una adolescente che si apre alla vita è distante anni luce da quello di chi ha già percorso fallimenti e delusioni, di chi, anche se fa fatica a crescere, a sua insaputa lo ha già fatto. Prenderanno strade diverse Jesse e Zibby, ma ognuno avrà lasciato qualcosa all'altro, così come il confronto con due ragazzi a loro modo unici, un maniaco depressivo che Jesse salva dal suicidio, e uno spiritello magico che nel mezzo della notte porta speranza e ottimismo - uno Zac Efron lontano dai suoi canoni e molto divertente - darà modo a Jesse di confrontarsi con il proprio passato e trovare il coraggio di affrontare il presente con consapevolezza e senza rimpianti. Sa come arrivare a cuore della verità Radnor, sa come proporre un lieto fine che non sia il lieto fine stereotipato che svilirebbe il film, sa come emozionare quando il grande Richard Jenkins confessa che nonostante si senta ancora un diciannovenne purtroppo l'uomo che lo guarda al di là dello specchio non lo è più, sa come strappare un sorriso con l'incontro sbilenco e rabbioso fra Jesse e la professoressa che gli ha fatto conoscere la bellezza dei poeti romantici vittoriani ma che romantica non è - la sempre efficace e ironica Allison Janney - e sa come far navigare nelle acque turbolente dei turbamenti emotivi una trama originale e sentimentale nel senso più vibrante del termine raccontando emozioni piccole, fragili, reali, che appartengono a tutti e che si infrangono lievi sui volti espressivi dei protagonisti.
Kon-Tiki - di Joachim Roenning, Espen Sandberg con Pål Sverre Valheim Hagen, Anders Baasmo Christiansen, Gustaf Skarsgård, Odd Magnus Williamson - Gran Bretagna, Norvegia, Danimarca - Avventura - 2012 ***
Dove finisce il confine fra l'inseguire un sogno e farlo diventare un'ossessione folle, dove la linea che separa la vigliacca ritirata dalla resa ragionevole di fronte agli ostacoli? E' tutta in queste domande la vera storia di Thor Heyerdahl, esploratore norvegese che dopo un soggiorno in Polinesia, a Fatu Hiva, nel 1937 si convinse che la scoperta dell'isola non avvenne da parte di navigatori asiatici come si era creduto fino ad allora ma che fossero stati degli esploratori partiti dal Sudamerica a giungere fin lì, fondare una colonia e adorare il Dio del sole, Tiki. Da questa idea nasce il progetto ardito e coraggioso di dimostrarlo, ripetendo l'impresa su una zattera, partendo dal Perù e navigando per 8000 chilometri fino ad approdare in Polinesia appunto. Trovare finanziamenti è impresa quasi impossibile, e Thor nel 1947 si appresta a partire con un manipolo di amici e amanti dell'avventura, sei uomini soli di fronte al mistero, al dubbio, al desiderio di credere in un idea. L'attrezzatura ridotta al minimo - Thor non consente nessuna concessione alle moderne scoperte, solo materiali che gli esploratori di millenni prima avrebbero potuto usare - l'esperienza di mare affidata ad uno solo del gruppo - gli altri sono ex soldati esperti in radiocomunicazioni, un ingegnere e un etnografo - l'equipaggio del Kon-Tiki parte e ben presto si troverà ad affrontare non solo il mare, le tempeste, gli squali e le balene, ma la paura dell'ignoto, la responsabilità di andare avanti a tutti i costi o rinunciare, il rischio di morire e il desiderio di vincere. Non sempre le scelte fra i sei amici saranno prese all'unanimità (Thor getta in mare le funi d'acciaio che potrebbero evitare alla zattera di rompersi per non compromettere l'integrità dell'impresa, Herman arpiona una balena per paura che li ribalti contro il parere degli altri) non sempre l'umore della truppa sarà positivo - nonostante i messaggi rassicuranti che Thor manda via radio ai media di tutto il mondo, accolti dal resto dell'equipaggio con sguardi a dir poco perplessi - e la fine sembra incombere sui giovani vikinghi - biondi, arsi dal sole, smagriti dal poco cibo e spaventati dalle loro stesse paure, ma alla fine, dopo più di tre mesi di navigazione fuori rotta, di incidenti e cadute in mare a pochi passi dagli squali, un uccello arriva a segnalare la terra, e di lì a poco ecco la terra promessa, il sogno che si realizza, lo scetticismo degli scienziati di tutto il mondo che diventa encomio e riconoscimento. Thor Heyerdahl girò un documentario con la sua telecamera durante la traversata e quel documentario vinse l'Oscar, episodio da ricordare perchè anche la ricostruzione filmica di Roenning è candidata agli Oscar 2013 come Miglior Film Straniero. E lo merita, perchè l'epopea fisica e mentale che affrontano i sei giovani è ben girata, ben interpretata e ben sceneggiata, lasciando che sia la natura e la fisicità degli uomini a dettare la rotta, ma facendo intravedere che dietro a tutto ciò c'è la spinta emotiva, la sfida con se stessi, il bisogno di andare oltre i propri limiti conosciuti, anche oltre il dovere familiare - Thor non trova la moglie Viv ed i figli ad aspettarlo in Polinesia, perchè talvolta per inseguire i propri sogni si perde tutto il resto - pur di sentirsi vivi. "Forse la natura ci ha accettato" dice Erik, l'amico di infanzia di Thor, quando le tempeste si placano e gli squali si allontanano, e forse lo spirito di avventura dell'uomo tutto lì, nel diventare tutt'uno con la natura e con l'esserne accettato, e la magnifica distesa d'acqua su cui navigano quei folli, idealisti, istintivi e primitivi norvegesi sembra aver dato loro ragione. Sui titoli di coda apprendiamo che le memorie di Thor Heyerdahl, raccolte in un libro, sono state tradotte in più di 70 lingue e lette da 50 milioni di persone, a testimonianza che il bisogno di inseguire un sogno è e resterà sempre, la spinta vitale degli esseri umani, come ben rappresenta lo sguardo incredulo e felice di Thor al suo arrivo in Polinesia, eterno bambino ed eterno viaggiatore, fuori e dentro di sè.
The Paperboy - di Lee Daniels con Nicole Kidman, Zac Efron, Matthew McConaughey, John Cusack - Usa - 2012 - Thriller, Sentimentale **
Accolto con schiamazzi e dissensi allo scorso Festival di Cannes "The Paperboy", tratto da un romanzo di Peter Dexter ha l'ambizione di amalgamare tematiche alte come il razzismo Anni 60 in Florida con l'erotismo torbido e sensuale di una donna invaghita di un condannato a morte, con un'indagine giornalistica che ondeggia fra thriller e impegno sociale e per non tralasciare nulla inserisce anche una violenza legata all'omosessualità, all'epoca peccato imperdonabile in certi ambienti. Il tutto affidandosi ad un cast di grande spessore, che va da Nicole Kidman a Matthew Mc Conaughey, a Zac Efron a John Cusack. Il risultato è "tanto rumore per nulla", perchè l'ambientazione torbida e languida in alcune scene risulta addirittura imbarazzante, perchè l'indagine giornalistica è solo un pretesto per porgere alle star qualche scena madre e perchè la questione razziale viene risolta con battute fiacche e stereotipate. La voce fuori campo che racconta gli eventi che si svolsero nel 1969 è quella di una donna di colore, Anita, all'epoca dei fatti domestica in casa Jansen e spettatrice di ciò che avvenne. In una torrida estate il giovane Jack Jensen aiuta il fratello Ward, giornalista tornato da Miami con il collega Yardley, a fare luce sulla condanna a morte di Hillary Van Wetter, accusato di aver ucciso lo sceriffo della cittadina e condannato in gran fretta, senza verificare alibi e prove. A dar loro man forte arriva Charlotte Bless, bambola bionda un po' ninfomane un po' grafomane, che intrattiene rapporti epistolari con vari ergastolani, fra cui Hillary, di cui si è innamorata e che vuole scagionare. Ci vuole pochissimo perchè Jack si innamori della donna e perchè si incammini in un percorso che lo porterà a perdere molte certezze. Discontinuo e incapace di catturare il film del regista di "Precious" cerca di giocare la carta hot di Nicole Kidman che si masturba in carcere davanti al fidanzato ergastolano, indifferente alla presenza di Jack, Ward e Yardley, ma il risultato è davvero di scarsissima sensualità, accentuata dai tratti talmente siliconati dell'ex bellissima australiana da farla risultare inespressiva. L'inchiesta giornalistica naturalmente soccombe sotto la precisa volontà di scandalizzare con la "pioggia d'oro" o con un ballo sotto il diluvio che sottolinea come sensualità non faccia quasi mai rima con bellezza. Non c'è infatti erotismo nei gesti della barbie di Daniels, che forse colto da un sussulto di coscienza cinematografica fa comparire in mano a Jack una copia di Lolita, quello sì vero simbolo erotico degli Anni 60, altro che collant strappato dall'attempata Charlotte. Le scene finali del film sono decisamente le migliori, più controllate e più centrate, ma è troppo poco per salvare una pellicola che parte con carte cinematografiche grandiose (razzismo, giornalismo d'assalto, erotismo, passione giovanile, omicidio e processi farsa) ma si perde in un groviglio di scene e sceneggiate pressochè inutili. Il cast fa quello che può ma non c'è feeeling, non c'è tensione o urgenza, nè disperazione sincera sui loro volti sempre un po' spaesati.
Eega - di S S Rajamoul con Nani, Samantha, Sedeep - India - Fantastico - 2012 ****
Le grandi innovazioni cinematografiche vengono come sempre da produzioni indipendenti o da paesi non tradizionalmente votati ai blockbuster. Nel caso di "Eega" non è propriamente così visto che in India l'industria cinematografica di Bollywood è una consacrata realtà ma la fusione di stili e di tecniche usate nel film di Rajamoul lascia incantati. Acclamato al Sundance Festival il fil inizia come un classico musical in stile Bollywood, c'è la ragazza che si fa desiderare, il giovane innamorato che fa pazzie per lei, il cattivo di turno che la vuole a tutti i costi. Le scene sono leggere e divertenti, i brani musicali di M M Keeravani sono di grande presa e gli interpreti perfettamente calati nelle parti, ma quando Nani, il giovane innamorato, viene ucciso da Sedeep che non gli perdona di aver conquistato la bellissima Bindu la scena cambia totalmente e grazie ad una magnifica animazione computerizzata veniamo trascinati nel mondo in miniatura della mosca Eega (mosca in hindi) in cui Nani si è reincarnato con l'intento di uccidere Sedeep per vendetta e ricongiungersi all'amata Bindu. Sono scene bellissime quelle in cui l'animazione si fonde alla recitazione in carne ed ossa, poetiche quelle dell'incontro fra Eega e Bindu, buffonesche quelle in cui Eega sfida Seedeep tormentandolo in ogni modo. Gli stilemi del film romantico vengono mantenuti, le scene thriller sono ricche di tensione e pathos, il crescendo musicale è perfettamente in sintonia con la sceneggiatura che accavalla, incastra e abbonda di scene, trovate, gag e duetti sentimentali. Davvero una sorpresa di altissimo livello questa produzione finora sconosciuta in Italia, di cui già si prospetta un seguito, con una protagonista in miniatura che si allena sul tapis roulant fatto dal nastro di una vecchia audiocassetta, che fa la macchina per i pettorali con i filamenti della lampadina e scrive messaggi d'amore pattinando sulle gocce d'acqua, e che conquista con la sua simpatia e il suo coraggio. Ce ne fossero di film così!!
Kauwboy - di Boudewijn Koole con Rick Lens, Loek Peters, Cahit Ölmez, Susan Radder ***
Intelligente, sensibile e anticonvenzionale parabola sull'elaborazione del lutto, lutto che peraltro viene svelato man mano, proprio come la presa di coscienza del lutto stesso avviene nella realtà, dopo essere passati attraverso la negazione e la rabbia. Jojo è un ragazzino indipendente, solitario, appassionato di pallanuoto e innamorato delle canzoni country che canta sua madre, assente - in tournee come dice lui ad una amichetta - madre a cui il bambino telefona spesso soprattutto per superare le difficoltà di convivenza con il padre, collerico, violento, distratto e insensibile. Tutto cambia il giorno in cui Jojo trova un piccolo di taccola caduto dal nido e lo porta a casa, lo nutre, lo fa diventare il suo compagno di giochi. Il conforto che l'animale riesce a dare a Jojo è pari solo alla paura che il padre lo scopra, visto che non sopporta la presenza di animali in casa, ma Jojo sfida l'autorità e nelle lunghe telefonate alla madre ne parla come della "grande sorpresa che troverai quando tornerai a casa". Ma il fragile equilibrio è destinato a rompersi di fronte alla realtà che Jojo fino a quel momento a voluto negare a se stesso, realtà che il padre sta già affrontando sfogando il proprio dolore nella rabbia e nella solitudine. Che sono passaggi obbligati, e a riprova di questo c'è una scena di fortissimo impatto, recitata benissimo dal giovane interprete di Jojo tra l'altro, in cui il bambino si ostina a cantare "Buon Compleanno" alla madre assente, e il padre deve costringere il figlio ad affrontare il dolore, il vuoto, costringerlo per poter colmare quel vuoto una volta accettato, costringerlo per dargli la possibilità di tornare a vivere, e per darla a se stesso. Misurato, intenso, mai sentimentale ma pieno di sentimento sincero, reale, duro e ruvido come qualunque sentimento accecato dalla sofferenza, il film di Koole - Premio Film Rivelazione dell'Anno agli European Film Award - ha una solida aderenza con il reale ma vola alto con la fantasia raccontando l'istintivo bisogno di creare un mondo immaginifico e parallelo in cui rifugiarsi quando la vita morde troppo a fondo, e la presenza del piccolo uccello, affetto sostituto e simbolo finale di perdita cosciente è il legame tenero e struggente di Jojo con la propria infanzia, di cui non resta altro che un telefono muto e una voce da ascoltare in cuffia la notte.
War Witch - Rebelle - di Kim Nguyen con Rachel Mwanza, Alain Lino Mic Eli Bastien, Serge Kanyinda, Mizinga Mwinga - Drammatico - Canada - 2012 ****
Presentato al Festival di Berlino dove la giovane interprete ha vinto il premio come migliore attrice, vincitore anche al Tribeca Film Festival ed appena entrato nella preselezione degli Oscar per il Miglior Film Straniero la pellicola di Nguyen ha la forza e la potenza di un documentario e la poesia del grande cinema. Impresa titanica quella del regista, raccontare la storia di Komona, una bimba sudafricana strappata al suo villaggio da guerriglieri violenti e crudeli che dopo averla costretta a mitragliare i propri genitori per non vederli uccidere con lente torture, le consegnano un'arma e la fanno diventare, al pari di tanti altri bambini dagli occhi pieni di orrore, una bambina soldato. Diventerà la strega di guerra (war witch appunto) perchè sarà l'unica a salvarsi durante una sparatoria con i governativi e crescerà fra attentati e torture, fra fughe e violenze. L'unico contatto umano lo stabilirà con Waiissiè, un ragazzo nero albino considerato lo stregone, che si innamorerà di lei e con cui fuggirà, nel tentativo, fallito, di vivere una vita normale, lontano dagli orrori di una guerra combattuta per il possesso delle miniere di coltan, un materiale usato nei moderni chip, prezioso in Africa oggi più dei diamanti che pure hanno insanguinato un continente. La storia di Komona è lei stessa a raccontarla, in un dialogo immaginario con il figlio che porta in grembo, frutto di violenza da parte di uno dei comandanti dell'esercito rivoluzionario. Come si capisce la materia è talmente cruda che difficilmente si poteva tacere sugli orrori di un'infanzia violata, sul potere economico che governa un mondo ormai allo sbando, sugli eccidi e sulle torture, ma "War witch" è molto di più, perchè immerge una trama cruda e asciutta in un racconto magico, fatto di superstizioni, riti antichi, incantesimi e visioni. C'è l' Africa più ancestrale, quella legata ai riti e agli spiriti negli incubi di Komona, c'è una speranza che viene da lontano nel desiderio della bambina di far tacere i fantasmi dei genitori tornando al villaggio per seppellire ciò che di loro resta, c'è amore puro e sincero negli sguardi ancora bambini eppure fin troppo adulti che Komona e Waiissiè si scambiano lungo dei binari abbandonati, c'è quella poesia, e quella magia, che solo il grande cinema sa trarre dagli orrori della realtà. Magnifici gli interpreti ovviamente non professionisti, che come dice il regista hanno spesso improvvisato sul set, rendendo la tragica favola di Komona commovente, inquietante, terribile e straziante. Ma con un esile, stentato, impolverato lieto fine, un germoglio piantato nella terra arida che forse, ostinatamente riuscirà a sbocciare, perchè nascosto nel cuore di una bambina coraggiosa.
Grupo 7 - di Alberto Rodríguez e interpretato da Mario Casas, Antonio de la Torre, Josè Manuel Poga, Joaquin Nunez - Poliziesco- Spagna - 2012 ***
Ambientato a Siviglia negli anni che precedettero l'Esposizione Universale del 1992 Grupo 7 è una ricostruzione pressochè fedele di ciò che realmente accadde per tentare di debellare lo spaccio di droga nella città spagnola. Un'unità speciale della polizia fu formata allo scopo e mandata per le strade a sbaragliare bande, a sequestrare merce, ad arrestare piccoli e grandi spacciatori. I quattro componenti del Grupo 7 sono Angel, sposato e con un bambino piccolo, diabetico ma con la volontà di diventare ispettore, Rafael, divorato dai sensi di colpa per non essere riuscito a salvare il proprio fratello dal tunnel della droga, Angel, solare e capace di instaurare un rapporto profondo e sincero con una prostituta informatrice e Miguel, giovane ma determinato. Le loro azioni col passare dei mesi si fanno sempre più aggressive, ai limiti del lecito, ma gli arresti compiuti li fanno diventare dei beniamini, le loro foto finiscono sui giornali, le loro retate fanno notizia in televisione. E in una sorta di delirio di onnipotenza iniziano a trattenere per sè una parte della droga, a scambiare informazioni con pericolosi delinquenti, a picchiare selvaggiamente gli indagati. I contrasti fra i membri del gruppo si acuiscono, si arriva talvolta allo scontro fisico e al confronto aspro, ma le loro mancanze sono coperte dai superiori che tendono solo a ripulire la città in vista del grande evento mediatico. Naturalmente i cartelli della droga non resteranno a guardare e mentre le vite private dei quattro vengono pesantemente segnate dal loro lavoro sempre più sporco si arriverà alla resa dei conti, e allo scioglimento del gruppo, sia pure con l'assoluzione dei quattro dall'accusa di corruzione. Una cronaca asciutta e stringata quella messa in campo da Rodriguez - che ricorda in qualche modo il recente "End of watch"- con la realtà quotidiana di un gruppo di poliziotti che dovendo vivere a contatto con una realtà mostruosamente degradata non riescono a restarne estranei, finendo imbrigliati in comportamenti non solo illeciti, ma anche amorali ed eticamente inaccettabili, salvo non riuscire neanche più a rendersi conto di quanto in basso siano scesi. Sono i momenti migliori del film quelli in cui a turno Rafael, o Angel, hanno un sussulto di vergogna, e di disgusto per un lavoro che li ha costretti a cambiare così radicalmente, anche se proprio in sottofinale, quasi sottovoce, è proprio Angel, ormai trasferito in un paese di campagna, a confessare "Mi sono divertito". Macchina da presa salda, coraggio di guardare dritto negli occhi l'abisso che anche l'uomo più onesto si porta dentro Rodriguez e il suo film, premiato al Courmayer Noir in Festival 2012 ci consegnano un affresco iperrealistico di uno spaccato spesso edulcorato da altri prodotti cinematografici, riuscendo ad intrattenere pur riducendo all'osso la spettacolarità a favore di un rigore di sceneggiatura che fa onore al regista - la scena della prostituta picchiata e ridotta in fin di vita in ospedale, come tante altre, avrebbe potuto essere sfrutta con ben altra, ruffiana, drammatizzazione sentimentale - e riuscendo a rendere una materia tutto sommato sfruttatissima in un solido film di riflessione e di analisi sociale.
38 Témoins - di Lucas Belvaux. With Yvan Attal, Sophie Quinton, Nicole Garcia - Noir - Francia, Belgio - 2012 ***
Recentemente premiato con il premio speciale della giuria al Courmayer Noir in Festival 2012, "38 Temoins" - 38 testimoni - si apre con la scena di un brutale omicidio di una giovane donna nell'androne di un palazzo di Le Havre. La polizia accorre, interroga i testimoni, avvia le indagini. Ma non sapremo altro dell'efferato fatto di cronaca, non sapremo nulla della vita della ragazza, dell'assassino, del movente, dell'arresto o dell'analisi del Dna, perchè la pellicola di Belvaux non è un thriller, e neanche un poliziesco, è un giallo psicologico, o meglio ancora filosofico, che riflette sul senso di colpa, sul bisogno primario di salvaguardare il proprio nucleo familiare, sull'indifferenza che diventa vigliaccheria salvo poi trasformarsi in rimorso che schiaccia e impedisce di vivere. I 38 testimoni del titolo sono quelli che vivono nel palazzo di fronte a dove si è consumato l'omicidio e che giurano tutti indistintamente di non aver udito nulla la notte dell'omicidio. Solo Pierre, un pilota del porto dopo aver inizialmente negato di aver assistito all'omicidio confessa alla propria compagna Louise di aver udito il grido della ragazza, e di non aver chiamato la polizia, forse per pigrizia, forse per aver sottovalutato il fatto, forse per non essere implicato in un'inchiesta. La confessione dà il via ad una reazione a catena che modifica i rapporti di coppia e di tutta la comunità che non perdonerà a Pierre di averli coinvolti nel crimine. La procura, la stampa, gli ambiti familiari, niente rimarrà immune dal contagio del sospetto, del giudizio, della condanna. Sarà una ricostruzione del crimine in sottofinale a mettere i testimoni di fronte alle proprie responsabilità e al significato profondo e terribile del loro agire, in una scena di fortissimo impatto visivo e sonoro. Si sentono gli echi di Durrenmatt nei confronti messi in scena da Belvaux, si avverte il desiderio di scavare - con un rasoio affilato - nel'animo umano per far affiorare gli istinti più bassi e le paure più recondite, l'impulso di fuggire dalle responsabilità e la paura dell'abbandono. Non manca una critica feroce a come viene gestito un omicidio - l'uccisione spietata, in questo caso, di una giovane donna innocente e indifesa - dal carrozzone della procura, della polizia, della televisione, con un cinismo e una indifferenza che fanno rabbrividire anche la reporter d'assalto Sylvie Loriot - una bellissima Nicole Garcia invecchiata senza ritocchi - che ha un sussulto di coscienza prima di pubblicare l' articolo che scoperchierà il Vaso di Pandora del piccolo quartiere della cittadina francese. Gran messa in scena e recitazione misurata pur nella tensione costante fanno di "38 Temoins" un ottimo film che sfugge ad ogni prigione di genere e proprio per questo cattura con la sua coraggiosa e sincera analisi delle reazioni umane.
The Girl - di Julian Jarrold con Toby Jones, Sienna Miller, Penelope Wilton,
Imelda Staunton **
Appena entrato nella cinquina delle nominations per i Golden Globes nella categoria Film Tv la pellicola prodotta dalla BBC, garanzia sempre di eleganza e stile british, racconta la relazione tra il maestro del brivido Alfred Hitchcock e la semi esordiente Tippi Hedren, durante gli anni che i due trascorsero insieme per la lavorazione de "Gli Uccelli" e "Marnie". Basato sui racconti che la stessa Hedren negli anni ha fatto e in cui ha confessato le angherie subite da parte del grande Hitch, il film ripercorre la magnifica ossessione del regista per la bionda che prese il posto di Grace Kelly nelle sue pellicole. Quando i due si incontrano Tippi è giovane, una mamma single, ingenua ed affascinata dal grande regista, quando girerà l'ultima scena di Marnie sarà diventata una donna amareggiata e spaventata, capace di tener testa ad Alfie - nomignolo con cui Hitchcock appella se stesso nelle sue fantasie, mormorando Alfie e Tippi quasi come un mantra - ma anche delusa da un mondo che ha lasciato al grande regista carta bianca nell'umiliarla e farla soffrire, senza proteggerla e senza darle la possibilità di sciogliere il contratto che la legava al potente maestro britannico. La passione di Hichcock per la diva che lui stesso sta creando è intensa e dolente per quanto frustrata, l'orrore di Tippi cresce allorchè si accorge che non contraccambiare i sentimenti del regista comporterà per lei una serie di punizioni - al posto di uccelli meccanici Hitch le fa scagliare contro corvi, piccioni e gabbiani reali che la feriscono e la lasciano sotto choc per giorni - e la tensione fra i due è un sottile filo che attraversa tutto il film, un malessere strisciante che arriva agli spettatori dagli sguardi dei due protagonisti. La figura meno nota al grande pubblico, ma per certi versi più interessante del film è la moglie di Hitchcock, Alma - una superba, ambigua e sofferente dietro uno sguardo imperturbabile Imela Staunton - complice, schiava e padrona del marito che tutto vedrà, tutto saprà e tutto lascerà accadere. "Toccami" implora Hitch in un momento di fragile sincerità, ma Tippi fugge spaventata e inorridita, consegnando se stessa ad un destino di meschine crudeltà su set ma dando modo ad Hitch di inventare un personaggio, Marnie, ed una trama, perfette per mettere in scena la sua bruciante passione. Magnifico Toby Jones nel rappresentare un Hitchcock fragile e perverso, deliziosa Sienna Miller nei panni della sfortunata svedesina, pedine di un gioco mai iniziato, protagonisti di un film non celebrativo, non biografico, non critico nè assolutorio, solo sincero nel mettere in campo le fragilità, le meschinità, le debolezze e le paure di tutti gli esseri umani, registi o star che siano.
Safety Not Guaranteed - di Colin Trevorrow con Kristin Bell, Jake M. Johnson, Jeff Garlin, Mary Lynn Rajskub, Mark Duplass - Usa - Commedia - 2012 ***
Il premio alla miglior sceneggiatura ottenuto al Sundance festival non stupisce affatto, perchè la trama del nuovo film scritto da Derek Connolly è non solo originale, ma anche capace di rendere credibile e poetico un assunto stravagante e al limite del delirante. Nella redazione di un giornale di Seattle si cercano storie accattivanti che possano interessare i lettori e un redattore, Jeff, ricorda di aver letto un annuncio che potrebbe dar lo spunto ad un articolo, visto che l'autore dell'annuncio cercava un compagno per un viaggio indietro nel tempo, avvertendo che la sicurezza non era garantita. Chi si nasconde dietro l'annuncio, un pazzo, qualcuno in vena di scherzi, un mitomane? Avuto l'ok della direttrice della rivista Jeff parte insieme a due stagisti, il giovane indiano Arnau timido e spaesato, e Darius, neolaureata frustrata e infelice. Arrivati a Ocean Wiev i tre si appostano per individuare l'autore dell'annuncio e scoprono che è Kenneth Calloway, commesso in un piccolo emporio, considerato strambo e fuori di testa. Sarà Darius a riuscire ad entrare in confidenza con l'uomo, malfidato, guardingo, restio a dare informazioni, che si sente seguito dal governo - e si scoprirà nella scena d'inseguimento più ilare e lenta della storia del cinema che è vero - e che dopo aver imparato a conoscere Darius e a fidarsi di lei le confesserà che vuole tornare indietro nel tempo, nel 2011, per impedire la morte della ragazza di cui era innamorato. Darius a sua volta deve avere un suo motivo per il viaggio a ritroso nel tempo, altrimenti Kenneth non la porterà con sè, e la ragazza invece di inventare una storia qualunque parla di sè, della perdita della madre quando era un'adolescente, dice di voler tornare indietro per non farla andare nel negozio dove fu uccisa. Il legame che si crea fra Kenneth e Darius - lei inizialmente scettica ovviamente sulle possibilità di Kenneth di costruire la macchina del tempo - si fa via via più stretto, due cuori solitari e asociali che si incontrano, e si capiscono, e si fidano uno dell'altro. Il finale non lo riveliamo perchè deve essere una sorpresa ma la grazia e la profondità del film sta nel raggiungere il cuore dei protagonisti - anche il cinico Jeff avrà la sua parte di delusione sentimentale dopo aver rincontrato una sua ex del liceo - attraverso scene apparentemente surreali - l'esercitazione con la pistola di Darius e Kenneth su tutte - e di raccontare sofferenze e solitudini con empatia e mai con compassione, facendoci desiderare con Kenneth - per Kenneth - che la macchina funzioni, che il sogno di un pazzo cambi il mondo, e la storia, e il destino che non abbiamo potuto fermare. Si ride e si sorride, ma ci si scopre a provare una profonda tenerezza verso il folle desiderio donchisciottesco di domare i mulini a vento, far decollare la "barca del tempo" e prendere in mano la propria vita modificando ciò che ci ha fatto soffrire.
Shotgun Stories - di Jeff Nichols con Michael Shannon, Douglas Ligon, Barlow Jacobs, Natalie Canerday - Drammatico - USA - 2007 ***
Anime alla deriva, spinte da un odio antico, spaventate dal perdono quanto dalla vendetta, incapaci di intravedere un futuro perchè prive di un passato. Questo sono i tre fratelli Son, Boy e Kid, abbandonati dal padre quando erano piccoli e cresciuti nell'odio per l'uomo dalla madre, da cui vivono ormai distanti. Son è il più grande, ha una cmpagna e un figlio, ma rischia di perderli per il vizio del gioco, Boy vive nel suo furgone, spaventato dalla via e dalle responsabilità, Kid ha una fidanzata, vorrebbe sposarla, ma non ha una casa, non ha un lavoro, non ha prospettive. Vivono insieme nella casa di Son, accampato in giardino Kid, nel furgone Boy, in un perenne disequilibrio che ci fa intuire quanto doloroso sia stato per loro crescere. Quando il padre muore i ragazzi si recano al funerale, dove incontrano la nuova moglie di lui e i suoi quattro figli, cresciuti nell'affetto di un uomo che Son, Boy e Kid non hanno conosciuto. Per questo Son grida tutto i suo odio, e sputa sulla bara. Da allora in avanti sarà un crescendo di vendette e ripicche, di sparatorie, di uccisioni crudeli, di odio imbarazzato - i ragazzi neanche si conoscono fra loro - e di tentativi goffi di porre fine alla faida che cela un malessere personale più che un reale odio verso il nemico, un bisogno di sfogare la rabbia e la frustrazione per essere cresciuti nel vuoto di sentimenti ed emozioni che troverà la sua conclusione solo nel dolore concreto e pulsante per la morte del più giovane dei fratelli. Non c'è rassegnazione nella resa finale, non c'è sconfitta e non c'è vittoria, perchè non ci può essere in un ambente così desolato e così degradato, c'è solo la consapevolezza di aver attraversato un inferno in più, ben sapendo che altri ne arriveranno. Sono uomini segnati quelli di Nichols - il personaggio di Son, interpretato dall'attore preferito di Nichols, Michael Shannon (Take Shelter) - in apertura di film ci mostra la schiena costellata da cicatrici di proiettili - uomini segnati da un destino che non giudicano e non rimpiangono, ma vivono come un ineluttabile fardello che li accompagna, e l'apparente apatia con cui affrontano la faida con i figli del secondo matrimonio del pare ci dicono molto su quanto questi ragazzi mai amati e mai aiutati siano incapaci di passioni, sia pure l'odio. Si trascinano nella faida quasi come se fosse un loro dovere, ma senza sentire nessun rancore primitivo, senza nessun furore negli occhi e nel cuore. Si lasciano vivere e nel farlo si mostrano fragili nella loro esistenza stentata e crudele. Nichols gioca di sottrazione, non si lascia prendere la mano da scene madri e nel far questo rischia anche di apparire algido e di abbandonare i suoi caratteri ad un vuoto eterno, ma le sfumature che regala ai volti di Son, di Boy e di Kid sono lì a suggerirci di guardare oltre il vetro delle apparenze, e di provare una venata pietas per questi figli senza nome e senza amore.
Jesus Henry Christ - di Dennis Lee con Michael Sheen, Toni Collette, Jamie Johnston, Jason Spevack - Commedia - Usa - 2012 ***
Famiglia disfunzionale per eccellenza quella degli Herman, dove la piccola Patricia vede morire sua madre durante la festa per il suo decimo compleanno. Detta così sembrerebbe l'incipit di un dramma a tinte cupe, invece la scena è esilarante nel suo essere grottesca. E il tono del film si mantiene costante nel raccontare vicende paradossali e dolenti con toni quasi surreali, tendenti al comico ma mantenendo un cuore sensibile e aperto ai sentimenti, sia pure mascherati da scoppi di rabbia, da confronti aspri o da porte sbattute in faccia. Patricia crescendo ha avuto un figlio in provetta, Henry, bambino prodigio che parla a pochi mesi e va al collega a tredici. La scoperta del nome del suo vero padre sarà uno shock non tanto per il bambino, quanto per la madre. La conoscenza fra Henry e la sorellastra Audrey, bersaglio dei compagni per un libro inopportuno scritto dal padre, psichiatra di fama ma bisognoso di ansiolitici e sonniferi, fa sterzare il film in una direzione più sentimentale, dove i protagonisti, sia pure in modo goffo e inesperto, aiuteranno i genitori e trovare un loro proprio equilibrio. La trama, ondivaga quanto singolare, è tutto considerato un pretesto per dare modo agli autori di raccontare caratteri, manie, difficoltà e inquietudini adolescenziali in rapporto ai comportamenti degli adulti, spesso manchevoli e colpevoli, egoisti e superficiali nei confronti dei propri figli. Il cast di attori è perfettamente equilibrato nelle sue stranezze, e soprattutto i ragazzi sono espressione sincera del disagio del crescere, indipendentemente dalle stravaganze del contesto in cui si trovano ad agire. La regia di Lee ha la forza della farsa che nasconde un messaggio sincero e preciso, e il personaggio di Toni Colette ha una dolce malinconia dietro la forza che la vita l'ha costretta a inventarsi. L'atmosfera un po' sbilenca non tragga in inganno quindi, ci sono sentimenti pesanti in gioco, sofferenze e speranze che appartengono a tutti.
A muse - Eun-Gyo - di Ji Woo Chung con Hae-il Park, Mu-Yeol Kim, Kim Go-Eun,
Man-shik Jeong - Corea del Sud -2012 - Drammatico ***
Una giovane ed innocente lolita è al centro di questo intenso viaggio all'interno dell'universo emozionale maschile, fatto di desideri, gelosie, possesso e fantasia. Eun Gyo è una studentessa che viene assunta da Jeok-yo Lee un anziano famoso poeta come domestica. Fra i due nasce un rapporto complesso, con la ragazza che si rivolge al grande letterato con il vezzeggiativo "nonnino" e l'uomo che sogna di sedurla, con dialoghi in cui si cerca di dare una definizione di poesia e momenti di intensa tenerezza fisica. Eun Gyo è totalmente inconsapevole delle fantasie che suscita in Jeok-yo e lui sublima quella passione senile in un racconto breve che tiene gelosamente custodito. In tutto ciò si inserisce il giovane allievo di Jeok-yo, Ji-woo Seo, poco dotato ma desideroso di condividere il sapere del vecchio poeta. Inizialmente geloso di Eun Gyo che gli sottrae l'esclusivo interesse e affetto del maestro e poi anche lui attratto dalla ragazza Ji-woo ruba il racconto e lo pubblica a suo nome, quasi una vendetta verso i due per averlo escluso da quel loro mondo fatto di complicità e affetto. A questo punto gli eventi precipitano ed è bene non svelare oltre del plot anche se ovviamente il film non è incentrato sullo sviluppo di una trama al limite del giallo bensì sulle relazioni fra i vari personaggi, che si legano uno all'altro per solitudine, desiderio, bisogno di insegnare ed apprendere, di essere parte della vita di qualcun'altro oltre che della propria. Eleganza stilistica e immagini di grande impatto non sono certo una sorpresa nella cinematografia asiatica, ma Jo Woo Chiung fa lo sforzo di dilatare i dialoghi, di inserire una tensione non solo emotiva ma anche narrativa, e riesce perfettamente nel gioco di ibridare un'analisi sociologica e psicologica con un sottotesto fatto di suspance e attese, lasciando che siano gli sguardi, i gesti, le scoperte e le rivelazioni a far nascere sentimenti e a far comprendere meglio la vita, e alcune scene, nella loro crudele asciuttezza, grondano emozioni e commuovono profondamente. Un testo letterario di Bum-shin Park fa da base al film ma non si avverte mai il limite del mettere in scena la parola scritta e i meccanismi di svelamento dei personaggi, quasi al rallentatore, dimostrano ancora una volta che la classe di un autore sta nel saper ammaliare gli spettatori con un filo sottile, con verità sussurrate e con emozioni impreviste, facendolo partecipare, e precipitare, nel labirinto più oscuro che sia mai stato inventato, l'animo umano.
The Scapegoat - di Charles Sturridge con Matthew Rhys, Eilen Atkins, Alice Orr-Ewing, Andrew Scott, Sheridan Smith, Jodhi May, Eloise Webb - Inghilterra - 2012 - Drammatico ***
Tratto dal romanzo di Daphne du Maurier del 1957 "The scapegoat" (il capro espiatorio) è un delizioso esercizio di stile britannico, con tutte le caratteristiche letterarie trasformate in immagini eleganti e taglienti. La trama è basata sul classico scambio di ruoli fra due persone sconosciute che hanno però lineamenti identici. In questo caso il timido insegnante John, appena licenziato dal collegio dove insegnava greco, incontra in un pub Johnny Spence, ricco e annoiato rampollo di una famiglia dove si covano rancori e invidie e si coltivano tradimenti e ripicche. Al viziato e inconcludente Johhny non sembra vero poter scambiare le identità e così al mattino John si troverà stordito e probabiente drogato in abiti non suoi e con documenti che lo fanno appartenere al clan Spence. Un servizievole maggiordomo-autista lo accompagna nella avita magione e lì John dovrà vedersela con lo sfacelo che Johhny ha lasciato dietro di sè, una moglie frustrata e depressa, un'amante isterica, un fratello geloso e una sorella che lo odia per motivi che chiaramente John ignora, nonchè una madre ormai dedita alla morfina e una figlia dichiaratamente viziata. In un romanzo di Agatha Christie a questo punto avverrebbe un omicidio, e la casa diventerebbe palcoscenico per segreti inconfessabili, mentre nel libro della de Maurier, e nella perfetta trascrizione cinematografica, assistiamo ad una progressiva trasformazione di tutti i personaggi che relazionandosi con un uomo completamente diverso - del quale chiaramente ignorano l'identità ma che percepiscono come profondamente cambiato - si trovano a scoprire aspetti di sè inediti, e a mettere in gioco i propri sentimenti per salvare la famiglia e la fabbrica che posseggono dalla rovina. John fatica a trovare il passo giusto, ma decide di comportarsi con spontaneità e nel far questo compie una sorta di miracolo, svegliando gli abitanti dell'antico maniero da un'incantesimo emotivo che pareva imprigionarli. Il sotto finale è degno di un thriller, ma il vero finale è davanti ad uno dei primi modelli di televisione, a seguire l'incoronazione di Elisabetta II - siamo nel 1952 - a testimonianza di un nuovo mondo che si apre, per l'Inghilterra e per casa Spence. Un perfetto esempio di come un libro possa essere trasportato al cinema con stile e misura, mantenendo alta la tensione emotiva e accompagnando spettatori e protagonisti in un mondo oscuro dove solo un elemento esterno - ed estraneo - può accendere la luce della speranza.
Think like a man - di Tim Story con Michael Ealy, Taraji P. Henson, Kevin Hart,
Romany Malco, Gary Owen - USA - 2012 - Commedia sentimentale **
Commedia all black che si basa sul libro di Steve Harvey per ribadire ancora una volta che "gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere". Quattro amici si incontrano per la settimanale partita di pallacanestro e parlano dei loro problemi sentimentali: c'è chi sta separandosi, chi pur essendo un semplice chef è innamorato di una donna in carriera, c'è il bamboccione succube della madre che corteggia una ragazza madre e il single impenitente abituato ad avere ragazze da una notte e via che si trova a frequentare una ragazza che vuole aspettare i fatidici novanta giorni prima di concedersi. A far da sfondo a tutto questo il best seller che le protagoniste femminili leggono avidamente per imparare a conquistare un uomo e che i maschi si trovano a leggere loro malgrado per mettere in atto una sorta di controspionaggio, anticipando le mosse che le donne si aspettano per ottenre ciò che vogliono. Equivoci, litigi e lieto fine sono da copione, ma il tutto è decisamente fluido e divertente, con battute ficcanti e personaggi ben delineati. Le storie d'amore nulla tolgono alla commedia e la commedia non prevarica mai i sentimenti, che sono autentici e mai banali. Le difficoltà della ragazza madre, le incertezze dell'eterna fidanzata, la solitudine della donna in carriera sono le reali problematiche delle trentenni di oggi, come pure le inquietudini maschili - finanche stemperate dalla vena brillante dei protagonisti - riflettono le inadeguatezze che gli uomini si trovano a fronteggiare negli ultimi decenni. Un film leggero e spensierato dunque ma garbato e intelligentemente divertente, mai volgare, e di buon mestiere nel dirigere un composito cast ben affiatato.
Freelancers - di Jessy Terrero con Robert De Niro, Beau Garrett, Forest Whitaker,
Dana Delany - USA - 2012 - Poliziesco *
Cattivi, cattivissimi i poliziotti di "Freelancers". Sporchi sporchissimi gli affari che portano avanti senza scrupoli e sensi di colpa. Malo è il figlio di un agente di polizia ucciso anni prima che appena uscito dall'Accademia viene "reclutato" dal'ex partner del padre, Sarcone, per entrare nella sua squadra. Scoprirà presto che la squadra di Sarcone è fatta da agenti corrotti, che usano droga e fanno affari con boss della malavita. Incerto fra una ricchezza facile e il desiderio di far luce sulla morte del padre, Malo si troverà a discendere tutti gradini del degrado morale, del tradimento, della delusione e della frustrazione prima di riuscire - forse - a rimettere insieme tutte le tessere della propria vita. Un amore pulito e puro, incaranato da una ragazza che conosce malo da sempre, tenta di far da contraltare ad un atmosfera talmente cupa e amorale da rischiare di risucchiare Malo per sempre, ma l'approfondimento psicologico resta sullo sfondo nella pellicola di Jessy Terrero, che si concentra sui doppi e tripli giochi, sui meandri malavitosi in cui la legge si intrufola per interessi personali, dove la legalità viene completamente dimenticata, quasi che i poliziotti interpretati da Robert De Niro e Forest Whitaker siano caduti nelle uniformi - che peraltro non indossano - per puro caso. Un film che mantiene una certa tensione sulla trama e sui colpi di scena ma che crea personaggi troppo stereotipati, troppo ingessati e troppo monocromatici, dei villain a 360° che solitamente esistono solo nei cartoni animati. Dispiace che oltre De Niro anche Forest Whitaker si sia lasciato convincere ad interpretare un poliziotto così dimentico di sè stesso e dei propri ideali senza che mai baleni nel suo sguardo una scintilla di incertezza o di amarezza. Un po' più di lavoro sulla sceneggiatura avrebbe potuto dar vita ad un film dolente e sfaccettato, ma così ci troviamo di fronte ad un modello fin troppo abusato che nulla aggiune e nulla toglie a tanti poliziotti "brutti, sporchi e cattivi" precedenti.
Elefante bianco - di Pablo Trapero con Ricardo Darin, Jériéme Renier, Martina Gusman - Argentina, Spagna, 2012 - Drammatico ***
Raccontare il degrado di una bidonville può essere impresa ardua al cinema, si rischia di scadere nel pietistico, o di edulcorare una realtà che fa - e deve fare - orrore. La pellicola di Pablo Trapero - dedicata ed ispirata da Padre Mugica, ucciso in circostanze misteriose a Buenos Aires negli Anni Settanta - scansa abilmente le facili trappole rimanendo lucido e distaccato quanto basta, riuscendo allo stesso tempo a farci partecipi di un dolore reale, tangibile, e di una dedizione assoluta, pura e sincera come solo chi ha conosciuto un'inferno simile può avere. Il film si apre su una strage in Amazzonia a cui Nicolas, un giovane europeo, scampa per miracolo. Poco dopo lo ritroviamo a Buenos Aires, dove l'amico Julien - il grande Ricardo Darin di "Cosa piove dal cielo" e "Il segreto dei tuoi occhi" - lo accompagna a conoscere quello che è chiamato l'Elefante bianco, e cioè il più grande ospedale del Sud America, mai terminato, e ora una fatiscente bidonville dove si rifugiano sbandati, drogati, ragazzi senza famiglia, e dove prosperano i narcotrafficanti, in guerra fra loro e contro la polizia. E' solo a questo punto che scopriamo che Julien e Nicolas sono due sacerdoti, che tenteranno con fermezza ma anche con la necessaria comprensione per realtà che non si possono unicamente giudicare e condannare se si vuole riuscire a cambiare qualcosa, tenteranno dicevamo di aiutare chi ha bisogno, di contrastare l'uso di droga e di combattere contro la burocrazia per riuscire a dare dignità e alloggi a chi vuole uscire da quel girone dantesco dove non c'è futuro e non c'è giustizia. Li affianca Luciana, volontaria in bilico fra idealismo e delusione, fra speranza e rassegnazione. C'è un nucleo centrale duro nel film di Trapero, una realtà crudele e probabilmente ineliminabile, ma c'è soprattutto la tenacia, la volontà, la abnegazione di chi quella realtà vuole combatterla e se non sconfiggerla almeno modificarla. Non si ergono mai a giudici o a moralisti questi preti di frontiera, non si nascondono mai dietro ideologie e paletti religiosi, perchè ciò che li anima non è un precetto ma un sincero spirito umanitario, e l'approccio non è mai dogmatico con ragazzi che ignorano anche il più elementare senso morale perchè non è erigendo muri di legalità o facendo applicare rigidamente i dogmi della Chiesa che potranno ottenere qualche risultato, e loro lo sanno. La stanchezza sui loro volti è fatta di frustrazione e rabbia, l'abbandono fra Nicolas e Luciana è frutto del bisogno di un puro contatto umano più che desiderio di sesso, e la solidarietà che si crea fra tutti gli operatori, sacerdoti, volontari, medici e chiunque scelga di avventurarsi in un mondo simile, ha un che di magico, e di immensamente nobile. Finale amaro, ma del resto non avrebbe avuto la stessa potenza - e la stessa verità - un finale consolatorio e falso. Magnifico esempio di cinema verità attraversato da una vena di poesia e di coraggio, quel coraggio che solo chi ha un sogno nascosto in fondo al cuore può mettere in campo.
Sleepless night - Nuit blanche - di Frederic Jardin con Tomer Sisley, Joey Starr,
Julien Boisselier, Serge Riaboukine - Francia Belgio Lussemburgo - Poliziesco - 2011 ***
La lunga tradizione di polizieschi "alla francese" viene tenuta alta dalla pellicola di Frederic Jardin, che aggiunge un po' di spezie in più rispetto ai classici conosciuti, moltissima azione, una regia adrenalinica e un ritmo indiavolato - l'azione si svolge nell'arco di 24 ore - confezionando così un solido film di genere con tempi e modalità estremamente moderni. L'azione inizia fra le strade di Parigi, dove due uomini col volto coperto rubano una partita di droga. Sapremo di lì a poco che sono poliziotti, Vincent e Manuel, che la droga era di un boss che la deve girare ad un altro trafficante e per punire Vincent gli fa rapire il figlio. Da lì in poi sarà una corsa contro il tempo e la scena si sposta all'interno di un locale dove Vincent cercherà di liberare il bambino mentre una coppia di poliziotti, uno corrotto e una giovane ed ingenua cercheranno di incastrarlo con motivazioni ben diverse, mentre la sua posizione viene man mano rivelata, facendoci scoprire la vera ragione della rapina, che va scoperta man mano che il film procede, perchè i colpi di scena sono continui e ben organizzati al fine di tenere alta la tensione. Dopo una prima parte più guardinga, di preparazione della trama e di conoscenza - spesso falsata - dei personaggi si arriva ad una seconda parte totalmente fisica, con scontri, fughe e sparatorie, dove l'anima del film si svela e si manifesta la voglia del regista di divertirsi con la camera a mano, con inquadrature e montaggi spasmodici e con puntuali cadenze d'inganno. Gli attori seguono i loro personaggi con semplicità e naturalezza, aggiornando il carattere del duro e puro ma dal cuore tenero, che sa scatenare l'inferno per liberare il proprio figlio. Tutto in una notte quindi, divertimento e suspance compresa.
Game Change - di Jay Roach con Sarah Paulson, Woody Harrelson, Julianne Moore,
Ed Harris - Usa - 2012 ***
La campagna elettorale americana fa spesso da sfondo a film impegnati come "Le idi di marzo" o satirici come il recente "Candidato a sorpresa" ma in questo caso il film per la Tv andato in onda sulla HBO, canale da sempre coraggioso ed innovativo, diretto da Jay Roach e con un cast stellare che comprende Julianne Moore, Ed Harris e Woody Harrelson, non crea personaggi e situazioni ma mette in scena la vera campagna elettorale 2008 in cui si sfidarono Barak Obama e John Mc Cain concentrando l'attenzione sul personaggio più controverso di quel periodo, e cioè Sarah Palin. La sconosciuta governatrice dell'Alaska, reclutata in extremis per contrapporre la novità-donna alla novità-nero di Obama viene scrutata dagli autori - basandosi su un libro inchiesta di due reporter - lungo tutti i mesi in cui ha affiancato Mc Cain, repubblicano atipico a favore delle cellule staminali o dell'aborto. Il training a cui gli esperti di comunicazione la sottopongono è di quelli massacranti - anche per la pochezza culturale della Palin, impietosamente ripresa dalle televisioni di mezzo mondo - e però la presa sulla "sua" gente, repubblicani semplici tutti casa, chiesa e armi, è potente, e fa paura vedere come si possa ignorare palesemente l'esilità politica di un candidato a favore di un'empatia umana. Gli interpreti sono tutti magnificamente aderenti ai loro personaggi senza mai forzarli in caricature eccessive - anche se inevitabilmente si sorride a certe carenze culturali e caratteriali della Palin - ma soprattutto è l'accuratezza con cui è descritto tutto il baraccone elettorale che colpisce, la spietata analisi di ogni dettaglio e di come la strategia sia sempre tesa a guadagnare elettori, pur rinnegando i propri principi. La scena più toccante è quella che si svolge subito dopo le elezioni, in cui una della collaboratrici più strette di Mc Cain, che aveva seguito la Palin cercando di aiutarla ad apprendere i fondamenti di politica economia e cultura generale, confida ad un collega di non aver potuto votare, ammettendo la sua impossibilità di dare un voto, solo per appartenenza politica, ad una donna palesemente non in grado di governare il suo paese. Da parte repubblicana ci sono state polemiche per l'ottica troppo critica nei confronti di Sarah Palin, ma a ben guardare viene solo sottolineata la spietata macchina elettorale che prende una donna semplice, di media cultura e di grande carisma e la sfrutta ai propri fini, senza neanche pensare a cosa resterà di lei dopo essere passata al tritacarne dell'opinione pubblica, perchè in politica non conta la persona, conta il personaggio, e Sarah Palin, per qualche mese ha funzionato benissimo come personaggio, e se poi come donna è stata distrutta, agli strateghi delle campagna elettorali poco importa. Ma questo non è un messaggio anti repubblicano, è un messaggio critico verso tutto un mondo dove si è perso di vista il vero obiettivo, offrire ad una nazione i migliori governanti possibili. E questo messaggio il film di Roach lo invia con fermezza e rigore, senza far sconti, giustamente, a nessuno. Sette nominations agli Emmy e la produzione di Tom Hanks sottolineano il valore di questa produzione televisiva di altissimo livello, come spesso negli ultimi anni.
The last Elvis - di Armando Bo con John McInerny, Margarita Lopez, Griselda Siciliani - 2011 - Argentina - Drammatico ***
Presentato al Sundance Festival 2012, garanzia di qualità e originalità, "El ultimo Elvis" colpisce dritto il bersaglio, mettendo in scena una tragedia in progress, un gorgo di disperazione mista a megalomania che non può essere arrestato. Carlos Gutiérrez ha circa quarant'anni, lavora in fabbrica come operaio, ha un'ex moglie e una figlia che vede pochissimo. Tutto questo farebbe di lui uno dei tanti uomini un po tristi e solitari, ma Carlos è anche altro, perchè da sempre lui interpreta Elvis Presley, indossa il costume del suo mito, imbraccia il microfono e canta con lo stesso timbro del divo di Memphis, e poco conta che lo faccia in tristissime sale bingo o circoli ricreativi per anziani, Carlos sente di appartenere ad Elvis in tutto e per tutto, mangia i sandwitch preferiti del re del rock, ha chiamato la figlia Lisa Marie e quando dice "lei non sa chi sono io" non lo fa con la presunzione dell'arrogante, ma con la assoluta convinzione di essere non uno dei tanti imitatori di Elvis, ma la sua essenza terrena. Questo lo porta ad estraniarsi da tutto e da tutti, a considerare se stesso e la propria vita solo in rapporto alle esibizioni, alle ipotetiche tournee, all' assomigliare al suo idolo, tant'è che ingrassa man mano che invecchia per riuscire ad identificarsi totalmente con l'uomo che sente essere la sua ispirazione e la sua ragione d'essere. I problemi familiari e lavorativi umiliano la vita di Carlos, ma la vita di Elvis va avanti incurante di tutto precipitandolo in un vortice di distacco dalla realtà sempre più smaccato, fino ad un tragico viaggio a Graceland organizzato per il suo quarantaduesimo compleanno, età che coincide con la morte di Elvis. La regia di Armando Bo e l'interpretazione di John McInerny sono sicuramente magistrali ma è tutto il film a creare un'atmosfera malinconica e perdente di fascino doloroso e spiazzante, perchè la lucida follia di Carlos è vissuta con quella tragica normalità che la rende ancora più straziante. Il rapporto con la figlia inizialmente algido, quasi che Carlos-Elvis non capisca che ruolo debba avere una bambina nella sua vita, si trasforma durante una degenza in ospedale della ex moglie e regala un barlume di umanità e di normalità ad un uomo segnato dal proprio destino, un destino cui si è condannato in un delirio lucido e patetico da cui non sa e non vuole uscire. Le interpretazioni musicali sono talmente puntuali da rasentare non l'imitazione ma l'identificazione, ulteriore sforzo recitativo per dare uno spessore tragico ad un uomo che ci strappa il cuore dalla prima all'ultima scena.
Una famiglia all'improvviso - di Alex Kurtzman con Elizabeth Banks, Chris Pine,
Michelle Pfeiffer, Olivia Wilde, Michael Hall D'Addario, Jon Favreau - Usa - 2012 - Sentimentale **
Analisi di una famiglia che non sa di esserlo, questo potrebbe essere il sottotitolo del nuovo film di Kurtzman - che con il socio Orci ha dato vita a famosi serial come Alias e Fringe ed è autore di Mission Impossible III - lontano anni luce dai prodotti tutta azione e thriller per cui è noto, ma girato con garbo e furbizia, attento a contenere tutti i diktat - stereotipati? forse, un po', ma mai sgradevoli - di un film di genere sentimentale. Sam ha una carriera in difficoltà avendo fallito una trattativa e deve recarsi in California per il funerale del padre, con cui non aveva un buon rapporto. Lì si troverà a dover gestire una pesante eredità sia materiale, 150.000 dollari cash, sia emotiva, visto che la cifra è per una sorella che non ha mai saputo di avere. Naturalmente si accosterà a lei e al figlio undicenne della ragazza senza rivelare la sua identità e fra una confessione, un litigio, un pentimento e una lacrima riusciranno a crescere, a perdonarsi, e a guardare al futuro come una famiglia. Scene piuttosto prevedibili ma recitate con i tempi giusti, attori allineati con una recitazione lineare e semplice tra cui brilla la sempre bellissima Michelle Pfeiffer, e un percorso di sceneggiatura che ricalca tanti altri film simili, ma che non manca di una certa spontaneità e che ha il pregio di non far innamorare i protagonisti come capita di solito. Lieto fine sì, ma nella consapevolezza che la vita è comunque un percorso ad ostacoli dove si inciampa spesso e dove ci si fa male cadendo, ma che quel dolore è più sopportabile se c'è accanto a noi qualcuno che ci vuole bene per aiutarci a rialzarci.
Essential Killing - di Jerzy Skolimowski con Vincent Gallo, Emmanuelle Seigner,
Stig Frode Henriksen, Nicolai Cleve Broch - 2010 - Drammatico - Polonia, Norvegia, Irlanda, Ungheria ***
Iniziamo dai premi, Coppa Volpi a Venezia 2010 a Vincent Gallo e Premio Speciale della Giuria a Skolimowski. E diciamo che sono meritatissimi, perchè Gallo recita per tutto il film senza parlare, esprimendo solo con lo sguardo, e con il corpo, emozioni violente ed estreme. E Skolimowski costruisce un film praticamente muto che crea una tensione emotiva e fisica potentissima grazie agli ambienti naturali, allo straniamento del protagonista, alla crudezza del contesto. Il film si apre nel deserto afghano dove tre americani vengono uccisi da Mohammed, talebano forse, nascosto fra le montagne. Nel suo sparare c'è disagio, paura, lotta per la salvezza. La successiva cattura, la tortura, la sua incapacità di sentire a causa di una bomba lo precipitano in un gorgo incomprensibile di paura e alienazione e la successiva fuga, favorita da un incidente stradale nella foresta della Polonia lo lascia straniero in una landa innevata, braccato dall'esercito, destinato a morte sicura. Col passare dei giorni si troverà ad uccidere ancora, con orrore e disgusto, solo per sopravvivere, e ad indossare gli abiti delle sue vittime, in un continuo travestimento che lo priva sempre più della propria identità, riducendolo a puro istinto animale, a mangiare la corteccia degli alberi, a scappare verso il nulla sempre più disperato e spaesato. Solo la memoria di una donna e di un bambino irrompono nella sua mente sconvolta, ricordando a lui e a noi che c'era vita prima della guerra, c'era amore prima della follia dell'odio, c'erano musica, parole, versi del Corano prima della solitudine. Nel suo percorso verso la inevitabile fine solo l'incontro con una donna sordomuta - una dimessa ed intensa Emmanuelle Seigner - avrà i contorni di un contatto umano, dove la mancanza di comunicazione viene sostituita da un'empatia istintiva e primaria. Le scene forti sono tante, tutte bellissime, e la scelta di soffermarsi sul volto di Gallo durante le sue uccisioni, sul suo sgomento e il suo orrore, delimita i contorni del dramma, non rischiando mai di indulgere sulla violenza gratuita e anzi, rendendo quegli omicidi un atto che inorridisce soprattutto chi li compie spinto da una fame atavica e primordiale che divora ogni senso di umanità civilizzata. Nel silenzio della foresta, nella solitudine estrema emerge la follia dell'odio politico e religioso, ed emerge l'essenza umana, scarna e dolente, che si aggrappa ad un cavallo bianco, simbolo di purezza e di naturalità, per andare incontro alla sua fine.
The magic of Belle Isle - di Rob Reiner con Morgan Freeman, Virginia Madsen,
Madeline Carroll, Emma Fuhrmann - Usa - Sentimentale - 2012 ***
Ci sono attori capaci di spargere la propria polverina magica su ogni ruolo che interpretano, e Morgan Freeman è sicuramente uno di loro, passando con disinvoltura dai film d'autore ai blockbusters senza mai dimenticare di portare la propria sensibilità sul set. Nel nuovo film di Rob Reiner - "Stand by me" ed "Harry ti presento Sally" tra le sue opere più famose - Freeman interpreta Monte Wildhorn, anziano scrittore di libri western, ormai stanco di scrivere e di vivere, dipendente dall'alcool e su una sedia a rotelle che si trasferisce per l'estate in una casetta sulle rive del lago Greenwood dove dovrà occuparsi del cane del padrone di casa, musicista in tourneè. La sua ruvidezza viene pian piano scossa dai vicini di casa, Charlotte O'Neil una mamma divorziata con tre figlie e Carl, un ragazzo autistico. Tra lezioni di immaginazione alla piccola Finnegan O'Neil e la riscoperta di sentimenti dimenticati dopo la morte della moglie Monte scoprirà che la vita può ancora sorprenderlo e che anche lui ha ancora qualcosa da donare agli altri. Una trama semplice, sentimentale nel senso più alto del termine, con personaggi fragili e delicati, che nell'aprirsi agli altri manifestano tutto il dolore passato senza pudori, dimostrandosi persone vere, non quei caratteri tutti spigoli e stereotipi che attraversano la maggior parte delle pellicole. Abilissimo Reiner nel mantenersi sempre in bilico sul crinale delle emozioni senza mai scadere nel sentimentalismo, capace di regalare a Freeman e al cane Ringo-Spot duetti esilaranti, aggiorna il genere "riscoperta della vita" con eleganza e buon gusto, non dimenticando che la bellezza dolce e ammorbidita di Virginia Madsen conferisce alla sua Charlotte una vena sensuale e malinconica di gran pregio. Coraggioso dirigere ed interpretare un film apertamente sentimentale senza personaggi estremi o provocazioni spesso inutili ma che fanno tendenza, ma Reiner e Freman hanno talento e classe da vendere e il risultato dà loro pienamente ragione. Menzione di merito a Flora e all'elefante Tony che riportano Monte alla macchina da scrivere. E alla perfetta sottolineatura musicale che accompagna i vari racconti di Monte e Finnegan con note western piuttosto che da thriller mozzafiato che regalano un tocco ironico alla costruzione di una storia.
Fermat's Room - di Luis Piedrahita e Rodrigo Sopena con Alejio Sauras, Elena Ballestreros, Lluis Homar, Santi Millan, Federico Luppi - Thriller - Spagna - 2007
I tanti premi raccolti nei vari Festival a cui ha partecipato fanno di Fermat's Room una pellicola che va oltre il thriller tradizionale e si spinge in quel territorio psicologico in cui il confronto fra i protagonisti tiene alta la tensione più dei colpi di scena. Giallo chiuso in una camera - come The Exam, The Cube, Saw e tanti altri - la Stanza di Fermat per distinguersi gioca la carta della matematica e dei giochi di logica ("Oxford Murders - Teorema di un delitto" l'aveva già fatto in verità), racchiudendo in un salotto arredato Anni 70 quattro esperti di matematica per far loro risolvere degli enigmi, mentre le pareti della stanza si stringono sempre più in un abbraccio mortale, costringendoli a svelare i propri segreti e a confessare colpe lontane per tentare di scoprire chi è che li ha attirati in quella casa isolata e perchè. La tensione è creata dai capovolgimenti di fronte, dai sospetti e dai legami fra i protagonisti, apparentemente estranei fra loro. Gli indovinelli sono i più conosciuti fra gli appassionati di giochi matematici, ma inediti per il grande pubblico e un'enigma in più da svelare mentre scorre il film ed il cronometro che condanna i quattro prigionieri, all'interno di un thriller teso e lineare, che non necessita di scene violente o di effetti speciali per creare la suspance ma dipana con semplice eleganza gli elementi necessari a risolvere l'equazione a più incognite che svelerà il nome dell'assassino. La Spagna ancora una volta dopo "La verità nascosta", "Bed Time" e in qualche misura "Eva" ci coinvolge in sceneggiature psicologiche sottili e raffinate che niente hanno da invidiare ai thriller made in Usa.
Being Flynn -
di Paul Weitz con Robert De Niro, Julianne Moore, Paul Dano,
Olivia Thirlby - USA - 2012 - Drammatico **
Conoscendo la bulimia cinematografica che ha assalito Robert De Niro negli ultimi anni e che lo ha portato ad interpretare in modo svogliato pellicole al limite dell'imbarazzante è con un certo scetticismo che si approcciano i nuovi titoli che lo riguardano. Being Flynn però ha uno spessore toccante e dolente che gli permette di aderire alla sceneggiatura con maggiore credibilità. Il personaggio di De Niro, Jonathan Flynn è un taxista newyorkese rancoroso verso tutto e tutti - impossibile non pensare a Travis Bickle in alcune scene in cui guarda con disgusto i suoi passeggeri - che per tutta la vita ha ostinatamente scritto il "romanzo dei romanzi", il capolavoro della letteratura americana che solo per la miopia delle case editrici ancora non è diventato un best seller. Un passato in carcere e un presente senza casa e senza futuro costringono Jonathan a ricontattare il figlio Nick, abbandonato insieme alla moglie anni prima, cresciuto insicuro e segnato dal suicidio della madre, che lavora come volontario in un rifugio per homeless. Ed è lì che saltuariamente Nick e Jonathan si incontrano, e si scontrano, la personalità debordante e quasi maniacale di Jonathan ad aggredire, a ferire, e quella mite e inquieta di Nick a subire, a resistere. La mania di grandezza di Jonathan è però compensata da una immensa dignità e da un'ostinazione a vivere con fierezza che lo fa vagare per le strade al gelo senza arrendersi, e che fa sopportare a Nick i suoi eccessi, le intemperanze e le assenze. Dovranno allontanarsi per ritrovare ognuno il proprio equilibrio e la scena finale in una libreria, dove Nick legge brani del libro che ha scritto - e lui sì, al contrario del padre pubblicato - ha un tasso di tensione emotiva di altissimo livello e l'ultima battuta di De Niro e il suo ultimo sguardo ci restituiscono l'attore che conosciamo e amiamo. Un film dolente, con due protagonisti provati dalla vita, che si piegano, e si spezzano - Nick dopo aver rincontrato il padre inizia una china autodistruttiva pericolosa e quasi auto indulgente da cui uscirà solo dopo aver toccato il fondo della dipendenza da alcool e droga - ma che scava nel fallimento personale con coraggio e onestà consegnandoci uno spaccato del mondo degli emarginati mai edulcorato e mai pietistico. Il film è tratto dal libro autobiografico di Nick Flynn "Another Bullshit Night in Suck City" e le dinamiche padre figlio sono per questo sincere e scarnificate, dando alla malinconia e alla rabbia dei protagonisti un emozionante terreno in cui crescere. In più De Niro si concede una scena gigionesca in cui, in uno dei suoi deliri razziali, dichiara con furore che odia le nere e che non riuscirebbe neanche a baciarne una. Farà sorridere chiunque conosca la sua vita privata.
La Femme Du Cinquieme - The Woman in the Fifth - di Pawel Pawlikoski - con Ethan Hawke, Kristin Scott Thomas, Joanna Kulig, Samir Guesmi - 2011- Francia, Gran Bretagna - Drammatico **
Difficile dare una definizione di questo film che mescola stili e direzioni, proponendo alternativamente la chiave romanica, la chiave metafisica, la chiave surreale e la chiave psicologica, senza mai trovare la serratura giusta. Lo scrittore americano Tom Ricks, si reca a Parigi per vedere la figlia, da cui lo separa un ordine restrittivo voluto dall'ex moglie, perde bagaglio e portafoglio, si stabilisce in un albergo di periferia e comincia a scendere tutti i gradini della solitudine e della disperazione, L'incontro con una misteriosa donna, ambigua e sensuale, lo trascinerà negli abissi dell'inconscio e un lavoro oscuro lo coinvolgerà in trame sconosciute. Una giovane cameriera polacca, pura e ingenua, è l'unico elemento apparentemente catartico, ma anche la sua presenza sarà fonte di ulteriori fraintendimenti e perdite. Il regista polacco Pawlikoski sembra volersi ispirare ad un suo grande compatriota Polanski, e infatti spesso ci troviamo ad andare con la mente all' "Inquilino del terzo piano" dove però le spire della mente erano ben più affascinanti e ipnotiche, mentre qui si rimane su un piano sospeso senza mai affacciarsi veramente sull'abisso, quasi che le suggestioni debbano rimanere vaghe, quasi che il labirinto ossessivo in cui la mente e la vita di Ricks precipitano sempre più non abbia la forza di trasformarsi in scene evocative. Ethan Hawke e Kristin Scott Thomas restano algidi nei gesti e nelle parole, e la sensazione finale, pur alleviata da alcune scene intense e alcuni snodi originali, è che il film manchi di carattere e di personalità. Troppi indizi disseminati e mai recuperati fanno venir meno quell'affascinante gioco di mistero che è alla base di ogni thriller psicologico, e non basta lo sguardo sinceramente disperato di Hawke nel finale ad emozionare e convincere gli spettatori.
A Better Life - di Chris Weitz con Demian Bichir, José Julián - 2011 - Drammatico - USA ***
Cominciamo dalla nomination agli Oscar 2012 come miglior attore a Demian Bichir, e nel dire che è stata meritatissima, perchè tutto il film scorre sul suo volto, tavolozza di emozioni e sentimenti sinceri, capace di farci percepire il suo faticoso vivere con pochi tocchi espressivi. Carlos Galindo, giardiniere messicano a Los Angeles, dove vive senza permesso di soggiorno e di lavoro, cerca di assicurare al figlio Luis un futuro migliore, pagandogli le scuole e cercando di trasmettere al ragazzo dei sani principi, primo fra tutti l'onestà. La fatica di quest' uomo semplice e coraggioso, che ha cresciuto il figlio da solo e che non ha paura di rischiare la vita ogni giorno arrampicandosi sulle palme da potare con una precaria imbragatura solo per assicurare un avvenire a Luis, è tutta in quel corpo provato che ogni sera Carlos abbandona sul divano, è nel suo sguardo umile ma non rassegnato, è nel coraggio di comprare un camion e guidarlo senza patente pur di metter da parte soldi sufficienti a far cambiare scuola al figlio che frequenta gli ambienti vicini alle gangs, a tratti perfino affascinato dal potere che quei piccoli boss tatuati, che fanno la spola fra la strada e il carcere, esercitano sugli adolescenti. E proprio Luis, con le sue risposte sprezzanti, col suo rifiuto della cultura e delle tradizioni messicane, con la sua rabbia adolescenziale e con la sua incapacità di comprendere la mansuetudine e la tolleranza del padre, fa da contraltare all'integrità di Carlos, modello troppo "debole" per un quindicenne inquieto. Quando il furgone su cui Carlos ha riposto tutte le speranze per la loro "better life" verrà rubato i conflitti fra Luis e il padre si acuiscono - Luis aggredisce fisicamente il ladro mentre Carlos ha un atteggiamento molto più conciliante che sconcerta il figlio - salvo poi trasformarsi quando finalmente Luis capisce cosa il padre abbia fatto, e sia ancora disposto a fare, per dargli un futuro. Emozionante nella sua semplicità "A better life" ha il pregio di dare dignità al sacrificio oscuro, quello silenzioso e quotidiano che un genitore compie senza aspettarsi niente in cambio, se non la felicità di un figlio, e sa dare spessore ad un rapporto complesso e conflittuale come quello che Luis ha con Carlos, con pudori e premure nascosti e quasi negati, ma sempre ben visibili a chi sa guardare oltre i gesti bruschi e le parole imbarazzate. Grande prova d'attore di Bichir dicevamo, ma anche il giovane José Juian accompagna il suo Luis con fragilità e spavalderia tipiche degli adolescenti, e il dialogo finale in carcere, dove Carlos sta aspettando di essere rimpatriato in Messico, e dove Luis scopre che la verità è sempre lontana dalle apparenze, ha il sapore di una crescita e di una riscoperta, di se stessi e di quei valori sani e onesti che possono portare un uomo ad essere sconfitto, dalla burocrazia e dal destino, ma non a fargli perdere la propria dignità. Eredità ricchissima per un ragazzo che voleva solo fare soldi facili.
One for the Money - di Julie Anne Robinson con Katherine Heigl, Jason O'Mara,
Daniel Sunjata, John Leguizamo - 2011 - Commedia Sentimentale - USA *
Il nuovo film prodotto e interpretato da Katherine Heigl, eroina bionda di Grey's Anatomy che nelle sue prime commedie era assunta a nuova piccola fidanzata d'America per poi fallire un paio di bersagli, rientra perfettamente nella categoria in cui la ormai ex bionda si è specializzata in cui la protagonista è sempre, nell'ordine: carina ma non troppo - genere ragazza della porta accanto, semplice e non troppo sofisticata, sfortunata in amore, indipendente quanto basta per sentirsi un po' sola un po' fiera di esserlo e sopratutto in procinto di cacciarsi in tutti i guai possibili ed immaginabili, salvo uscirne finalmente innamorata, realizzata, pacificata con la vita. La Stephanie di "One for the money", ex commessa di biancheria intima da Mace'y si trova a diventare una cacciatrice di taglie, e cioè a rintracciare chi, dopo aver pagato una cauzione per rimanere in libertà fino al processo non si presenta il giorno del giudizio e diventa quindi fuggiasco. Guarda caso il suo primo caso riguarda niente meno che il ragazzo che le spezzò il cuore al liceo. Schermaglie d'amore si alternano a scene d'azione pura - Stephanie impara anche a sparare per l'occasione e naturalmente alla fine l'amore e la giustizia trionfano. Sarebbe ingenuo aspettarsi voli pindarici di stile o di recitazione, ma la pigrizia produttiva di questo genere di film - e film di genere - è davvero troppo palese fin dalle prime scene per potersi divertire nelle poche scene leggermente sopra la media. Sapere che il film è tratto da una serie di libri potrebbe far presagire qualche seguito, ma speriamo che la Heigl decida di tentare altre vie per la commedia, possibilmente meno abusate.
The Flowers of War - di Zhang Yimou con Christian Bale, Paul Schneider, Ni Ni,
Xinyi Zhang ***
Torna Zhang Yomou, il grande maestro cinese regista di capolavori come "Lanterne cinesi", "La storia di Qui Ju" e "Vivere" e lo fa con una pellicola dalle due anime, quella poetica e onirica della tradizione filmica cinese e quella dell'epopea di guerra tipicamente hollywoodiana, con un eroe che nasce come avventuriero e si trasforma in coraggioso paladino man mano che la storia si evolve. L'ambientazione è quella della guerra fra Cina e Giappone nel 1939, e più precisamente con l'occupazione di Nanchino da parte dell'esercito giapponese. Un avventuriero occidentale, truccatore di cadaveri e becchino arriva ad un collegio cattolico dove il sacerdote a capo della scuola è appena morto e dove le giovanissime scolare, sfuggite alle bombe e alle pallottole sono affidate alla cura di un ragazzino adottato anni prima dal sacerdote. Di lì a poche ore all'eterogeneo gruppo si uniscono un gruppo di variopinte prostitute, portando scompiglio e gelosie fra le allieve. I violenti combattimenti sono realistici, crudeli, fatti di spietate esecuzioni ed atti di eroismo, ma nel chiuso del collegio, nascoste in cantina, si confrontano le realtà dolenti delle prostitute bambine e le paure infantili delle bambine bambine, le prime truccate, colorate, vitali ed allegre nonostante il loro passato, le seconde nelle loro grigie uniformi, spaventate dal futuro. fra loro un Christian Bale disincantato, che veste l'abito talare per sfuggire ai soldati ma poi lo onora difendendo le bambine e strappandole allo stupro di un gruppo di giapponesi. c'è tutta la poesia e l'eleganza stilistica di Yimou nelle scene più intense, nella grande vetrata colorata che esplode per una bomba, nella coreografia danzata dalle prostitute immaginata da una giovane scolara, nell'artificio che grazie ai cosmetici del truccatore di morti trasforma le prostitute in ragazze ingenue ed innocenti, e c'è tutta l'epica della narrazione bellica nelle scene di guerriglia fra i pochi soldati cinesi rimasti e l'esercito nipponico, c'è anche una certa retorica nella descrizione delle atrocità compiute dai soldati, macchiette dure e impure, ma l'emozione che si respira nel piccolo collegio è vera e profonda, il sogno della fuga e della libertà (fisica e metaforica per le ragazze vendute al bordello quando erano ancora adolescenti e quindi schiave ben prima che la guerra avesse inizio) è accompagnato dal rimpianto di ciò che inevitabilmente si perde quando si abbandona una vecchia pelle, per quanto scomoda essa sia, e la trasformazione dell'avventuriero codardo in eroe capace di sentimenti e atti coraggiosi per quanto stereotipata è classicamente orchestrata e resa piacevole dalla recitazione inizialmente scanzonata di Bale che diventa credibile anche nelle scene più drammatiche. Le contaminazioni occidentali di struttura narrativa e di svolgimento scolastico non ne fanno il capolavoro di Yomou, ma la sua capacità di filmare, di dare respiro ad ogni scena e di ricamare suggestioni ed emozioni rimane intatta. E la bellezza perlacea e luminosa della sua nuova musa Ni Ni non ha niente da invidiare alla pur bellissima Gong Li.
Wuthering Heights - di Andrea Arnold con Kaya Scodelario, Nichola Burley,
Oliver Milburn, Steve Evets - 2011 - Drammatico - Gran Bretagna ****
Il romanzo di Emily Bronte "Cime Tempestose" di nuovo al cinema, perchè storie come quella dell'amore impossibile fra
Heathcliff e Catherine sono da sempre perfette per il grande schermo. Abbiamo visto versioni classiche (su tutte quella con Laurence Olivier del 1939) altre più originali o autoriali, che hanno cercato di togliere o aggiungere qualche interpretazione, qualche messaggio, qualche metafora. L'intento di Andrea Arnold (già regista di "Fish Tank") è altro, perchè oltre alla messa in scena del testo della Bronte sceglie di mettere in scena anche il contesto, mai così protagonista, in cui si svolge la storia. E non parliamo solo della mitica brughiera dove Cathy e Heathcliff corrono felici da bambini e disperati quando il loro amore si fa sempre più inarrivabile, ma della natura tout court che è presente con i suoni, i colori, gli odori. I ripetuti close up su insetti, fiori, animali in trappola e foglie mosse dal vento e l'uso spinto del telemacro sul formato 4:3 ci fanno entrare dentro il respiro degli alberi, del prato, degli uccelli in volo. E in questa danza dolce e crudele della natura è inglobato anche il rapporto passionale, violento, oscuro e destinato alla sofferenza dei due protagonisti, anche loro scrutati dalla camera stretta sui loro volti, quasi sempre in silenzio, a palesare dei sentimenti così devastanti da non poter essere espressi neanche dalle parole. Un film altamente materico, che non lesina sul lato oscuro di Heathcliff, sulla violenza del suo carattere, sulla rabbia cieca e sull'amore a tratti anche crudele verso la donna che non potrà mai avere. Un film fatto di gesti, di sguardi, di scene forti come quella in cui Heathcliff abbraccia il corpo ormai inerme di Cathy, che ricorda nell'iconografia l'abbraccio di Romeo su Giulietta appena morta, un film che ha la capacità di restituire intatto l'amore viscerale che lega i due protagonisti, ma che non lo ammanta di quel velo romantico che non ha nel libro e non deve avere in una trasposizione realistica. Meritatissimo premio per la fotografia al Festival di Venezia 2011 l'opera di Andrea Arnold respira di un fiato caldo e profondo, morboso e cupo, sensuale e crudele, rendendo l'opera della Bronte in tutta la sua potenza espressiva. Gli attori, quasi tutti non professionisti, sono spontanei e naturali come lo è la brughiera che li circonda e la scelta di far interpretare Heathcliff ad un attore di colore lo caratterizza ancora di più come straniero, estraneo alla società, fuori dagli schemi e dalla regole, e per questo più libero di infrangerle.
Miss Bala - di Gerardo Naranjo con Stephanie Sigman, Noé Hernández, Irene Azuela, James Russo - 2011 - Drammatico - Messico ***
Presentato in anteprima nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2011 Miss Bala ci cala nella realtà crudele e violenta dei narcotrafficanti che operano in Messico vicino al confine americano. E lo fa, per esasperare ancora più il contesto, attraverso gli occhi innocenti e spaventati di Laura, una ragazza che vorrebbe solo partecipare a Miss Baja California e invece, dopo essere stata involontaria testimone di un regolamento di conti fra narcotrafficanti ed agenti dell DEA, verrà rapita, usata, sfruttata e stuprata dal feroce capobanda Lino. Il silenzio con cui Laura attraversa gli orrori cui è costretta a partecipare (guidando la macchina con all'interno i cadaveri di funzionari statali americani o trasportando soldi sporchi negli Usa) e la rassegnazione con cui si concede al chi le sta rubando la vita pur se in cambio le promette una vittoria al concorso di bellezza (svuotandolo chiaramente di ogni significato) hanno una forza visiva ed evocativa rara, e il terrore che pervade le giornate di Laura, seguita, controllata, braccata dai narcos e dagli agenti dell'antidroga, è tutto nello sguardo deluso e spento della ragazza, nei suoi occhi che vagano nel nulla in cui si è trasformata la sua vita alla ricerca di significato, di un appiglio per andare avanti. Gli scontri a fuoco sanguinari e le esecuzioni brutali sono, se pur filmate con grande crudezza e veridicità, meno violente della crescente disperazione fatta di panico e di timore per la propria vita che si impossessa di Laura man mano che capisce in che trappola sia caduta. Mano felice di Naranio nel dirigere un film di denuncia forte, che ricorda come nella lotta al narcotraffico dal 2006 al 2011 siano morte qualcosa come 36000 persone, che ha il coraggio di rivelare come la figura della donna sia umiliata e sfruttata senza pietà e che nel mostrare Laura, nella scena finale, seduta ai margini di una strada, abusata, arrestata ingiustamente, infangata e infine buttata via come merce avariata, ci consegna un personaggio indimenticabile nella sua mitezza e nella sua accettazione di un destino infame, nella sua incapacità di ribellarsi e nella sua innocenza mai del tutto perduta anche se macchiata dall'orrore più nero. Merito anche della bellezza semplice e pulita d Stephane Sigman, capace di dare alla sua Laura un cuore che continua a battere anche quando tutti i suoi sogni sono stati uccisi dalla brutalità degli uomini.
Too Big to Fail - di Curtis Hanson con William Hurt, Edward Asner, Billy Crudup,
Paul Giamatti - 2010 - Drammatico - USA ***
Il crack della Lehman Brothers nel 2008 ha scoperto le crepe del sistema finanziario mondiale e dato il via ad una crisi economica che persiste ancora oggi. Il film di Hanson, presentato al Festival del Cinema di Roma 2011, ricostruisce quei giorni con precisione chirurgica, e con una spietata analisi dei meccanismi con cui Wall Street e i poteri forti delle grande banche governano il mondo ben più dei politici ci svela una realtà che le cronache dei giornali hanno solo sfiorato. Teso come un thriller, pieno di colpi di scena, tradimenti e alleanze strategiche il film si svolge senza un attimo di tregua, la trama pur essendo complessa e per certi "per addetti ai lavori" ha il pregio di essere facilmente comprensibile e di coinvolgere lo spettatore avvolgendolo di indignazione, di risentimento, di incredulità verso chi ha permesso che potenti manager potessero fare il bello e il cattivo tempo, mandare in rovina migliaia e migliaia di persone ed uscire indenni da tutto ciò con fuoriuscite e bonus miliardari. Bravissimi gli interpreti, William Hurt e Paul Giamatti su tutti, misurati, efficaci nel rappresentare una categoria di persone incapaci di vedere al di là dei libri contabili e delle statistiche di borsa. Il titolo "Too Big to Fail" (troppo grandi per fallire) si riferisce alle manovre e agli accordi fra il governo americano e le grandi banche finanziarie per salvare quei colossi che avrebbero dovuto fallire ma erano troppo potenti, e troppo importanti per lasciarli andare alla deriva. Meglio, molto meglio far fallire centinaia di migliaia di cittadini, silenziose masse licenziate da un giorno all'altro, piuttosto che ammettere che la casta era marcia, corrotta e interessata solo alla conservazione dei privilegi acquisiti. Pellicola imperdibile per capire il chi e il come, ma soprattutto il perchè di una crisi che ha contagiato l'economia mondiale. Ce ne vorrebbero di più di film coraggiosi e precisi come questo, ci vorrebbero inchieste e approfondimenti, ci vorrebbe sopratutto la forza per far fallire chi se me merita, anche se sono too big.
In the Land of Blood and Honey - di Angelina Jolie con Rade Serbedija, Zana Marjanovic, Nikola Djuricko, Branko Djuric - 2011 - Drammatico - USA ***
Prima regia di Angelina Jolie e subito una nomination ai Golden Globes 2012 nella categoria Miglior Film Straniero. Questo perchè la Jolie ha girato il film in serbo, sottotitolandolo in inglese, scelta coraggiosa e coerente con la sobrietà del film che si svolge durante il conflitto serbo bosniaco. Anja, pittrice musulmana bosniaca e Danijel poliziotto serbo si conoscono, vanno insieme a ballare, iniziano forse un flirt. Sembra l'inizio di una qualunque storia d'amore, invece pochi mesi dopo esploderà la guerra e tutto verrà spazzato via. Lei verrà catturata, lui tenterà di difenderla, vivranno comunque il loro amore, salvo poi tradirsi e perdersi spinti da forze più grandi di loro, incapaci di sottrarsi a quel mostruoso conflitto che ha distrutto famiglie, amicizie, vite e città. I ruoli di vittima e carnefice si ribaltano di continuo, in un crescendo di sentimenti ed emozioni che coinvolgono chi guarda in riflessioni morali oltre che sentimentali. La sensibilità femminile della Jolie riesce a tessere una trama intimistica pur non tralasciando le considerazioni etiche di fondo, e i dubbi e le incertezze dei due protagonisti di fronte ai propri sentimenti da un lato e al dovere di schierarsi a fianco dei connazionali sono sinceri e credibili. Decisamente positivo questo esordio nella regia della superstar Jolie che non ha paura di affrontare un tema spinoso, nè di scegliere di non apparire nel film per catturare qualche spettatore in più, lasciando che siano le scene forti e le storie potenti a conquistare, a far riflettere, ad emozionare. Gli sguardi dilaniati dei protagonisti, fermi sulle tele che Anja dipinge durante la prigionia, sono ciò che resta di una guerra incomprensibile e crudele che ha sconvolto l'ex Jugoslavia, e le esecuzioni brutali che irrompono sullo schermo sono sempre funzionali e mai gratuite, cosa rara in un film ambientato durante un conflitto. E la scena finale è di quelle che restano a lungo nella memoria, perchè la resa di fronte al male assoluto che è la guerra è una sconfitta per l'umanità tutta.
Machine Gun Preacher - di Marc Forster con Gerard Butler, Michelle Monaghan, Michael Shannon, Madeline Carroll - 2011 - Drammatico - USA **
Ispirato alla una storia vera di Sam Childers il film di Forster ci svela le mostruose verità di una delle tante guerre d'Africa dimenticate dai potenti, e più precisamente la ventunesima guerra civile in Sudan, per la quale sono morte già più di 500.000 persone e durante la quale 50.000 bambini sono stati rapiti dai guerriglieri per farne dei giovani soldati o peggio ancora, per venderli al mercato del sesso. Le atrocità di questo conflitto sono viste attraverso lo sguardo di Sam Childers, un Gerald Butler solido e imponente al punto giusto, ex galeotto e spacciatore, che convertito alla fede da una religiosissima moglie, decide di andare in Sudan per costruire un orfanotrofio per i bambini che le organizzazioni umanitarie riescono a salvare. Resterà sconvolto da una realtà che nessun telegiornale può rendere appieno, e quella che inizialmente è una missione si trasformerà quasi in un'ossessione, facendogli talvolta passare i limiti, dimenticando i bisogni della propria famiglia. L'onestà del film è il suo punto di forza, Childers non viene mai rappresentato con indulgenza o enfasi, le sue prediche sono talvolta provocatorie e sbilenche, ma difficile non sentirsi vicini alle sue scelte anche estreme di imbracciare il mitra e sfidare il capo dei ribelli sul suo stesso terreno quando si tratta di salvare dei bambini. Le immagini reali in chiusura del film danno ancora più valore ad una pellicola d'azione e di sostanza che ci costringe ad aprire gli occhi su una di quelle barbarie che l'Occidente ignora da troppo tempo.
Like Crazy - di Drake Doremus con Anton Yelchin, Felicity Jones, Jennifer Lawrence,
Charlie Bewley - 2011 - Sentimentale - USA ***
Premio Speciale della Giuria e Premio per la migliore interpretazione femminile al Sundance Festival Like Crazy è un piccolo gioiello imperdibile, un film in apparenza lieve e quasi esile nel suo narrare la storia d'amore di due giovani universitari, in realtà suggestivo e profondo nel mettere in scena quel percorso misterioso, doloroso ed inevitabile del "diventare grande". Anna e Jacob si conoscono all'Università e si innamorano "like crazy" appunto, alla follia. Le scene dei primi incontri sono di una delicatezza unica, credibili proprio perchè semplici e lineari, senza scivolare nello zuccheroso e senza mai scadere nel clichè degli innamoratini di Peynet. Tutto sembra perfetto, ma Anna è inglese e proprio per rimanere accanto a Jacob lascia scadere il suo visto di soggiorno, e così verrà rimandata a Londra. La distanza naturalmente rende la relazione fra i due giovani sempre più difficile, fra rotture e ritorni di fiamma, tra incontri pieni di passione, separazioni struggenti e gelosie difficili da gestire. Nel giro di qualche anno il famoso visto arriverà e Anna potrà tornare a Los Angeles, ma nel frattempo le loro vite sono andate avanti, hanno iniziato un percorso lavorativo, hanno conosciuto altre persone.... sono cresciuti appunto, perdendo quella magia che solo i vent'anni hanno. La scena finale sotto la doccia dei due protagonisti è intensa e toccante, riporta ognuno di noi al momento cruciale in cui ci siamo resi conto che la spensieratezza e l'euforia dei vent'anni non torneranno più. La grande tenerezza con cui Doremus segue i personaggi regala ai due ragazzi una luce magica e una profondità di emozioni e sentimenti che ci coinvolge fin dai primi sguardi che i due si scambiano. Un film fatto di piccole semplici cose, un film naturale e spontaneo, un film che racconta di tutti noi con una punta di nostalgia e tanta grazia.
Please Give - di Nicole Holofcener con Amanda Peet, Catherine Keener, Rebecca Hall,
Oliver Platt - 2010 - Commedia - USA ***
Piccole storie quotidiane di due famiglie vicine di pianerottolo, miserie e nobiltà degli animi umani, a riprova ancora una volta che nessuno è totalmente buono o cattivo, e che le favole sono lontanissime dalla realtà e dalla verità. Perché qui non ci sono streghe cattive anche se in alcune scene le protagoniste danno il peggio di sè, nè maghi malvagi anche se gli stereotipi maschili sono messi in ridicolo quanto basta. Qui c'è solo la difficoltà di vivere con le proprie paure, con i sensi di colpa, con i desideri frustrati e la rabbia verso chi quei desideri li potrebbe esaudire e invece non lo fa - lungo tutto il film una adolescente tormentata dall'acne chiede alla madre di comprarle un paio di jeans di marca per sentirsi meglio e tutto ciò che riceve in cambio è l'immagine di sua madre capace di dare cento dollari ad un barbone per strada per colmare quei sensi di colpa tipici dell'alta borghesia, ma incapace di scorgere i bisogni di chi le è più vicino, sua figlia appunto. C'è la vita in ogni sua sfumatura in questa bella commedia agrodolce di una regista che ha lavorato a lungo con un materiale spinoso come Six Feet Under ed ha acquisito la capacità di far sorridere anche parlando di temi come la morte e la sofferenza. Bella prova corale degli attori, su tutti il solito istrionico e geniale Oliver Platt.
The Son of No One - di Dito Montiel con Channing Tatum, Al Pacino, Juliette Binoche, Ray Liotta, Katie Holmes, Tracy Morgan - 2011 - Thriller - USA **
Grandissimo cast per un film duro, difficile, in cui il passato riemerge dolorosamente e per affrontarlo bisogna essere disposti a mettere in gioco tutto. Un giovane poliziotto viene assegnato alla vigilanza del quartiere dove è cresciuto e dove sono accaduti fatti di cui sa fin troppo. Una serie di lettere anonime fa riaprire un'inchiesta insabbiata anni prima e tutto ritorna a galla. Scelte di vite estreme, atti di generosità che si trasformano in omicidi per difendere la propria posizione, nel bel film di Dito Montiel ("Guida per riconoscere i tuoi santi") c'è tutta la contraddizione dell'animo umano, tutta la disperazione di chi agisce per difesa ma poi non ha il coraggio di fermarsi, c'è la sofferenza di doversi confrontare con le proprie responsabilità e la difficoltà di lasciarsi un passato doloroso alle spalle. Dolente, teso, lucido e spietato nel tratteggiare i personaggi Montiel ci consegna una prova corale di attori magistralmente ambigui e capaci di spiazzare (del resto Al Pacino è maestro della mimica e del trasformismo espressivo) e ci lascia con l'amaro in bocca da un punto di vista morale, ma molto soddisfatti da quello cinematografico.
The Lincoln Lawyer - di Brad Furman con Matthew McConaughey, Marisa Tomei,
John Leguizamo, Ryan Phillippe -2011 - Drammatico - USA ***
Un avvocato affermato che gira in limousine si trova fra le mani un caso scottante, difendere un giovane dell'alta società dall'accusa di stupro e tentato omicidio. Sarà l'inizio di un processo lungo e difficile, seguito da colpi di scena, trappole e raggiri che gli faranno rischiare la vita e mettere in discussione tutte le sue certezze. Era tempo che non si vedeva un solido film giudiziario venato di giallo e di critica sociale come questo, robusto, teso, avvincente. Frutto di una trama perfettamente orchestrata che distribuisce scene di analisi e di pura azione, e di un sototesto capace di suggerire trame ed intrighi che deludono profondamente chi ancora crede alla giustizia e alla verità ma che sono specchio di una società malata e corrotta. Matthew Mc Conaughey si muove perfettamente a suo agio nelle vesti del brillante avvocato sicuro di sè, e riesce a dare spessore anche alla frustrazione e alla paura che si impossessano di un uomo quando capisce di trovarsi in un gioco più grande di lui, dove la vita e la morte valgono poco o niente per chi è abituato a comandare e vincere. Un legal thriller di alto spessore quindi, che però è anche film di pura tensione e che invita lo spettatore a porsi le stesse domande del protagonista, e dare risposte altrettanto coraggiose e sincere.
The Company Men - di John Wells con Ben Affleck, Kevin Costner, Tommy Lee Jones, Maria Bello - 2010 - Drammatico - USA ***
La crisi economica e il licenziamento di un gran numero di impiegati e manager di una grande compagnia sono al centro di questo dolente affresco contemporaneo, in cui la grande crisi finanziaria resta sullo sfondo per concentrarsi invece sulle sue ripercussioni quotidiane nelle famiglie di chi ha perso il lavoro e con questo il proprio ruolo sociale. Inviare curriculm vitae, sostenere colloqui umilianti e dover seguire un corso di autostima sono quanto di più deprimente possa accadere a chi alla soglia dei quarant'anni pensava di essere già arrivato in vetta e si trova a doversi rimboccare le maniche, e non solo metaforicamente, visto che un paio dei protagonisti si ritroveranno a fare i carpentieri, per garantire alle proprie famiglie quel tenore di vita (club privati, scuole esclusive, macchine di lusso e mutui stratosferici per ville megagalattiche) che fino a pochi mesi prima davano per scontato e che invece dovranno dolorosamente imparare ad abbandonare. Non tutti ce la fanno a superare il fallimento professionale che diventa personale (il consulente che dovrebbe aiutare i licenziati a "riposizionarsi" in pratica li massacra con consigli che sembrano sferzanti giudizi - perdi peso, tingiti i capelli, nessuno assume una persona trasandata come te -) spingendo un manipolo di loro ad abbandonare la tetra riunione per andare a giocare a football al parco e riappropriarsi di quella vita semplice e vera che solo lontani dalle strategie di mercato e dalle rigide regole per rimanere aggrappati al mondo del lavoro "che conta" si può ritrovare, magari inchiodando, storti, gli infissi di una casa in costruzione. Bella metafora di una società soffocante e frustrante che impone ruoli e mortifica personalità. Il finale è un po' consolatorio, ma anche pieno di speranza per tutti coloro che non vogliono arrendersi solo perchè gli schemi del mercato finanziario impongono di estromettere chi ha più di trent'anni.
Quartier Lointain - di Sam Garbarski con Pascal Greggory, Alexandra Maria Lara, Jonathan Zaccaï, Léo Legrand - 2010 - Sentimentale - Francia, Germania ***
Favola leggera che sfiora tematiche profonde Quartier Lointain è un viaggio dentro noi stessi ed il nostro passato, visto con la consapevolezza dell'età adulta. Un uomo di ritorno a Parigi da un viaggio di lavoro sbaglia treno e si trova vicino alla cittadina dove è cresciuto, decide quindi di far visita alla tomba della madre e ripensa al giorno in cui suo padre improvvisamente scomparve, senza spiegazioni, per mai più ritornare. E proprio lì nel cimitero Thomas d'un tratto sviene per svegliarsi nel proprio corpo adolescente. Incredulo e spaventato prima, felice di ritrovare la sua famiglia poi, cerca di avvicinarsi al padre e di capire le ragioni per cui di lì a poco se ne andrà. E lo fa con la maturità dei sessant'anni e con la consapevolezza di non poter portare la felicità laddove non c'è mai stata, tentando però di recuperare una confidenza ed una tenerezza che nella realtà non c'era mai stata. La dolce malinconia che accompagna alcune scene è magnificamente rappresentata da quadri d'insieme che sembrano pennellate in chiaroscuro, e alcune scene con i compagni e con la prima fidanzatina sono molto divertenti (l'amico del cuore trovandolo così maturo, compassato e assennato arriva a dirgli "Sembri mio padre"). Non c'è spensieratezza in questo quattordicenne cosciente e consapevole della difficoltà del vivere, ma c'è un affetto sincero e profondo verso quei genitori dolenti e senza più slancio che solo chi ha vissuto a sua volta delusioni e disillusioni può provare. Bellissima la scena in cui Thomas invita a ballare la madre, come quella in cui appoggia una mano su quella del padre come a confortarlo, come a dare un sostegno paterno a quel padre tanto più giovane di lui. Come sempre la cinematografia francese ha una voce delicata e possente allo stesso tempo, e ci consegna una pellicola sensibile e raffinata, brillante e malinconica, capace di coniugare l'amarezza del ricordo doloroso con la dolcezza del tempo che passa dando significati diversi alla realtà.
Tyrannosaur - di Paddy Considine con Peter Mullan, Olivia Colman, Eddie Marsan, Paul
Popplewell - 2011 - Drammatico - Gran Bretagna ****
Premiatissimo al Sundance Festival del 2011, regia e protagonisti maschile e femminile, il film di Considine è un magnifico affresco dedicato al dolore, ritratto in ogni sua forma ed espressione. Joseph reagisce alle ferite della vita con rabbia e violenza, Hanna invece sopporta le umiliazioni e la furia del marito con fede e comprensione. L'incontro fra di due è di quelli destinati a cambiare entrambi, a renderli consapevoli dei propri errori e delle possibilità di redenzione o di espiazione. Personaggi fragili e dolenti, resi magistralmente da Mullan e Colman, esseri umani veri e sinceri, mai edulcorati e mai ammantati dal fascino del "maledetto" ma non per questo giudicati o condannati. Sceneggiatura asciutta e piena di umanità, un sobborgo londinese degradato e violento che potrebbe essere il sobborgo di qualunque metropoli al mondo, due vite andate alla deriva ma non per questo destinate al naufragio, tutto questo raccolto in scene toccanti e piene di pathos, dove anche una sola frase può segnare un destino. E la scena del funerale di un amico di Joseph rasenta la perfezione per quanto è intensa e vibrante. Una curiosità: il titolo del film, apparentemente fuori contesto, verrà spiegato da Joseph a circa metà del film e ci dirà molto su quanto i rimpianti ed i sensi di colpa possano essere un fardello che vanifica ogni tentativo di riscattarsi.
The Tempest - di Julie Taymor con Russell Brand, Alfred Molina, Helen Mirren, Alan
Cumming - 2010 - Drammatico - USA ***
Ogni attore inglese dà del tu a Shakespeare. Lo frequenta fin da giovane sui palcoscenici, conosce le versioni più audaci ed estreme di registi geniali e coraggiosi, lo vive come un vecchio amico, che talvolta si rispetta ma talvolta si può anche demitizzare, perciò siamo abituati a ogni genere di approccio ai capolavori del Bardo. Ma quello che Helen Mirren affronta in questa nuova versione della Tempesta è una di quelle sfide che si ricorda per la vita, e cioè interpretare Prospero, uno tra i personaggi più complessi e sfaccettati delle tragedie shakesperiane, volgendolo al femminile, rendendole una grazia e una umanità tutta nuova. La Tempesta è una fra le opere più simboliche e metaforiche di Shakespeare e in questo senso la versione diretta da Taymor non delude, con scelte audaci come gli effetti speciali che accompagnano i movimenti dello spirito Ariel. La trama ci racconta di Prospero, duca di Milano, appassionato di alchimia e studioso di scienze, che, tradito dal fratello alleato al Re di Napoli, viene esiliato da Milano e abbandonato da un pietoso servitore su un' isola deserta con la figlia Miranda. Da lì continuerà a dominare gli elementi e a farsi obbedire dai suoi due schiavi, lo spirito Ariel e l'umano Caibano, due figure complementari e fortemente simboliche che rappresentano la parte carnale e bassa dell'uomo l'uno e lo spirito fatto di pensiero elevato l'altro. Quando la nave con il Re di Mapoli e suo fratello si troverà in acque vicine all'isola Prospero scatenerà una tempesta per farli naufragare lì, e complice Ariel, farà innamorare il figlio del re della propria figlia e farà perdere il senno ai traditori. Il perdono finale e l'abbandono dell'arte alchemica di cui Prospero è maestro sono un gesto pietoso di ampissimo respiro in un bellissimo monologo della Mirren. Ottimi i tempi comici dei due fools Stefano e Trinculo e di grande effetto la messa in scena delle bassezze di Calibano e l'ambizione alla libertà di Ariel. Immensa la Mirren che non fa rimpiangere lo status maschile di Prospero e anzi, dà una connotazione più materna ai suoi propositi finalizzati a riprendere il controllo del ducato di Milano e a dare un futuro felice alla figlia che ha vissuto in esilio tutta la sua esistenza. E come al solito si resta incantati dall'attualità e dall'universalità delle strofe di Shakespeare. Opera visionaria ed onirica per eccellenza questa Tempesta si mantiene lieve e profonda anche nella messa in scena e ci ricorda ancora una volta che noi "siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni".
Coriolanus - di Ralph Fiennes con , Ralph Fiennes, Gerard Butler, Vanessa Redgrave, Brian Cox - 2010 - Drammatico - Gran Bretagna ***
Un corteo composto da gente del popolo inferocita e affamata da un governo tirannico ed autoritario assalta il deposito del grano e viene respinto dall'esercito duro e violento. Niente di più attuale, e invece no. E' Shakespeare che descrive nella prima scena di Coriolano l'insoddisfazione del popolo romano nei confronti del Senato. E che Ralph Fiennes, nella sua prima regia, usa per consegnarci uno Shakespeare fedele nel linguaggio ma ambientato in una metropoli contemporanea, dove le guerre vengono combattute con armi tecnologiche e i confronti elettorali si svolgono in studi televisivi. Caio Marzio Coriolano (così detto per aver conquistato Corioli, città dei Volsci battendo il suo storico nemico Aufidio) torna trionfatore a Roma e gli viene proposto di diventare console, ma dovrà prima convincere la plebe, e lui , arrogante e poco diplomatico, dovrà piegarsi alle ipocrite regole della politica se vorrà essere eletto. I tribuni della plebe tramano alle sue spalle, gli amici cercano di farlo apparire più simpatico di quel che è nelle uscite pubbliche, gli intrighi e le congiure si sprecano - è la politica bellezza, oggi come ai tempi di Shakespeare come ai tempi di Coriolano! Le scene ambientate in un talk show (invece della piazza pubblica) sono un esempio da manuale, con gli aizzapopolo che incitano a fischi ed applausi le rispettive fazioni. Tradito da due colleghi paurosi di perdere il potere Coriolano verrà bandito da Roma e per trovare vendetta si unirà a quell'Aufidio tanto odiato per guidare i Volsci alla conquista di Roma fin quando la madre (una Vanessa Redgrave magnifica nei monologhi e nelle espressioni severe di madre ispiratrice di vita e di onore) lo convincerà a firmare una pace che sarà tutt'altro che pacificatrice per Coriolano. Grande misura e grande intensità nei dialoghi e nei monologhi, riproposti nella scrittura originale del Bardo, e ottima l'ambientazione contemporanea per un testo che ha continui richiami attuali. Le tematiche eterne di Shakespeare, l'onore, il potere, la vendetta e l'amore sono interpretate al meglio da attori perfettamente a loro agio con le tragedie del grande commediografo di Straford on Avon come Fiennes e Redgrave e da un sorprendente Gerard Butler qui alla prima prova in un film di spessore oltre che d'azione. Presentato al Festival del Cinema di Berlino 2012 Coriolanus è un perfetto esempio di come si possa fare cinema contemporaneo non dimenticando la lezione dei grandi autori del passato.
Perfect Sense - di David Mackenzie con Ewan McGregor, Eva Green, Connie Nielsen,
Ewen
Bremner - 2011 - Drammatico - Gran Bretagna ***
Questo magnifico film è una elegia poetica sull'amore, sia pure ingabbiato in una eclissi totale della razza umana. Infatti tutto si svolge mentre un'epidemia di tristezza si abbatte su tutto il pianeta. Un'improvviso dolore incontrollabile e insopportabile che fa scoppiare a piangere chiunque ne venga contagiato. La scena di una donna letteralmente piegata in due sul marciapiede dalla sofferenza colpisce fin dai primi minuti del film. I sintomi successivi saranno la perdita dei vari sensi, l'olfatto per primo, con la conseguente perdita di tutti i ricordi evocati da un profumo o un odore, poi il gusto, seguito da una fame vorace e incontrollabile verso qualunque cosa, spazzatura, fiori, animali vivi (scene potenti e forti che lasciano il segno) e pian piano tutti gli altri, spegnendo così l'umanità. Ma non è un film catastrofico, anzi, è un inno all'amore che riuscirà a sbocciare fra due persone chiuse alla vita ben prima che scoppi l'epidemia (non riescono neanche a dormire se c'è qualcun altro nel loro letto) un amore capace di sopravvivere alla fine di tutto, perché quando tutti i sensi sono spenti ciò che resta sono solo le emozioni, e solo con quelle l'umanità potrà salvarsi. La pellicola di Mackenzie è una magnifica metafora su quello che che diamo per scontato e che invece dovremmo apprezzare ogni giorno della nostra vita. Il fatto che il dolore venga considerato una patologia è sintomatico di quanto nella nostra società si debba cercare la felicità a tutti i costi rimuovendo ciò che è il nostro passato doloroso - e infatti pochi mesi fa si parlò di un nuovo farmaco capace di rimuovere i ricordi dolorosi - e la perdita di identità a cui l'umanità va incontro è solo il mezzo per dirci che talvolta quel Perfect Sense del titolo, la capacità di amare, non è automatico come tutti gli altri, ma una conquista che ci apre le porte della libertà.
Bullhead - di Michael R. Roskam con Matthias Schoenaerts, Jeroen Perceval,
Jeanne
Dandoy, Barbara Sarafian - 2011 - Drammatico - Belgio ****
Candidato agli Oscar 2012 come Miglior Film Straniero questo piccolo film di produzione belga ha un'intensità rara. Le storie parallele di due bambini fiamminghi figli di allevatori di bestiame si intrecciano più volte nel corso delle loro vite dando origine ad una trama al limite del giallo. Un evento drammatico verificatosi quando erano piccoli segnerà il destino di entrambi e quando si ritroveranno ai due lati della legge dovranno fare i conti con la propria coscienza e con i segreti del passato. Teso, vibrante, capace di metafore toccanti e colpi di scena magnificamente orchestrati, la pellicola di Roskam ha il merito di lasciar parlare i corpi, gli sguardi, i silenzi, e con questi costruire dialoghi magnifici. E ha il coraggio di non schierarsi mai, anche quando sarebbe facile, dalla parte della vittima, perché la verità è che ogni vittima è anche un po' carnefice e ogni carnefice è vittima della propria rabbia. Magistralmente diretto ed interpretato, capace di tendere la corda della
tensione e farla scivolare lentamente, con eleganza e sofferenza, senza mai
scadere nel senzazionalismo o nel pietismo, il film di Roskam cattura l'essenza
dei personaggi, le loro paure più recondite e le restituisce intatte pur nella
rivoluzione che una vita sbagliata comporta, gelando le coscienze e riscladando
la compassione verso chi ha espiato colpe non ancora comesse e verso chi quelle
colpe commesse non se le perdonerà mai.
Beginners - con Ewan Mc Gregor, Christopher Plummer, Goran Visnijc - 2011 - Drammatico - USA ***
Oscar come migliore attore non protagonista a Christopher Plummer agli Oscar 2012, un impianto narrativo lieve pur muovendosi nei dintorni della morte e la originale scelta di accompagnare i monologhi del protagonista con disegni e fumetti fanno di Beginners un film atipico ed originale, sentimentale senza scadere nel sentimentalismo e capace di affrontare tematiche profonde come il confronto padre figlio senza appesantire mai la trama. Gli ultimi mesi di vita di Plummer sono un inno alla gioia, alla vita, a quel senso di spensierata avventura che lo ha portato a confessare al figlio la propria omosessualità solo dopo la scomparsa della moglie. E a questo figlio pauroso della vita, di innamorarsi e di soffrire regalerà dei ricordi bellissimi, una sana incoscienza e la certezza che solo vivendo si può imparare a vivere. Si riesce anche a ridere apertamente, senza sensi di colpa, alle battute di Plummer riguardo il suo stato terminale, merito di un grandissimo attore che fa dell'eleganza, non solo formale, la sua immensa forza.
Cinema Verite - di Shari Springer Berman, Robert Pulcini con Diane Lane, Tim Robbins, Thomas Dekker, James Gandolfini - 2011 - Drammatico - USA ***
Negli Anni 70 si chiamava Cinema Verità , oggi si è evoluto, o involuto, nel reality . Il punto resta sempre lo stesso, originale ed innovativo per quegli anni, ripetitivo e ormai abusato oggi, osservare la vita di gente comune all'interno dell'acquario schermo, dare le loro scenate, i litigi e le rappacificazione in pasto al pubblico e tentare una qualche analisi psicologica o sociologica che dia spessore al progetto. Il programma originale che andò in onda in America negli Anni 70 e di cui vediamo alcuni spezzoni durante il film diede il via al filone della televisione fatta dalla gente comune e fu un fenomeno di costume di rilevanza mediatica enorme. Cinema Verite ne ricostruisce i dietro le quinte, le strategie del produttore (un James Gandolfini sempre perfetto) disposto a tutto pur di strappare un'inquadratura drammatica o di fare uno scoop, le lusinghe che un'occasione del genere offre alla famiglia della media borghesia scelta per rappresentare la gente "comune" e tutto il terremoto che ne deriverà, perchè chiaramente la pressione è troppa, le tensioni e i rancori escono allo scoperto e le dinamiche familiari vengono stravolte dalla popolarità. Una Diane Lane sofisticata e magnifica negli abiti vintage, un Tim Robbins bonaccione e un po' ruffiano, dei figli stravaganti e un mondo lontano perfettamente ricostruito fanno di Cinema Verite un bellissimo esempio di racconto nel racconto, perché smaschera abilmente le trappole di un successo facile e allo stesso tempo ricorda che dietro alle storie copertina buone per far parlare giornali e televisioni qualche mese ci sono delle vite vere, che andranno ricostruite lontane dai riflettori, nel dolore e nel silenzio.
Red State - Kevin Smith con John Goodman, Michael Angarano, Melissa Leo,
Jennifer
Schwalbach Smith - 2011 - Drammatico - USA ***
Quando Kevin Smith esordì con Clerks - Commessi - fu subito chiaro che ci trovavamo di fronte ad un regista originale, provocatorio, capace di spiazzare. Nel suo nuovo film questo è vero più che mai. Tre ragazzi della provincia americana vanno in cerca di sesso facile e trovano l'orrore di una setta di fondamentalisti religiosi che tutto professano tranne che una qualche forma di spiritualità. Perché i versetti della Bibbia letti dal carismatico capo sembrano proiettili tanto odio trasmettono, e quando le armi vere vengono imbracciate non c'è pietà, nè compassione, e neanche buonsenso. Un viaggio allucinato e terrificante nel mondo più oscuro dell'America rurale, quelle sette in cui tutti i membri sono soggiogati e non c'è spazio per nessuna presa di coscienza. Ma l'approccio delle forze dell'ordine non è meno caotico e distruttivo secondo la visione di Smith che affida a John Goodman il ruolo di coscienza critica e di censore di ogni violenza. Un film bellissimo ma che fa paura per il mondo che ci presenta, un messaggio chiaro e forte seppure nascosto dal delirio del pastore, non c'è possibilità di dialogo e confronto fin quando ognuno di noi sarà convinto di essere l'unico tenutario della verità.