Giugno 2013
Doppio Gioco - La Verità si Nasconde nell'Ombra - di James Marsh con Gillian Anderson, Clive Owen, Aidan Gillen, Andrea Riseborough ***
Favola nera, dolente e amara, che racconta con tragica rassegnazione le prigioni sociali, culturali, familiari di una giovane donna senza futuro perchè segnata da un passato atroce. Siamo in Irlanda negli Anni Novanta e Colette appartiene ad un famiglia di militanti dell'Ira. Nel partecipare ad un'azione a Londra viene arrestata e contattata dall'Intelligence per diventare un informatrice, sottraendosi così al carcere. Lei è indecisa, ha una figlia piccola da accudire, ma anche dei fratelli estremamente decisi e se scoprissero che sta collaborando con la polizia inglese la ucciderebbero di sicuro, ma infine accetta, ed entra in una spirale di dubbi, amarezze, delusioni e frustrazioni che l'agente che fa da collegamento fra lei e la polizia cerca di contenere per far sì che la ragazza non ceda alle paure e al disagio che tradire la propria famiglia le comporta. Il rapporto fra i due è teso, di dipendenza, di odio e forse di amore, ma ciò che più colpisce è lo sguardo sperduto di Colette che già bambina vide uccidere uno dei suoi fratellini in una sparatoria con la polizia. E quello sguardo la accompagnerà in ogni sua scelta, in ogni tradimento vissuto con senso di colpa e con amarezza, in ogni scoperta che la allontana dall'innocenza di un tempo. E' un film estremamente controllato quello di James Marsh, nei toni, nei dialoghi, perfino nei colpi di scena che non mancano e sono di ottima fattura, ma c'è un cuore pulsante, intriso di solitudine e di sofferenza che forse proprio perchè non esibito in modo plateale strazia chi osserva questa giovane donna, stretta nel suo impermeabile rosso, attraversare le strade furtiva, sempre in fuga, sempre sola, sempre estranea. I due protagonisti sono perfetti nell'interpretare il disagio del ruolo cui non possono sottrarsi, Gillian Anderson minuta fragile eppure coraggiosa e implacabile una volta costretta all'angolo, Clive Owen disincantato, tradito di suoi stessi superiori, capace ancora di pietas eppure a suo modo inflessibile nel seguire le regole regalandoci due personaggi in bilico, eroi incompiuti, vittime di gioco crudele in cui principii, regole ed ideologie travolgono ogni sentimento.
Blood - di Nick Murphy con Paul Bettany, Mark Strong, Brian Cox, Stephen Graham ***
Tratto dalla miniserie televisiva "Conviction" prodotta dalla BBC anni fa "Blood soffre un po' - soprattutto per chi ha visto la serie TV - della necessità di condensare in poco più di un'ora e mezzo un plot che nella serie originale aveva tutto il tempo di dilatarsi, dedicarsi a rigagnoli narrativi e dinamiche familiari che qui obbligatoriamente vengono solo accennate, però la colonna vertebrale del film è solida, la trama importante, le sotto trame ricche di pathos e il rigore stilistico, narrativo e recitativo ne fanno un ottimo concentrato di indagine poliziesca, dramma familiare e fatale resa dei conti con i propri sensi di colpa. Siamo in Inghilterra, il vento spazza le coste e il mare si fa spesso burrascoso, scenario destinato ad ospitare un delitto atroce su una ragazzina di 12 anni. Primo indiziato Jason Buleigh, uomo problematico, con un passato di abusi sessuali da cui però sembra essersi allontanato "dopo aver trovato Gesù". Ad indagare un pool di detective amici fra loro, compagni di feste e bevute, fra cui i fratelli Joe e Chris Fairburn, figli di un anziano poliziotto affetto da demenza senile, che nel cercare di ottenere una confessione da Jason daranno il via ad un percorso di dolore, di sensi di colpa, di rinunce e di sacrifici che sciolgono la trama gialla in un crescendo di emozione e di sofferenza personale, che lambisce tutti coloro che sono coinvolti nell'indagine. La potenza narrativa di film di Nick Murphy sta nel gioco di sovrapposizioni fra coscienza e istinto, fra rimorso e ricordo, fra amore e delusione. Le scene brevissime in cui la madre della ragazza uccisa e la madre del sospetto manifestano ognuna a proprio modo il dolore sono una lezione di cinema per chi abbonda in pietismi e in lacrime urlate al vento, e tutta l'atmosfera emozionale del film, trattenuta e proprio per questo tesa e vibrante, ha uno spessore che sostiene l'andamento poliziesco dell'indagine, che del resto si scioglie ben presto, a testimoniare che non è la scoperta del colpevole il centro intorno a cui ruota la vera indagine, ma la scoperta del proprio io più nascosto, di un destino frutto del passato che possiamo sfuggire fin che vogliamo ma che ci perseguiterà per sempre. Peccato l 'uscita in Italia in finale di stagione, perchè un prodotto così rigoroso e corposo meritava ben altro spazio.
Dream Team - di Olivier Dahan con José Garcia, Jean-Pierre Marielle, Joey Starr, Franck Dubosc, Gad Elmaleh, Omar Sy, Ramzy ***
Concentrato di topoi cinematografici largamente amati dal pubblico "Dream team" è sulla carta l'ennesima variazione sul tema dell'uomo che cade e risorge, sullo spirito di gruppo che supera le difficoltà personali, sul riscatto economico della piccola fabbrica nei confronti della burocrazia, sui luoghi comuni da sfatare sulla noia dei piccoli centri di provincia a così via, ma il successo travolgente avuto in Francia dal film testimonia che ciò che in fieri risultava più che figlio nipote del deja vu cinematografico invece funziona benissimo, diverte e coinvolge grazie a personaggi stravaganti ma irresistibili, ad attori perfetti nella parte, a scene e duetti comici mai volgari o esasperati, e a sentimenti eterni ed immortali come l'amore, l'amicizia, l'orgoglio e la voglia di riscatto. L'ex campione di calcio Patrick Orbéra è un alcolista che sta per perdere la custodia della figlia e così accetta la proposta del giudice, allenare per tre mesi la squadra di calcio del Molene, isolotto in Bretagna, giunta inaspettatamente alle fasi finali della Coppa di Francia. Alla perplessità iniziale si aggiunge la constatazione che i giocatori locali sono terribilmente scarsi e così Orbéra va alla ricerca dei suoi vecchi compagni, chi perso fra cocaina e donne, chi in carcera per rissa, chi schiavo dei videogiochi e in perenne seduta psicanalitica, chi alla ricerca di una improbabile carriera cinematografica... inutile dire che si ritroveranno tutti sul fazzoletto di terra bretone, chi a a smaltire chili, chi ad innamorarsi della figlia del presidente della squadra, chi a ritrovare l'entusiasmo di giocare a palla - e non a calcio - Le fasi del film sono scandite sulla scaletta eterna della commedia dolce amara, ma è talmente ben giocata questa scaletta fatta di sconforto, entusiasmo, sconfitta e redenzione che nessuno può chiedere di più ad un gruppo di attori che suda si affanna, si diverte e ci diverte come solo le commedie francesi sanno fare, con garbo, eleganza, emozione e ironia. Un film sul calcio che dimentica il calcio per parlare di vita, di sentimenti e di rivincite, e che riconcilia con uno sport troppo spesso ormai solo business nel mondo reale.
Passioni e Desideri - di Fernando Meirelles con Rachel Weisz, Anthony Hopkins,
Jude Law, Ben Foster ****
Sentimenti all around the world, vortice fisico ed emotivo di corpi e anime che viaggiano, sbandano, si perdono e talvolta ritrovano la via. E ' un bellissimo gioco ad incastri il film di Meirelles, che mescola vite e destini, che incrocia desideri e frustrazioni, tradimenti e solitudini, redenzioni e rinunce, e nel farlo racconta la vita, quei sottili fili invisibili che sconvolgono destini e inventano un futuro, o al contrario lo distruggono con una svista emozionale. Sono tanti i protagonisti fuggevoli e sfuggenti, che conosciamo in viaggio d'affari o in fuga da un amore finito, o alla ricerca di una figlia scomparsa da anni, o all'inseguimento dei soldi e del successo, tutti su una via lastricata di errori, ripensamenti, dubbi e paure, e nella quotidianità che trascinano faticosamente scorgiamo il loro passato, e forse il loro futuro. E' nella premura verso una giovane sconosciuta che riconosciamo l'amore di Anthony Hopkins verso quella figlia scappata dopo aver scoperto che il padre aveva un'amante, è nella rinuncia ad una notte di sesso che leggiamo il duro percorso psicofisico fatto da un giovane stupratore, è dalla rinuncia alla donna che ama che comprendiamo il valore della fede di un medico mussulmano, è da ciò che non abbiamo visto che guardiamo in faccia la realtà di ciò che sarà nelle vite di questi sconosciuti che si sfiorano, che si scambiano sguardi e che inevitabilmente cambiano per sempre. C'è un filo forte, fatto di rimpianti e tenerezza, che lega il marito infedele alla moglie altrettanto infedele, c'è uno spazio infinito fra il boss russo e il suo tirapiedi, c'è un vuoto incolmabile nel cuore della ragazza brasiliana tradita e delusa e c'è l'eterno sogno negli occhi della giovane slovacca che, mentre aspetta la sorella che si prostituisce in un albergo, prova a costruire un amore. Non conosceremo mai il futuro di questi dolori e di queste speranze, ed è una scelta registica importante, una dichiarazione d'intenti, perchè non c'è fine alla storia, non c'è fine alla strada, non c'è fine agli errori e alla voglia di rimettersi in gioco, e la malinconia con cui si muovono tutti i protagonisti nel labirinto delle emozioni si percepisce autentica e vibrante, fatta come è di lacerazioni e promesse infrante, compromessi e delusioni, fughe e rimpianti. Peccato per il titolo italiano che banalizza un titolo originale ben più congeniale, "360", che abbraccia in un giro di walzer tutto che la vita propone, impone e beffardamente dispone.
Stoker - di Chan-wook Park con Nicole Kidman, Mia Wasikowska, Dermot Mulroney, Matthew Goode ***
L'adolescenza inquieta, che corre sul filo del dubbio e della seduzione, che mescola violenza e fragilità e scopre verità imperfette e ambigue. E' questo il tema del nuovo film di Chan-wook Park che per la sua prima avventura occidentale ambienta il plot in una dimora maestosa, immersa nel verde, asettica e lussuosa, dove vivono la giovane India e la madre Evelyn, provate, ognuna a suo modo, dalla recente perdita del rispettivo padre e marito Richard. Sono lontane le due donne, ostili o forse semplicemente diverse, incapaci di avvicinarsi nel dolore così come erano state incapaci di complicità e affetto quando Richard era ancora vivo. Quando al funerale si presenta Charlie, fratello minore di Richard, da sempre giramondo per lavoro, gli equilibri cambiano radicalmentee madre e figlia diventano in qualche modo rivali nel contendersi le attenzioni di questo giovane silenzioso, carismatico, seduttivo. Le svolte giallistiche che il film si concede, così come l'oscuro passato della famiglia che si svela pian piano, non sviano mai l'attenzione dal corpo minuto di India, donna bambina che scopre in sè un lato oscuro che solo il padre forse aveva intuito, e che non se ne lascia spaventare ma che anzi asseconda con ribellione adolescenziale, in rotta di collisione con il mondo intero, prima fra tutti se stessa. E' fatta di brividi impalpabili la fascinazione del film, non di tratti sottolineati o di passaggi cruciali - e infatti i colpi di scena sono quasi sempre appoggiati su inquadrature a scivolar via - e se la trama si intuisce andrà a pescare nel torbido del passato, del presente e forse del futuro, non è un peccato di sceneggiatura ma un voler sgombrare il campo da equivoci, qui non si tratta di scoprire il colpevole in un confronto alla Agatha Christie, qui si tratta di scoprire pulsioni perverse e passioni voraci, di guardare nell'abisso dell'inquietudine per scoprirla seduttiva. Gran parte del film si svolge sulle espressioni intense della giovane protagonista Mia Wasikowska che regge bene i primi piani che mescolano dolore e rancore, piacere e sgomento. Algida e altera Nicole botulino Kidman, ormai talmente levigata da somigliare ad una porcellana decorativa e allegramente perverso lo zio di Matthew Goode, perfetto esempio di manipolatore vittima del suo stesso ego. Manca forse il coraggio di osare qualche scena in più, di spingere il confine fra detto e non detto oltre il manierismo e di costruire un vero labirinto mentale fatto di ricatti emotivi e sensi di colpa, ma scena dopo scena si scivola nel disagio psicologico con subdola eleganza, a passi felpati, ma non per questo meno fatali.
Killer in Viaggio - di Ben Wheatley con Alice Lowe, Steve Oram, Eileen Davies,
Roger Michael ***
La rivisitazione grottesca e romantica dei serial killer di Ben Wheatley è cinema puramente british dall' humor freddo, nero, stemperato però da una tenerezza di fondo verso i suoi personaggi che ci fa sorridere nonostante, perchè le battute sono ottime, e gli interpreti perfetti. La trama inizia in medias res, con Tina e Chris, fidanzati da pochi mesi, che partono per una breve vacanza in roulotte, lasciandosi alle spalle frustrazioni e delusioni, perchè Tina ha con la madre anziana - che non vorrebbe vederla partire - un rapporto a dir poco conflittuale e Chris ha perso il lavoro anche se dice a tutti che ha preso un anno sabbatico per dedicarsi a scrivere un libro. In un giorno di ordinaria follia, indispettito da un gesto maleducato e incivile come quello di buttar la carta per terra da parte di un tizio mai visto prima, Chris lo investe forse per caso, forse volutamente, sicuramente con gran soddisfazione, e da lì in avanti la vacanza si trasforma in una danza macabra di sesso e omicidi, di amicizie mai nate e valori trasformati in moventi. L'escalation di rabbia, vendetta e sfogo dell'uomo - e della donna - mediocre sopraffatto da colleghi e parenti non ha però i toni crudi di altri film dedicati a solitari killer in guerra con il mondo perchè c'è una dolcezza di fondo in Tina e Chris, accenni lievi a sensi di colpa, incertezze e fragilità che ne fanno un modello assolutamente nuovo di eroe negativo, goffo e insicuro, bisognoso di conferme e di attenzioni, alla ricerca sempre e comunque di giustizia e di morale più che sfide sanguinarie, anche se parecchie scene sono decisamente crude nell'esecuzione, lasciate scorrere senza fretta, quasi che il processo di trasformazione di Tina e Chris dovesse arrivarci addosso con tutto il loro vissuto pregresso, palesato in quel bastone sollevato e calato a ripetizione, o nei passi lenti di Tina che insegue la sua vittima. Ha una presa filmica solidissima Wheatley, non si lascia mai sfuggire il plot, l'equilibrio dei toni, la recitazione, l'ambientazione, sa come dosare dramma e commedia sarcastica, affidandosi alla recitazione camaleontica e brillante di Alice Lowe e Steve Oram che fanno propri i tic le nevrosi e i vuoti esistenziali di Tina e Chris senza mai esasperarne i toni o gli eccessi gestuali pur nei momenti di maggior sfogo emotivo. Si ride amaro con la considerazione, tutta contemporanea, della difficoltà di gestire i disagi emozionali, di saper arginare in confini non patologici rabbia e delusione, di dover dar sfogo ai propri istinti per punire chi è colpevole di affronti assolutamente irrilevanti ma agli occhi di chi è on the edge totalmente inaccettabili come purtroppo ci insegna la cronaca recente.
Una Ragazza a Las Vegas - di Stephen Frears con Bruce Willis, Catherine Zeta-Jones, Rebecca Hall, Vince Vaughn, Frank Grillo, Jo Newman, Joshua Jackson ***
Divertissement frizzante ed intrigante per Stephen Frears che si circonda di attori come Bruce Willis, Catherine Zeta-Jones, Rebecca Hall e Vince Vaughn per mettere le mani sulla storia sbilenca ma effervescente di Beth, giovane spogliarellista che decide di lasciare la Florida per trasferirsi a Las Vegas e tentare la fortuna. Dopo aver conosciuto Dink, scommettitore professionista che con due collaboratori punta ogni giorno su ogni genere di evento, entra in un ambiente e in vortice di emozioni che inizialmente gestisce con difficoltà scoprendo però ben presto di avere un talento naturale che la porta ad essere un punto di riferimento per Dink. Il legame tra di due è in perfetto equilibrio fra affetto, attrazione e rispetto ma la moglie di Dink, Tulip - una semplicemente perfetta Zeta-Jones, ironica, sopra le righe, pantera gelosa e tenera compagna verso quel marito ossessionato dal gioco - non vede di buon occhio la frequentazione di Dink con Beth e così lei farà società con Rosie, altro scommettitore folle, con cui inizierà un rapporto d'affari a New York dove vive anche un giovane giornalista con cui inizia una storia d'amore. Le strade di Dink e Beth si incontreranno di nuovo nel finale del film, con colpi di scena e stangate degne del loro antico feeling. Feeling che si sprigiona altrettanto magicamente fra gli interpreti e il pubblico, perchè i caratteri di Dink, di Beth, di Tulip, e di tutti i comprimari sono così divertenti, e fragili, e coraggiosi, e sinceri, e autentici pur in un contesto schizofrenico come quello delle scommesse - e di Las Vegas - in cui si muovono, che non si può che partecipare con empatia e divertimento alle loro sarabande economiche e sentimentali. Gli sguardi tipici di Willis, ionici e divertiti, si fanno qui talvolta malinconici e dolenti, il che giova a lui e al film, la Zeta-Jones come dicevamo gioca al ruolo di vamp ma è capace di tirare fuori un'insospettabile profondità, e la sperduta Beth, desiderosa di affetto e di rassicurazioni scopre in sè una grinta che dà speranza a tutte le ragazze inquiete e sbandate. Frears tira fuori il meglio da una storia strampalata per quanto vera - il film è tratto dal romanzo verità della giornalista Beth Raymer come apprendiamo dai titoli di coda - e mette in piedi una commedia brillantissima ma anche venata di malinconia e slanci sentimentali e punta - vincendo a mani basse - su un cast che lo ripaga abbondantemente in carisma, spasso e simpatia. Vedere per credere lo scatenato twist che chiude il film.
The Butterfly Room - di Jonathan Zarantonello con Barbara Steele, Ray Wise, Erica Leerhsen, Heather Langenkamp **
Una Baby Jane contemporanea si aggira armata di qualsivoglia attrezzo e stermina chiunque si metta fra lei e una bambina cui è affezionata. Detta così la trama del film di Zarantonello può far pensare ad un thriller venato di horror, ed in parte di questo si tratta anche se il tentativo, non del tutto riuscito, è di dare spessore ad un anima spezzata, a tante anime spezzate ognuna infilzata al muro - proprio come le farfalle che la protagonista colleziona nella stanza da cui il titolo - dal proprio passato, da un presente frustrato, da un vuoto affettivo o da un'inquietudine senza motivo. Ann è una elegante signora che per caso incontra Alice, una bambina che finge di essere stata derubata della propria bambola da un gruppo di coetanei cattivi per spingere a compassione ricche signore ed entrare nelle loro vite vuote, diventandone amica e confidente e facendosi dare un po' di soldi inventando scuse su una madre invalida. Ann si affezione alla bambina credendo di essere la sua unica "amica del cuore", ma quando scopre il gioco della ragazzina si scatena in lei un odio furibondo per chiunque possa sottrarle l'affetto della bambina. E dato che nell'appartamento accanto al suo abita un'altra bambina a cui Ann si affeziona non fatichiamo ad immaginare come andrà a finire... in tutto questo si inserisce anche un passato tragico in cui era coinvolta la figlia di Ann che torna nella vita della madre per gridarle tutto il suo odio per ciò che le ha fatto subire da piccola... Flashback, personaggi destinati a soccombere fra schizzi di sangue e urla lancinanti nel giro di pochi minuti - o addirittura secondi - sguardi allucinati e musiche preparatorie, alla pellicola di Zarantonello non manca nessuno dei parametri classici di una pellicola chiaramente di genere, e fortunatamente la protagonista Barbara Steele regge il ruolo con algida eleganza e regale indifferenza agli orrori che perpetra, ma al di là della innegabile eleganza stilistica e di una atmosfera alto borghese magnificamente fotografata, il plot resta distante da un vero coinvolgimento emotivo e manca qualche vero colpo di scena - perchè il finale certo non lo è così metaforicamente psicanalitico - per essere un thriller davvero originale e avvincente, pur lasciandosi seguire docilmente nell'ora e mezza scarsa della sua durata.
After Earth - di M. Night Shyamalan con Will Smith, Isabelle Fuhrman, Zoë Kravitz,
Jaden Smith **
Missione "telefono casa" per Will Smith e figlio che in un futuro fosco, dopo essere "naufragati" sulla vecchia e a loro sconosciuta Terra, devono trovare il modo di tornare sul pianeta su cui si sono rifugiati gli uomini dopo la distruzione del loro pianeta. Ancora una fantascienza postapocalittica quindi, ancora un esilio in massa della popolazione terrestre su un altro pianeta, ancora un incidente spaziale che costringe al ritorno sulla vecchia landa un manipolo di eroi (uno in questo caso e per di più adolescente così si fa presa anche sul pubblico teen). Possibile che la fantascienza ormai non sappia proporci altro che stereotipi ormai imparati a memoria da numerose generazioni? E poco conta che qui si infarcisca l'avventura di rapporti padri figli da ricucire, di sensi di colpa e responsabilità, di affetti, memorie e chi più ne ha più ne metta, ciò che resta al fondo di un film tutto sommato piacevole intendiamoci, ben diretto con scenari magnifici e un giovane protagonista inquieto e malinconico al punto giusto, ciò che resta dicevamo è il senso di già visto, già ascoltato, già assimilato. La trama come accennato è lineare, semplicissima, il generale dei ranger Cypher Raige è un eroe incontrastato, capace di affrontare i mostruosi alieni Ursa senza emettere i ferormoni della paura, ed è alle soglie della pensione. Per un ultima missione decide di portare con sè il figlio Kitai con cui i rapporti sono pessimi, un po' perchè lui è un padre autoritario e Kitai il classico adolescente ribelle un po' perchè un passato - che conosceremo a mano a mano che la storia si dipana - li divide e li allontana sempre più. Durante il volo la navicella impatta un meteorite e precipita sulla terra, abbandonata anni prima e ridotta, ridotta si fa per dire, ad un paradiso lussureggiante di foreste incontaminate e paesaggi da togliere il fiato. Nell'impatto sopravvivono solo Cypher e il figlio - fortuna familiare si potrebbe dire! - e forse uno dei terribili Ursa che era imprigionato a bordo ma non si trova più. Il contatto radio con la base è interrotto, Cypher è ferito e solo Kitai può raggiungere una montagna da cui far partire un messaggio di aiuto. E così il ragazzo parte, armato delle sue paure, dei sensi di colpa per la morte della sorella tanti anni prima, della voglia di riscattarsi agli occhi del padre - poco prima di partire era stato bocciato all'esame per diventare ranger - e dovrà affrontare animali selvaggi - proprio come papà Smith in "Io sono leggenda", la mancanza di ossigeno, la solitudine - il contatto radio con il padre si interrompe quasi subito - e il terribile Ursa sopravvissuto anche lui all'impatto. Nell'ottocento una storia del genere si sarebbe definito "racconto di formazione" e a ben vedere Kitai fa proprio quel percorso che tutti i giovani fanno, e cioè maturare affrontando pericoli e difficoltà, ostacoli e paure anche se nella vita sono prove metaforiche e qui sono lotte corpo a corpo contro mostri feroci. Il sesto senso di Mister Shyamalan si è un po' perso per strada, l'originalità di questo film è davvero poca cosa, e al di là dei grandi effetti speciali e del sontuoso impianto scenico registico - luci, costumi, musiche - ma in un prodotto del genere non potrebbe essere altrimenti - la nota positiva sta nel fatto che ci sono ampi margini di intimismo recitativo fra un attacco di tigri, di aquile giganti e di Ursa inferociti, momenti di dialogo, di memoria e di riflessione che ingentiliscono un blockbuster professionale, tecnicamente impeccabile e con protagonisti simpatici - anche se Will papà Smith si limita a porgere la battuta al figlio e poco più - ma emozione, stupore e partecipazione restano fuori dalla sala. Sottotitolo ironico: "anche mio figlio è leggenda...".
Paulette - di Jérôme Enrico con Bernadette Lafont, Dominique Lavanant, Carmen Maura, Françoise Bertin ***
Se l'Inghilterra ha avuto l'erba di Grace la Francia ha ora l'erba di Paulette in un film divertente e garbato, ricco di stereotipi cinematografici se si vuole, ma godibile e disinvolto. Paulette ha avuto una vita felice, una pasticceria bar, un marito, una figlia, ma ormai è vecchia e sola, biliosa e rancorosa risponde a male parole a chiunque, non riesce ad arrivare a fine mese con la misera pensione sociale e non ha perdonato alla figlia di aver sposato un uomo di colore, ragion per cui non riesce a voler bene neanche al nipotino Leo. Tornando a casa una sera nel quartiere degradato dove vive assiste allo scambio di droga fra uno spacciatore e due ragazzi e quando viene informata dal genero poliziotto di quanto frutti lo spaccio di droga si fa coraggio e contatta il boss del quartiere per spacciare hashish. Inizialmente derisa e ignorata dagli abituali consumatori Paulette riesce però in breve tempo a farsi una sua cerchia di clienti con cui comincia a guadagnare bene. Ma il vero salto di qualità è dovuto al caso, e ad un dispetto di Le,o che inconsapevolmente aggiunge della droga nel dolce della nonna destinato alle amiche con cui Paulette gioca a carte al circolo per gli anziani. L'euforia che il dolce scatena dà a Paulette l'idea di inventarsi un business nuovo - del resto nel marketing ciò che conta è avere idee innovative - e così con l'aiuto delle altre vecchiette del quartiere si mette a sfornare dolcetti impastati con al marijuana che vanno a ruba fin quando....lasciamo a voi scoprire il risvolto poliziesco tinto di giallo del finale del film, che non sposta minimamente il tono leggero da commedia acido-sentimental-sociale ma che dà un colpetto di acceleratore al tono della narrazione. La figura di Paulette - e dell'intero film di conseguenza - è tutta sulle spalle di Bernadette Lafont che indossa con brio e disinvoltura i panni della vecchietta acida e scontrosa della prima parte del film, della spregiudicata donna d'affari nello sviluppo della trama e della sorniona imprenditrice riconciliata con la vita, con la famiglia e con lo spasimante fino ad allora respinto. Pellicola lieve, di peso specifico minimo, ma spumeggiante, ben recitata e soprattutto capace di un'ironia costante su tutto e su tutti, coraggiosamente esposta con battute razziste che però non fanno mai veramente male e che mantiene in squisito equilibrio la recitazione senza mai precipitare nel macchiettistico - anche se le avventure delle quattro vecchiette sono alquanto strampalate - grazie non solo alla Lafont ma anche a Carmen maura che le fa da magnifica spalla, pettegola in grembiulino come piacerebbe al suo Almodovar.
Epic - di Chris Wedge - Animazione ***
L'animazione ormai da tempo predilige i temi ambientalistici e la difesa della natura, se poi aggiungete la restrizione di un umano a dimensione lillipuziana penserete che Epic sia un cartone deja vu, e invece non è così, è una deliziosa avventura delicata e garbata, ma anche scatenata in immagini, trovate e situazioni che affascina a coinvolge, con un 3D che rende davvero magico il bosco e i suoi abitanti e con una trama che se pur nella tradizione non manca di riservare sorprese. Siamo in uno dei tanti boschi del mondo, e Mary Katherine, adolescente cui è appena morta la mamma e che si fa chiamare M.K. torna a vivere dal padre, studioso perso nelle sue ricerche sul mondo degli abitanti del bosco e che riconosce a malapena la figlia. Piuttosto sconvolta dalla fissazione del padre su un popolo di piccolissimi esseri che abiterebbe le foreste M.K. sta per tornare in città quando viene magicamente rimpicciolita e precipita nel ben mezzo di una lotta infinita fra quegli abitanti del bosco che non solo esistono ma prendono anche in giro gli umani da loro definiti "Calpestatori" e delle agguerrite larve, i Bogani, che vogliono distruggere il bosco e tutti i suoi abitanti. E' una notte magica per tutti i fiori, gli insetti, gli uccelli e il popolo microscopico, perchè c'è la luna piena ed il solstizio d'estate e la regina dovrà scegliere un bocciolo che al suo schiudersi indicherà chi le succederà. A proteggerla in questo compito i Leafmen, gruppo di guerrieri scelti in cui c'è Nod, un giovane ribelle che si innamorerà di M.K. Fra colibrì volanti, simpaticissime lumache e millepiedi carismatici M.K imparerà ad amare quel popolo variopinto e generoso che lotta per la sopravvivenza contro chi ha piacere solo a distruggere e rendere grigio tutto. I protagonisti sono tutti all'altezza delle aspettative, con storie personali, sentimenti profondi e comportamenti sinceri e credibili, i cattivi sono stereotipati come da copione, dalle forme spigolose e irte di punte, ma risultano godibili le scene in cui sognano di distruggere l'intero creato e si stupiscono di come nessuno apprezzi l'odore di marcio. Le due lumache sono semplicemente irresistibili anche dal punto di vista grafico, gelatinose e dispettose, e tutti i personaggi di contorno sono curati nei minimi particolari, esempio di una professionalità e di un talento che le varie avventure dell'Era Glaciale ci avevano già mostrato. Dedichiamo un'ultimo commento allo stralunato padre di M.K., raramente in un cartone animato si lascia tanto spazio ai tormenti psicologici, alle insicurezze, ai rimpianti e alle amarezze di un uomo, complimenti perciò a chi ha avuto il coraggio di aggiungere un pizzico di adulta malinconia alle stranezze del classico scienziato pazzo.
Holy Motors - di Leos Carax con Denis Lavant, Eva Mendes, Kylie Minogue, Michel Piccoli ****
Visivamente maestoso, strutturalmente tortuoso ed ipnotico, ricco di metafore, metalinguaggi e scarti metafisici, il nuovo film di Leos Carax è dedicato a chi cerca nel cinema un'esperienza totalizzante ed incerta, spiazzante ed eccentrica, una dichiarazione d'amore per la vita e per il cinema ricca di sarcasmo amarezza cinismo e disperazione, ma anche di poesia inespressa e di coraggio senza fine. La scena d'apertura su una sala gremita di spettatori immobili e immersi nell'oscurità è un preciso indizio dell'intento del pifferaio Carax che ci trascina con sè - fisicamente visto che è lo stesso regista il protagonista dei primi minuti di film - dietro una parete su cui sono disegnati alberi spogli e spettrali, in un cinema buio, dove un cane si aggira guardingo e da lì ci precipita, novelli Alice nel paese delle meraviglie distorte e solarizzate del suo protagonista, Mr Oscar - uno straordinario Denis Lavant invecchiato dai tempi del Pont Neuf ma dotato di una fisicità concentrata ed espressiva come non mai - che si trasforma nel corso di ventiquattro ore in decine di personaggi che interpreta per qualche minuto, o qualche ora, salvo poi rifugiarsi all'interno di una limousine chilometrica che è anche camerino d'attore, con trucchi e parrucche di scena, e un po' lettino dello psicanalista, con la bionda autista Céline ad incontrare il suo sguardo e la sua voce, o il suo datore di lavoro a ricordargli che la bellezza - e forse la verità, e la vita - è nello sguardo di chi guarda. Oscar è dapprima un banchiere sfrontato e arrogante che tratta affari al telefono e si preoccupa di armare le sue bodyguards, poi una tremebonda vecchietta che chiede l'elemosina sul Ponte Alexandre III, voce silenziosa di una società indifferente, e pochi minuti dopo un attore prestato alla motion capture che nel buio di una sala ci regala un saggio di poesia cinematografica, anche se non sapremo mai cosa quel luccichio di mille puntini luminosi diventerà, così come non sappiamo, fin quando Oscar non termina la sua successiva trasformazione chi sarà di lì a poco. Sarà selvaggio e folle - linguaggio incomprensibile, capelli incolti e unghie contorte da orco delle fiabe - in una parodia feroce e grottesca di performance underground ambientata nelle fogne di Parigi e in un cimitero dove le lapidi recano epitaffi che recitano "Visita il mio website" e dove la Bestia attira fotografi e giornalisti più della Bella - ed inerte - modella che sta posando per un servizio. E sarà ancora un uomo in fin di vita che filosofeggia con la giovane nipote sulla bellezza della vita, e un carnefice-vittima-carnefice di se stesso in una danza speculare di vita e di morte, e un padre banale e meschino, e il protagonista di un musical struggente, fino ad un doppio finale straziante e straniante che va visto e sentito con gli occhi e le orecchie di un'anima pronta a credere alla magia del cinema che tutto evoca tutto distrugge e tutto inventa. Siamo in un futuro apocalittico in cui, ci vuol dire Carax abbiamo abdicato la vita come la intendiamo oggi per trasformarci in schizofreniche parodie di esseri umani? O siamo nella mente malinconica di un cineasta che rimpiange le vecchie cineprese ingombranti e pesanti e si strugge di nostalgia? O ancora è una metafora a doppio cieco per indurci a credere a ciò che vediamo mentre l'essenziale è invisibile agli occhi come diceva Saint Exupery? Forse tutto, o forse niente, l'importante è stare al gioco e lasciarsi trascinare, sollevare e precipitare dal sublime concerto per corpo e volto mobile di Carax-Lavant che per non dimenticare le buone maniere cinematografiche ci regala un potentissimo e muscolare "Intervallo" proprio come è giusto che sia in un film che è film e film nel film fino al midollo.
Una Notte da Leoni 3 - di Todd Phillips con Bradley Cooper, Zach Galifianakis, Ed Helms, Ken Jeong, John Goodman, Melissa Mc Carty ***
Le notti dei leoni non finiscono mai, e forti del successo dei primi due episodi tornano i quattro amici on the road, e stavolta si spingono fino in Messico salvo chiudere il cerchio a Las Vegas da dove erano partiti alla conquista dei botteghini. Stavolta il pretesto - perchè la trama in film del genere è e deve essere sempre un pretesto per dar modo agli attori di dar sfogo alla loro verve e Galifianakis troneggia in questo - è che Alan ha rotto gli argini della propria incontrollabilità sociale decapitando una giraffa - scena esilarante come tante altre in un film che non ha vergogna di far ridere in modalità semplice ma professionalmente impeccabile e senza tempi morti - e quindi Phil, Stu e Alan lo accompagneranno in un centro di recupero. Ma è destino che i loro spostamenti non siano mai lineari, neanche fossero su un volo charter low cost che si sa quando si parte ma non se e quando si arriva, e così gangster, lingotti d'oro e la vecchia conoscenza, lo psicopatico gentile Chow stravolgeranno i loro piani portandoli anche ad una mission impossibile sul palazzo della Caesar Palace di las Vegas, con ogni estrema conseguenza che possiate immaginare. Il risvolto sentimentale con la sempre buffissima e bravissima Melissa Mc Carty, anima gemella di Alan e divertente - perchè not politically correct - figlia crudele di madre handicappata è il culmine di una storia che in finale ripercorre al ralenty le camminate in controluce dei quattro antieroi in giro per il mondo e non si può che essere dispiaciuti per la fine di un'epopea che sulla carta è banale, scontata e anche un po' demenziale ma che poi grazie ai meccanismi oliatissimi della regia e della sceneggiatura, al talento comico del duo Galifianakis-Jeong ma anche di Bradley Cooper che si lascia trascinare nella spontaneità di sguardi e gesti, diventa una felicissima avventura di battute, scene d'azione e anche un colpo di scena da film poliziesco, davvero un affare in tempo di film pigri e appiattiti su stereotipi inutili.
Tutti Pazzi per Rose - di Régis Roinsard con Romain Duris, Déborah François,
Bérénice Bejo, Shaun Benson ****
Incantevole il film, incantevole il personaggio, incantevole l'omaggio elegante, tenero e divertito che il regista Régis Roinsard rende alla commedia romantica degli Anni 50 e 60 costruendo un ricamo leggero ma mai superficiale che fa danzare i protagonisti in una perfetta sceneggiatura-scenografia. Rose Pamphyle vive in provincia, lavora nel negozio del padre e dovrebbe sposare il ragazzo più ambito del paese, ma ha un sogno nel cassetto, diventare segretaria, come tante altre ragazze del resto, che nel 1959, anno in cui il film è ambientato, vedono il traguardo di un impiego come segretaria il massimo dell'indipendenza e dell'emancipazione dalla famiglia, e a ben vedere era proprio così, perchè il ruolo sociale della segretaria era uno fra i più alti che una ragazza potesse raggiungere in quegli anni e in una esilarante scena che si svolge nell'anticamera della sala di colloqui veniamo a conoscenza del decalogo per essere scelte - occhiali, capelli raccolti e abiti severi - E così Rose, che ha un talento innato per la dattilografia riesce ad ottenere il posto nell'azienda di Louis Echard, che rimane affascinato dalla velocità di Rose nel battere a macchina e le propone di partecipare ai campionati regionali di dattilografia. La ragazza è perplessa, ma l'alternativa è tornare sconfitta al negozio di papà e così accetta un training massacrante per imparare a battere a macchina con dieci dita - lei da sempre ne usa solo due, e non si rideva tanto davanti ad una macchina da scrivere dai tempi di Jerry Lewis per dire del talento comico nascosto dietro il broncio goffo e tenero di Rose - e per vincere quel titolo che vale più per Louis che per Rose, ma che diventa per entrambi un muro di Gerico dietro cui nascondere i sentimenti reciproci che naturalmente verrà abbattuto romanticamente in finale. Le scene delle gare di dattilografia sono semplicemente esilaranti, con sfide all'Ok Corrall della tastiera fra sguardi feroci e svenimenti per la sconfitta, la trama romantica è giocata con tempi perfetti - e l'inserimento tutto contemporaneo, rispetto alle commedie "alla Doris Day", di un vecchio amore di Louis regala un tocco di sensibilità e di malinconia al film che si apprezza particolarmente nell'abbraccio di metaforico addio fra i due, l'eleganza registica di alcune scene - su tutte la notte d'amore di Louis e Rose con le luci rosse e blu dell'insegna pubblicitaria che illuminano i corpi - rende la pellicola sofisticata pur nel contesto romantico e la scena della cena, e del ballo, di Natale è semplicemente impeccabile, fra equivoci, coraggiose dichiarazioni d'amore e uno scatenato twist. Impossibile non innamorarsi di Rose, morbida e goffa quanto Louis è spigoloso e lucido, e impossibile non ripensare alla Sabrina di Audrey Hepburn quando Rose si trasforma da timido pulcino di provincia in sofisticato cigno dell'alta società, con quella frangetta un po' così, con quello sguardo un po' molto così, con quello sorriso un po' più di così...