Gennaio 2013
Les Miserables - di Tom Hooper con Hugh Jackman, Anne Hathaway, Russell Crowe, Amanda Seyfried, Helena Boham Carter, Sacha Baron Cohen, Eddie Redmayne *****
Un romanzo fra i più significativi della letteratura mondiale, un musical che da trent'anni entusiasma il pubblico, una storia che sembra fatta apposta per il grande cinema sembrerebbero motivi sufficienti a dare vita ad un capolavoro, ma il film di Tom Hooper brilla di luce propria creando una magia rara, plasmando scena dopo scena personaggi immortali ed immergendoli in un'epoca di sofferenza e miseria che se nella pagina di Hugo incombeva come una nube nera qui esplode come il cuore di una nazione. La scelta di aderire al musical anche nella parti recitate, che quindi risultano cantate - e da qui il consiglio di vedere il film in originale o al massimo con i sottotitoli per godere della messa in scena e della bravura degli interpreti - rende l'opera ancora più palpitante ed emozionante. La storia è ambientata in Francia, nel 1815, e segue le vicende di Jean Valjean che dopo 19 anni di prigione per aver rubato del pane si trova in libertà ma impossibilitato a ritrovare la propria dignità perchè perennemente rifiutato per il proprio passato. Il suo alter ego è Javert, guardia del carcere e sua ombra anche quando, dopo aver ricevuto un gesto caritatevole da padre Myriel che nasconde un suo furto, Valjean cambia e si dedica a fare il bene della comunità, diventando sindaco di Montreuil con il nome di Madeleine. Qui incontrerà Fantine, costretta a prostituirsi per mantenere la figlia Cosette, e poco prima della morte di lei le promette di prendersi cura della bambina, e per far questo fugge ancora dal proprio passato, inseguito dall'ossessione di Javert. Gli anni passano, i moti rivoluzionari degli studenti agitano Parigi e Cosette di innamora di Marius, giovane manifestante, amato anche da Eponine, figlia dei due locandieri che avevano cresciuto Cosette. Sarà Valjean a salvarlo dalla battaglia e a riunire i due giovani prima di morire riconciliato con se stesso. Sorte diversa avrà la sua nemesi Javert, che dopo essere stato catturato dai rivoltosi e liberato proprio da Valjean, non riuscirà ad accettare la fine del proprio odio, al contrario di Valjean che muore dicendo "sono un uomo che ha imparato a non odiare". La storia è potente, emozionante e coinvolgente, ma la grandiosità della musica, sia negli assoli sia nei duetti (che a volte diventano dialoghi amorosi e a tre o quattro con picchi di intensità magistrale) alza la temperatura emotiva, e porta sullo schermo le voci dolenti dei poveri, la redenzione di Valjean, l'ossessione di Javert, la passione di Cosette e la disperazione di Fantine con un crescendo visivo e sonoro che lascia senza fiato. Impossibile non rimanere incantati davanti alle scene corali, teatrali nell'impostazione ma totalmente cinematografiche nella realizzazione, impossibile non partecipare al crescente sussulto popolare e al dramma tutto intimo di un'uomo divorato dai sensi di colpa, assolutamente incantevoli le parti brillanti affidate a Thénardier e alla moglie (interpretati in modo semplicemente strepitoso da Helena Boham Carter e Sacha Baron Cohen) due fool shakesperiani colorati e surreali che irrompono nel dramma con tempi comici perfetti. E indimenticabili rimangono le canzoni, l'assolo di Fantine, l'accorata preghiera di Valjean, la disperata presa di coscienza di Javert, interpretate con coraggio, intensità e vitalità da tre interpreti in stato di grazia, una Anne Hathaway essenziale e scarnificata, uno Hugh Jackman tormentato e coraggioso e un Russel Crowe impeccabile nel tratteggiare un uomo ancorato alle regole e schiavo del dovere. Tra i giovani la parte di Eponine, e la sua canzone d'amore, sono una gemma di dolore sincero e puro, che tocca nel profondo. Finale arioso, lirico, poetico e corale, magnifico come tutto il film candidato ad otto meritatissimi Premi Oscar.
The Impossible - di Juan Antonio Bayona con Naomi Watts, Ewan McGregor, Tom Holland, Geraldine Chaplin, Marta Etura, Dominic Power ***
Potente, emozionante, terrificante ed inquietante. La forza della natura che sconvolse il mondo con lo tsunami del 26 Dicembre 2004 è ricostruita nel film di Baytona con una aderenza, emotiva e fisica, che inchioda alle immagini, e attraverso esse, fa percepire tutto l'orrore, la paura, la sensazione di solitudine dell'uomo di fronte all'eterna incontrollabile forza degli agenti atmosferici ma anche di fronte alla morte, al destino, al nulla che ci circonda se svuotiamo la realtà di volti, oggetti, ricordi e certezze. Siamo in Thailandia e la famiglia Bennett, Maria - Naomi Watts, meritatissima candidatura all'Oscar per questo ruolo - Henry - Ewan Mc Gregor scarno nei gesti e nelle parole quanto intenso negli sguardi sperduti - e i loro tre figli sono in vacanza in un resort sulla spiaggia. La mattina del 26 Dicembre in una spensierata giornata di sole che la famiglia sta trascorrendo in piscina - discutendo sul rischio di aver dimenticato di inserire l'allarme e quindi su possibili furti (dialogo che ci ricorda quanto futili siano le nostre preoccupazioni il più delle volte) la tragedia che nessuno mai poteva immaginare si abbatte silenziosa, uno tsunami devastante travolge cose e persone, rade al suolo alberi secolari e trascina in un vortice di fango, detriti e orrore tutto ciò che incontra. Salvarsi è una combinazione di fortuna, tenacia, coraggio e aiuto. Così Maria, che sta andando alla deriva ferita, scorge il figlio più grande Lucas fra le acque e fa di tutto per raggiungerlo, e per mettersi in salvo con lui arrampicandosi su un albero. La voce di un bambino che piange li spinge a ritardare la loro salvezza per recuperarlo e le scene dei tre abbarbicati ai rami che si danno conforto a vicenda sono sincere e toccanti nella loro sobrietà. Arriveranno i soccorsi e i tre verranno portati in un Ospedale talmente affollato da ricordare un girone dantesco, con i nomi dei dispersi gridati dai parenti con strazianti urla. Henry nel frattempo ha portato in salvo i due figli più piccoli, ma non si arrende alla scomparsa di Maria e Lucas, e li cerca per tutta la città, attraversando i campi profughi, incontrando solidarietà e non arrendendosi mai, nonostante le ferite e la paura. Quando riusciranno a ritrovarsi ci sarà naturalmente la gioia, ma quello che hanno vissuto rimarrà nei loro occhi e nei loro cuori per sempre. Si potrebbe pensare che una trama del genere, ricca di momenti di tensione, scene madri sottolineate da una musica avvolgente, sia tendente al ricattatorio, alla lacrima strappata con mestiere, e magari a qualcuno potrà anche risultare stucchevole la sequenza di sguardi che scrutano la folla e alla fine trovano chi da ore credevano morto, ma l'emozione semplice, primaria che accompagna quegli abbracci non può essere ignorata, e la regia sa dosare lo strazio, e sa fermare il tempo in una sorta di bolla sospesa, in cui niente ha senso fin quando non si riprende il contatto con la propria famiglia. La storia è vera, come quella di altre migliaia di famiglie rimaste intrappolate in quell'incubo senza fine, ma il film vive di vita propria, sceneggia con semplicità, filma con rigore, rende maestosa la natura con effetti speciali che sappiamo non essere affatto speciali nella violenza della natura, e ci consegna un decalogo di sentimenti e di emozioni pure, scarnificate, facendoci provare più di un brivido. Bravissima la Watts come dicevamo ma non si può dimenticare Tom Holland che interpreta il figlio Lucas, un adolescente maturo, coraggioso, tenace, ma che svela la sua fragilità negli sguardi e nei silenzi.
Looper - di Rian Johnson con Joseph Gordon-Levitt, Bruce Willis, Emily Blunt,
Paul Dano, Jeff Daniels ***
Fantascienza senza astronavi o mostri alieni, fantascienza che si occupa di sentimenti, delle implicazioni future, delle responsabilità di chi agisce oggi pensando - o non pensando - a ciò che questo comporterà per ciò che saremo domani. L'azione ha inizio nel 2044 e ci fa sapere che in un futuro non troppo lontano i viaggi nel tempo saranno tanto comuni quanto proibiti, ma verranno usati dai criminali per sbarazzarsi di persone sgradite, mandandole indietro nel tempo, bendate e legate, per essere eliminate dai Loopers, killer che fanno il lavoro sporco e guadagnano lingotti d'argento. Joe è uno di questi killer, uno fra i più giovani, fa una vita piuttosto disordinata fra donne e droghe senza farsi scrupoli di nessun genere - neanche a tradire un amico che non ha avuto il coraggio di uccidere il suo viaggiatore nel tempo quando si è accorto di essere lui stesso dopo trent'anni - fin quando non si troverà nella stessa situazione, occhi negli occhi con un se stesso invecchiato ma molto più ricco di esperienza e di umanità. L'uomo è tornato al 2044 per eliminare un bambino che dopo trent'anni sarà il responsabile dell'uccisione dell'adorata moglie e chiede al giovane se stesso di aiutarlo, di cambiare, di capire. La seconda parte del film è estremamente emozionante, meno d'azione e più di riflessione, fatta di incontri e confronti, di dialoghi e rivelazioni, fino ad un colpo di scena finale davvero ben orchestrato. Il pensiero non può non andare al"Esercito delle dodici scimmie" e a quel tipo di fantascienza capace di coniugare il futuro e le sue aberrazioni con le spire dei sentimenti che legano i protagonisti in un gioco di specchi e di rimandi, in cui solo liberandosi di un passato sbagliato si può avere un futuro. Bruce Willis e Joseph Gordon-Levitt (truccato per assomigliare al suo older ater ego) sono perfetti nell'interpretare le inquietudini di chi deve combattere contro se stesso oltre che contro nemici reali, e la presenza femminile, al contrario di ciò che spesso accade in pellicole del genere, ha un peso specifico importante, determinante quasi. Ritmo da film d'azione, emozioni da pellicola psicologica, un bel mix di tensione e rimpianti fanno di "Looper" un perfetto esempio di come un film di fantascienza possa fare spettacolo anche non facendo invadere le città da mostri alieni, perchè le emozioni dell'animo umano sono molto più misteriose e insondabili di qualunque creatura extraterrestre.
In Darkness - di Agnieszka Holland con Robert Wieckiewicz, Benno Fürmann,
Agnieszka Grochowska, Maria Schrader ***
Si potrebbe pensare che la "tematica Shoa", cinematograficamente parlando, sia stata ormai sviscerata in ogni suo aspetto, e coniugata in ogni possibile emozione, e invece c'è sempre un gesto nobile da scoprire, un orrore da smascherare, una storia che diventa Storia, un brivido da provare, con commozione ma senza facili speculazioni visive. "In Darkness", candidato come miglior film straniero nel 2012, esce finalmente anche in Italia e ci permette, come esseri umani, di venire a conoscenza di un episodio realmente accaduto nel 1943 in Polonia e come spettatori di cinema, di assistere ad un film asciutto, rigoroso, coraggioso e mai consolatorio o ricattatorio. Siamo a Leopoli, e nel ghetto l'incubo si avvera, i tedeschi e gli ucraini loro alleati stanno arrestando ed uccidendo uomini, donne, bambini, anziani. Leopold Socha, cattolico, sposato e padre di una bambina, di lavoro dovrebbe controllare le fognature della città, in realtà con il socio Szczepek ruba negli appartamenti vuoti, senza farsi scrupolo alcun., Caso vuole che si imbatta in un gruppo di ebrei che si sta nascondendo proprio nelle fognature della città e, fiutando l'affare, aiuti un manipolo di loro, dietro pagamento di denaro a trovare un riparo più nascosto. Gli procurerà cibo e vestiti, rinunciando a denunciarli quando gli verrà proposta una ricompensa da un ufficiale ucraino per ogni ebreo scovato nelle fogne, arrivando a rischiare la vita per quegli estranei che sta cominciando a conoscere e ad apprezzare umanamente. La diffidenza iniziale di Socha rende la sua azione ancora più sincera, perchè è solo di fronte all'orrore crescente di una condizione disumana, fra ratti ed escrementi, che Socha intravede ciò che realmente sta accadendo. Passeranno tredici mesi prima che alcuni di loro, i pochi sopravvissuti, escano da un tombino, scheletri disumanizzati accolti da Wanda, moglie di Socha con acqua e biscotti, come degli eroi, e ci vorranno moltissimi anni prima che una bambina di quel gruppo scriva le sue memorie in un libro uscito nel 2008. Coraggiosa due volta la Holland nel girare questo film, coraggiosa perchè ambienta gran parte delle scene in un buio quasi assoluto, e coraggiosa perchè sceglie di concentrarsi sulle espressioni dei fuggiaschi, sul loro buio interiore, sulla dignità perduta, sul sesso fatto per - con - disperazione, sulla solidarietà che un parto accende fra le donne, seguita dall'orrore dell'omicidio, perchè il pianto di un bambino può attirare i nazisti, e non nasconde mai le meschinità, le vendette, le bassezze che appartengono a tutti gli esseri umani, vittime o carnefici. Socha è il prototipo dell'uomo che prende coscienza, che dal buio scorge la luce della conoscenza, e da vigliacco diventa simbolo di resistenza, di coraggio, di generosità, e nel farlo accompagna il film sul binario più onesto e più sincero che si potesse immaginare, con la sua recitazione a sottrarre e con una fisicità rocciosa, mentre le emozioni dimesse, disperate e violente che il signor Chiger, Jacob, Klara, Yanek e gli altri esprimono con i loro silenzi e i loro volti segnati sono di quelle che non si dimenticano.
Quel che so sull'amore - di Gabriele Muccino con Jessica Biel, Gerard Butler, Catherina Zeta John, Dannis Quaid, Uma Thurman, Judy Greer *
Retorica sentimentale affidata ad una sceneggiatura vista già troppe volte, con protagonisti stereotipati ed emozioni talmente flebili da non arrivare mai allo stomaco. Gerard Butler è George Dryer, ex campione di calcio europeo che dopo aver lasciato la carriera per un infortunio ha difficoltà economiche - va in giro con un Duetto ma non sa come pagare l'affitto - e familiari - dopo una latitanza fatta di tradimenti ed assenze si è messo in testa di riconquistare il figlio e la moglie in procinto di risposarsi. Dopo aver trovato lavoro come allenatore della squadra di calcio scolastica in cui gioca il figlio Lewis George avrà a che fare con i genitori dei compagni del bambino, donne e uomini sull'orlo di una crisi di nervi o meglio di sesso visto che tutte le madri si buttano letteralmente su George - che tristezza ridurre le frustrazioni e la solitudine delle quarantenni ad una frenesia sessuale - e il marito padrone interpretato con scanzonato divertimento da Dannis Quaid gli è amico fin tanto che George è funzionale ai suoi affari miliardari. Naturalmente ci saranno equivoci, fraintendimenti, lacrime, scene madri e il banalissimo lieto fine preparato a tavolino da tutta una serie di cadute d'inganno. Che peccato che l'avventura americana di Muccino, così ben iniziata con la collaborazione con Will Smith, si sia sgonfiata con un film stanco, svogliato, pigro nei dialoghi come nella sceneggiatura, gonfiato da un cast altisonante che però non muove un muscolo recitativo, non brilla e non diverte neanche nonostante la recitazione sopra le righe di Quaid, della Thurman e della Zeta-Jones. Difficile dire cosa ci sia di sbagliato nel progetto, probabilmente tutto, o forse con qualche graffio in più, qualche buonismo in meno e qualche emozione diversa sarebbe potuto essere una dignitosa commedia romantica, uguale a tante altre ma almeno garbata, così invece si comincia ad essere delusi fin dalle prime scene e si continua ad esserlo fino ai titoli di coda. Senza neanche la consolazione di vedere Gerard Butler al meglio visto che esibisce addominali rilassati e pettorali avvizziti, che per un attore "fisico" come lui è come mettere un cappuccio sul viso di Brando! Torna a casa Muccino, che forse ritrovi quell'intimismo e quel lirismo che l'industria americana ti ha sradicato dal cuore( sempre sperando che il problema sia l'America...)
Flight - di Robert Zemeckis con Denzel Washington, Kelly Reilly, Don Cheadle, John Goodman, Melissa Leo, Bruce Greenwood ***
Le prima inquadrature del film, con Denzel Washington che si alza dal letto, beve un drink e sniffa cocaina è indizio più che palese della tematica - unica nonostante alcune pur importanti digressioni - del nuovo film di Zemeckis che ci trascina in un vortice di azioni e reazioni per due ore e un quarto nel seguire le vicende di Whip Whitaker, pilota di linea con dipendenza da alcool e droga. Nel primo quarto d'ora il film è un perfetto disaster movie, con Whip che pilota nel mezzo di una tempesta e all'improvviso si trova a gestire un guasto tecnico che lo costringe ad una manovra tanto azzardata quanto vincente (rovesciare l'aereo e atterrare lontano dalla città di Atlanta). Celebrato come eroe dai media mondiali - solo sei sono state le vittime grazie alla sua perizia - Whip giace contuso in ospedale e apprende che il suo esame tossicologico è risultato positivo - cosa che non lo stupisce ovviamente - e che probabilmente verrà processato per questo, tanto più che alla compagnia aerea non sembra vero di poter concentrare l'attenzione sul pilota e sviarla dalle proprie responsabilità sui pezzi malfunzionanti dell'aereo. Un collega e amico gli procurerà un avvocato che cercherà di far escludere l'esame tossicologico dal processo per alcuni vizi formali e Whip si avvia ad affrontare l'indagine dell'NTSB - la commissione di controllo degli incidenti aerei - trasferendosi nella casa di campagna del padre morto da poco per evitare i fotoreporter appostati davanti alla sua casa. Lì cercherà di curare le sue ferite fisiche ma soprattutto affronterà la sua dipendenza, con gli inevitabili fallimenti, con scatti d'ira, con propositi e promesse regolarmente infranti e rimpianti che bruciano l'anima. In questo percorso lo affianca Nicole, fotografa tossicodipendente conosciuta in ospedale, che inizialmente andrà a vivere con Whip ma che si allontanerà a causa delle continue ricadute di lui. Le ultime scene, in albergo la sera prima del processo, e in tribunale il giorno dopo sono decisamente le più elettriche, le più intense, le più convincenti. Tutto il percorso precedente, seppure ben recitato, ben diretto e ben scritto, è forse un po' troppo prevedibile e lento per appassionare fino in fondo, anche se la sensazione di film "old style" ha un suo fascino. L'idea di mantenere costantemente Whip sul bordo del baratro non è certo nuova, ma Washington padroneggia con disinvolta pigrizia il suo personaggio, concedendo pochi sguardi e pochi gesti, ma suscita comunque empatia e si riscatta in finale assumendosi le proprie responsabilità e affrontando le conseguenze del proprio alcolismo, riuscendo così a recuperare il rapporto con il figlio abbandonato anni prima e con Nicole. Non si può negare che "Flight" sia un film che , sia pure nella sua esagerata lunghezza, si segue piacevolmente, capace come è di passare con disinvoltura dalle scene d'azione dell'aereo che precipita a quelle serrate di interrogatorio processuale passando per gli svenimenti alcolici, ma quando in finale il figlio di Whip rivela al padre che, dovendo scrivere un tema sulla persona più interessante che abbia mai conosciuto, ha deciso di incentrarlo sulla figura dell'ex alcolista ci si chiede - forse ingenuamente nel retorico mondo cinematografico - perchè un pilota dedito al bere che alla fine si disintossica debba essere tanto interessante, al di là del fatto che lo interpreta il sempre carismatico e affascinante, seppure un po' troppo appesantito al giro vita, Denzel Washington.
A Royal Weekend - di Roger Michell con Bill Murray, Laura Linney, Olivia Williams, ELizabeth Wilson, Elizabeth Marvel ***
Inglesissima ricostruzione di un episodio reale accaduto nel 1939, e cioè l'incontro del giovane re inglese Giorgio VI, costretto dall'abdicazione del fratello a salire sul trono sia pure timido e balbuziente, e Franklin Delano Roosvelt, vulcanico presidente degli Stati Uniti, affetto dalla poliomielite, sposato ad Eleonor, donna eccentrica di fortissima personalità e gran seduttore. L'incontro si svolgerà a Hyde Park on Hudson, casa materna di Roosvelt, in una splendida campagna, e cambierà le sorti del mondo, perchè in quei due due giorni si deciderà l'alleanza anglo americana per il conflitto che di lì a poco sconvolgerà il mondo. Ma la grande Storia resta dietro le quinte del film di Michell perchè la vicenda che ci viene narrata è tratta dai diari di Margaret Suckley, cugina di quinto o sesto grado del presidente e sua amante segreta fino al ritrovamento dei diari di lei dopo la sua morte, a più di cento anni. Margaret inizialmente è una compagna di scorazzate in macchina per il presidente, insofferente alle etichette e alla vita di Washington, ma ben presto ne diventa l'amante, salvo poi dover scoprire che è solo una delle tante donne della vita di Franklin e accettare la pur sofferta condivisione pur di rimanere nella sua cerchia. Tutto questo mentre i reali sono in arrivo, Eleonor si appresta ad allestire un pic nic a base di hot dog ed esibizioni di indiani piumati e la madre di Roosvelt è in fibrillazione per la mancanza di piatti adeguati ad una regina. Che arriva, con il suo impacciato re, e si aggira per la campagna e per le stanze della dimora presidenziale come se fosse nella giungla amazzonica, regalandoci alcune fra le scene più divertenti del film, che è tutto sui toni leggeri, ma eleganti e lievi come è tipico della commedia inglese, che non manca di battute, siparietti impagabili e duetti di grande prestigio - Bill Murrey è perfetto ma anche Samuel West non sbaglia un'espressione nel tratteggiare il povero re più spaventato dalla reazione della regina ad un suo commento inappropriato che dal rifiuto di Roosvelt di appoggiare l'Inghilterra contro Hitler, e anche le figure femminili sono ognuna a suo modo centratissime - Laura Linney è una Margaret sommessa, defilata, ma anche tenace nel rimanere aggrappata al suo sogno, Elizabeth Wilson è una Eleonor Roosvelt simpaticamente sopra le righe come vuole il personaggio ma soprattutto Olivia Williams è una spassosissima regina, terrorizzata all'idea di mangiare un hot dog! Gradevolissimo film dunque, leggero e a tratti fin troppo indulgente, ma impeccabile nel mettere in scena una romantico, tragico, farsesco fine settimana di un'epoca ormai lontana.
Lincoln - di Steven Spielberg con Daniel Day-Lewis, Tommy Lee Jones, Sally Field, Lee Pace, Joseph Gordon-Levitt ***
Stilisticamente impeccabile, tecnicamente magistrale - luci, scene, costumi e fotografia da Oscar - politicamente corretto e misurato, se fosse un documentario della History Channel il "Linclon" di Spielberg sarebbe un capolavoro, ma la magia del cinema dov'è? Nell'epopea che racconta la ratifica del XIII Emendamento che nel 1865 abolirà la schiavitù dei neri manca la scintilla pulsante che accende il cuore dei grandi capolavori nonostante la recitazione impeccabile di Day Lewis, della Field e di Tommy Lee Jones e nonostante la regia attenta e meticolosa di Spielberg. La scelta di concentrare l'azione in un pugno di mesi sulla carta si prospetta interessante (la sceneggiatura è tratta da "Team of Rivals" di Kushner) per non appesantire la biografia di Lincoln con anni ed anni di avvenimenti, ma nonostante questo le dispute parlamentari e gli interminabili approfondimenti sui dettagli del trattato appesantiscono la prima parte del film oltre misura, la guerra resta sullo sfondo e tristemente apprendiamo che la firma della pace fu solo una pedina di scambio sul tavolo delle trattative per arrivare ad avere la maggioranza il giorno della votazione, maggioranza ottenuta con i peggiori voti di scambio, con corruzione, con minacce e con sotterfugi, ma si sa, la Storia non si fa con le mani pulite. Lincoln è carismatico sì, ma fin troppo ieratico, perso dietro i suoi pensieri e intento a raccontare le sue astruse storie (che fosse un fan di Tarantino e dei suoi dialoghi strampalati ma ben più divertenti?) il Thaddeus Stevens di Tommy Lee Jones è paradossale e sopra le righe - fortuna per noi perchè ci regala qualche sorriso - ma tende al macchiettistico, Sally Field regala l'unica scena di cinema vero, quando si inginocchia davanti al marito confessando tutto il suo dolore e strappando al presidente l'unico guizzo di umanità che Spilberg gli concede (troppo poco noi italiani conosciamo della storia americana per sapere se davvero il carattere dell'uomo che "ha fatto l'America" fosse così controllato) e tutto il cast fa il suo lavoro con precisione e mestiere, ma nulla più, non si sussulta, non si palpita, non ci si emoziona e non ci si commuove, nè quando l'emendamento viene approvato, nè quando Lincoln viene ucciso, e neanche quando i generali degli eserciti del Nord e del Sud si incontrano alla fine della guerra. E invece sono scene che dovrebbero far venire i brividi in un film di Spielberg, perchè di brividi emozioni e lacrime ce ne ha regalate tante nei suoi precedenti capolavori, ma è come se nelle due ore e mezzo che dura il film (e si sentono tutte alla fine, mentre per esempio le due ore e tre quarti di "Django" scappano via fin troppo veloci) il regista di "E.T." e di "Shindler's List" volesse metterci di fronte ad un minuzioso trattato di storia, dove diligentemente apprendiamo che anche i grandi uomini devono scendere a compromessi per ottenere grandi vittorie che cambieranno il futuro di una nazione, dove scopriamo che i deputati sono disposti a vendere il proprio voto in cambio di un qualche favore, che la politica è sporca e che la guerra fa soffrire milioni di famiglie - cose talmente lapalissiane da essere trascurabili in una ricostruzione filmica - mentre noi avremmo voluto assistere ad un grande capolavoro cinematografico, epico, retorico forse, ma che ci facesse provare quel brivido che invece rimane frustrato nell'occhio dello spettatore, appagato da tanta perfezione tecnica ma deluso dall'impostazione documentaristica di un film candidato a ben 12 Oscar.
Django Unchained - di Quentin Tarantino con Jamie Foxx, Leonardo Di Caprio,
Samuel L. Jackson, Christoph Waltz, Franco Nero, Don Johnson ****
Rilettura, omaggio, rielaborazione colta e divertita, parodia travolgente e critica sociale, Tarantino nel suo personalissimo western porta tutto il suo bagaglio culturale, tutto il suo genio creativo, tutto il divertimento di chi ama fare e guardare cinema allo stato puro e tutto il desiderio di dare vita - ridare vita - ad un genere che non è solo western, che non è solo epico, non è solo di denuncia, non è solo d'avventura, non è solo romantico e non è solo buddy buddy. Perchè Tarantino non è solo regista, è anche grandissimo sceneggiatore (e infatti puntualmente è arrivato il Golden Globe per la sceneggiatura) e quindi porta i suoi dilatatissimi dialoghi in un contesto palesemente d'azione, ed è anche un cultore del passato, e quindi porta quel gusto old style di titoli rosso fuoco Anni 70, di musiche evocative a dir poco, di sguardi di ghiaccio e pistole di fuoco che nelle sue mani diventano materia nuova plasmata dalla sua arte. La scena si apre su una fila di schiavi condotti in catene nella notte. Da lontano arriva un uomo su un carretto sormontato da un dente, tale dottor King Schultz (un perfetto e carismatico Christoph Waltz appena premiato con il Golden Globe per questo ruolo), pesante accento tedesco (se potete godetevi il film in originale perchè i tanti accenti sono una chicca in più) e aria pacata e signorile, che non esita a far fuoco con una freddezza ed una precisione impressionante però, pur di liberare uno schiavo che può aiutarlo a catturare tre banditi. Perchè il mite dottore in realtà è un cacciatore di taglie spietato e meticoloso, e il nero Django è l'unico che conosce il volto dei fratelli Brittle., su cui pende una sstanziosa taglia. E così comincia un sodalizio umano e professionale fra i due, tanto più che Schultz promette a Django di aiutarlo a ritrovare la moglie Broomhilda, schiava in qualche piantagione del Sud. Col passare dei mesi Django apprende a sparare, a filosofeggiare, a vestire come un damerino del Settecento e più di tutto ad uccidere chi lo merita. Quando i due finalmente troveranno Broomhilda a Candyland, la tenuta di cui è proprietario Calvin Candie (un a dir poco strepitoso, diabolico e psicopatico Leo di Caprio) ci sarà una lunghissima, sanguinosissima e appassionatissima resa dei conti. Cinema allo stato puro quello di Tarantino, cinema d'evasione, perchè le battute sono tanto glaciali quanto fulminanti, cinema d'impegno, perchè la condizione degli schiavi è sottolineata con serietà e senso morale, cinema pulp come ci si aspetta dal re del pulp, con litri di sangue, pallottole che attraversano almeno tre corpi e lo stesso Tarantino - in una celebrativa partecipazione - che fa scintille grazie alla dinamite, ma soprattutto cinema di sostanza, con i dialoghi tarantiniani, con i personaggi tarantiniani - lo schiavo Stephen su tutti, ambiguo, sospettoso, maestoso nello sguardo torvo di Samuel L. Jackson - e la capacità di far sembrare 165 minuti un battito di ciglia, perchè il film vola talmente alto e talmente libero e talmente elegante che si desidera accompagnare Django ancora per un po' sul suo cammino di uomo cosciente di sè e del suo potere, libero e fiero, ma ancora capace di un gesto d'affetto per il suo amico Schultz in sottofinale. Immenso Tarantino che sfracella corpi, ci delizia con dialoghi degni di Beckett, ci ricorda l'orrore della schiavitù con poche crude scene spesso lasciate fuori campo come lo sbranamento da parte dei cani di uno schiavo fuggiasco, ma che sa con due o tre pennellate schive parlare d'amore e di amicizia come pochi altri.
Frankenweenie - di Tim Burton - Animazione ****
Meritatissima Nomination agli Oscar per questo distillato puro dell'arte filmica di Tim Burton questo lungometraggio incentrato sulla storia di Victor e del suo cane Sparky cui lo stesso regista aveva già dedicato un corto con attori in carne ed ossa quasi trent'anni fa. Liberissimamente ispirandosi alla storia di Frankenstein e molto più alla sua visione eccentrica della vita Burton realizza uno stop motion emozionante e visionario, ricco di personaggi surreali e poetici, facendoci scivolare dolcemente in un lieto fine di grande tenerezza. Victor Frankenstein è un ragazzino solitario, appassionato di scienza e affezionatissimo al proprio cane Sparky. A scuola è circondato da compagni che formano la compagnia di freaks più eterogenea e simpatica del già vasto campionario bartoniano e adora il suo insegnante di scienze, il professor Rzykruski, fattezze alla Vincent Price e voce di Martin Landau in originale, che viene osteggiato dalla reazionaria comunità di New Holland neanche fosse il peggior eretico del medioevo. Dopo che Sparky è stato investito ed ucciso da una macchina Victor, memore delle lezioni del professor Rzykruski, tenta di riportare in vita l'amato cagnolino con l'elettricità dei fulmini. L'esperimento riesce, ma i compagni invidiosi tentato di resuscitare altri animali dando vita a mostruose creature che semineranno il panico durante l'annuale festa del paese, voluta da un sindaco tanto gretto quanto fisicamente somigliante ad uno Shrek accigliato. Divertente, commovente, ricco di spunti e di trovate registiche , forte di una sceneggiatura puntale quanto originale pur nella rilettura di un classico, Frankenweenie ha il suo punto di forza nella caratterizzazione dei personaggi, dal bambino con pochi amici Victor all'amichetta dark Elsa, nipote del sindaco e padroncina di una barboncina acconciata come la moglie di Frankenstein nell'omonimo film. I comprimari sono tutti perfettamente congeniali a ricreare quell'atmosfera un po' incantata un po' funesta che accompagna da sempre le migliori opere di Burton e il bianco e nero conferisce al tutto un sapore retrò - l'ambientazione è come sempre atemporale ma vagamente Anni Cinquanta - con il risultato di regalarci un ennesimo piccolo grande capolavoro di tecnica ed emozione fuse dal cuore folle di Burton che fa enunciare al professor Rzykruski quella che probabilmente è la sua stessa fede e cioè che la scienza - e forse per Burton anche il cinema, e la vita - si realizza con la mente ma anche con il cuore, perchè solo con la mente si dà vita unicamente a dei mostri. E a Burton, come anche a noi, piacciono solo i mostri umani e dolcissimi che animano le sue pellicole.
Cercasi amore per la fine del mondo - di Lorene Scaraffia con Steve Carrell, Keira Knightley, Melania Lynskey, T.J. Miller, Martin Sheen ***
La fine del mondo è prossima, nel giro di due settimane un asteroide travolgerà la terra e fine dei giochi. Questo l'incipit che il film di Lorene Scaraffia porge dolcemente allo spettatore, in modo quasi sottomesso, sussurrato. Niente catastrofismi degni di un "Melancholia", solo la necessaria consapevolezza che ognuno ha solo quindici giorni per sciogliere i nodi della propria vita, per dire o fare ciò che fino ad allora non ha mai avuto il coraggio di dire o fare. Ed è così che Dodge - uno Steve Carrell misurato ed intenso - si ritrova solo dopo che la moglie lo lascia senza neanche una spiegazione, scendendo silenziosamente dalla macchina e allontanandosi nel buio (metafora gìà sufficiente a capire dove si avvia l'umanità). Decide così di fare un viaggio indietro nel tempo e ritrovare la sua prima fidanzata, che qualche mese prima gli aveva scritto una lettera finita per errore nella posta di Penny, una svampita vicina di casa - una Keira Knightley deliziosamente trasandata e stralunata - che lo accompagnerà in quello che si preannuncia come l'ultimo viaggio per entrambi, durante il quale molte cose cambieranno, ad iniziare dai sentimenti dei due estranei che con delicatezza e con pudore si avvicinano l'uno all'altra, scoprendo sentimenti che credevano perduti per sempre. Ci sarà tempo per un incontro con il padre che Dodge non vedeva da moltissimi anni - un sempre carismatico Martin Sheen - e per un ultimo momento di felicità, prima che il nulla scenda sulla terra. Misurato e sincero, toccante senza cercare la lacrima facile, sentimentale nell'accezione del linguaggio visivo che premia i sentimenti sinceri a discapito del sensazionalismo - relegato a poche scene di guerriglia urbana - e capace di far dimenticare per gran parte del film che la storia d'amore dei due protagonisti ha i giorni contati. La sintonia fra i protagonisti è sicuramente parte dell'alchimia che il film sprigiona con grazia e delicatezza, ma è l'atmosfera generale a colpire, per il suo tono semplice e fatalistico, a suggerire che non conta quanto a lungo si vive, ma come si fa uso di quel tempo, e che l'unico uso che dà un senso alla vita è trovare qualcuno da amare con cui condividere la quotidianità, sia pure fatta da un asteroide che distruggerà tutto. Una verità tanto assoluta quanto difficile da esprimere con immagini che non siamo stereotipate, ma che la Scaraffia fa arrivare dritto al cuore con il coraggio di chi parla d'amore senza aver paura di farlo.
Clouds Atlas - di Tom Tykwer, Andy Wachowski, Lana Wachowski con Tom Hanks, Halle Berry, Hugh Grant, Jim Sturgess, Susan Sarandon ****
Un senso di inquietudine e straniamento colpisce dopo i primi venti minuti del nuovo kolossal dei fratelli Wachowski e di Tom Tykwer, ma è solo temporaneo, dovuto alla girandola di personaggi, ai continui flashback e forward, ai passaggi temporali e ai trucchi dei vari protagonisti, che impersonano più caratteri, spiazzando leggermente. Col passare dei minuti, anzi delle ore, il film dura quasi tre ore, si resta prima catturati, poi affascinati, quindi incantati da questo compendio di cinema, dal trionfo di ogni genere conosciuto, dalla fantascienza, all'avventura, al thriller spionistico, al postapocalittico, alla storia d'amore alla farsa, e si capisce la grandezza del cinema, capace come nessun altra arte di dar vita ai sogni, alla poesia, all'orrore e alla grandezza umana. La trama è talmente complessa che si rischia di svilire il film raccontandola, diciamo solo che sei tracce principali attraversano i secoli, si passa dall'avvocato antischiavista che diventa amico di un nero scampando ad un medico avido (grande epopea a bordo di velieri e nelle piantagioni assolate), alla storia d'amore tra due ragazzi omosessuali nella Cambridge degli Anni Trenta, raccontata attraverso le lettere di uno dei due che comporrà il sestetto "Cloud Atlas" (l'atlante delle nuvole) che dà titolo al film (episodio decadente, musicale, con una fra le scene più belle, ambientate in una stanza di porcellane) ad un confronto venato di giallo fra una giornalista intraprendente degli Anni Settanta e una lobby legata alle centrali nucleari (torna alla mente la Jane Fonda di "Sindrome Cinese") alla storia contemporanea e grottesca di un editore che per dispetto del fratello finisce rinchiuso in un ospizio per anziani da cui tenterà la fuga con un gruppo di terribili vecchietti (episodio esilarante) ad uno scenario futuro in cui giovani un po' robot un po' schiave vengono tenute in vita per "servire" i consumatori in uno stato tirannico dove il primo comandamento recita "Onora il consumatore" (pesante metafora del buio che ci attende e che echeggia nella malinconia della fuga di Somnia, una delle schiave, Blade Runner ) per finire con un futuro post apocalittico, con uomini che vivono nei boschi e sacerdotesse dotate di poteri infiniti ma destinate a scomparire se non si troverà una nuova terra in cui vivere e il cui finale liberatorio e felice ci lascia emozionati e commossi. Il legame che attraversa il tempo e lo spazio è sfumato, talvolta rappresentato da una pietra, talvolta da una piccola voglia sulla pelle, ma è il continuo flusso di emozioni la costante che accompagna un'umanità dolente, alla deriva, ma ancora capace di amore, di passione civile, di coraggio. Si resta incantati davanti alla miriade di travestimenti, trucchi, costumi, alle splendide musiche, alla profonda sensazione di assistere al lento fluire della vita, e del cinema. Si sarebbero potuti fare sei deliziosi film con la ridondante trama di questo originalissimo e personalissimo film, ma Cloud Atlas ha un nucleo unico e unito che deve essere letto, e percepito, come un unicum spazio temporale, perchè come dice Somni "esistere è essere percepito" e Cloud Atlas è un film che più che capito, amato, o odiato, va percepito.
Jack Reacher - La Prova Decisiva - di Christopher McQuarrie con Tom Cruise, Robert Duvall, Werner Herzog, Alexander Rhodes, Jai Courtney, Rosamund Pike ***
Detective tutto d'un pezzo - ha lavorato per l'esercito, è pluridecorato, e come vuole quel tocco di fascino misterioso, è poi scomparso nel nulla - Jack Reacher sfida le regole, la legge e anche il buon senso pur di arrivare a dipanare la corrotta matassa che c'è dietro una strage apparentemente commessa da un cecchino reduce dall'Afghanistan. nel farlo si diverte, ci diverte, spara battute a raffica come il miglior (o il peggior Callaghan), si lancia in inseguimenti mentre è inseguito a sua volta e naturalmente riscompare nel nulla dopo aver smascherato i veri colpevoli. Tom Cruise è decisamente abituato a ruoli del genere (la quadrilogia di Mission Impossibile lo ha più che vaccinato) ma qui ha ampi spazi di indagine e di duetti quasi comici e quasi romantici con la giovane avvocata e i tempi meno nevrotici di tanti altri thriller del genere giovano al film. L'apertura è lasciata lungamente alle immagini, non c'è dialogo o commento alla strage di cinque persone che si compie in un parco cittadino, chi ha sparato però ha lasciato così tanti indizi da sembrare davvero un dilettante e così viene arrestato James Barr, ex militare che ha giusto il tempo di scrivere su un foglio di carta il nome di Jack Reacher prima di essere ridotto in coma da un qualche pestaggio carcerario. E Jack Reacher arriva, indaga sulla strage in tandem con la giovane avvocata del presunto killer, figlia del procuratore capo tra l'altro, e colpo di scena dopo l'altro, scoperta dopo scoperta, cadavere dopo cadavere fuga dopo fuga riesce a mettere in ordine i pezzi del puzzle e a scagionare il ragazzo. Il tutto condito da scazzottate, sparatorie, sguardi assassini e depistaggi da manuale. Definire Jack Reacher film d'azione sarebbe riduttivo però, perchè le tante partecipazioni eccellenti hanno modo e tempo per intrattenerci con il loro carisma - divertito e scanzonato quello di Robert Duvall magnetico e dark quello di Werner Herzog nei panni del "Prigioniero Umano" come si fa chiamare il villain che sta dietro l'organizzazione criminale, e perchè la trama è più del solito piatto d'argento per una sfilza di scene al fulmicotone e si sente la sua origine letteraria. Tom Cruise è chiaramente mente, motore e azione del film, è presente in quasi tutte le scene e lascia che la sua fisicità ben poco appannata dagli anni faccia il suo onesto lavoro, seducendo ragazzine ingenue e avvocatesse di talento, resistendo a tutte però, come deve fare un vero duro. Senza tanti intellettualismi, ma senza neanche affidarsi agli effetti speciali e poco più il nuovo eroe Jack Reacher sa come intrattenere e divertire in an old fashion way, e proprio questo fascino un po' retrò della pellicola di McQuarrie è ciò che rende ben più che gradevole quello che altrimenti sarebbe solo l'ennesimo detective occhi di ghiaccio e pugno d'acciaio.
Buon Anno Sarajevo - di Aida Begic con Marija Pikic, Ismir Gagula, Bojan Navojec, Sanela Pepeljak ***
La guerra è ormai lontana nel tempo, ma non è lontana dalla memoria, dal cuore, dal dolore che ha lasciato. Sarajevo è tornata alla vita, la crisi economica morde ma i preparativi per il Capodanno fervono come ricorda ogni sera il telegiornale. E Rahima che vive con il fratello adolescente Nedim dopo la morte dei genitori lavora come aiuto cuoca per cercare di mantenere la famiglia. La preoccupazione costante per Nedim, che fa a botte a scuola e nasconde armi, si scontra con il carattere schivo del ragazzo che accusa la sorella di metterlo in imbarazzo con gli amici da quando ha deciso di indossare il velo. Rahima non ha difese contro le difficoltà quotidiane, contro i servizi sociali che giudicano il suo operato, contro l'arroganza di un politico, padre di un compagno di scuola di Nedim che la denuncia dopo una discussione, eppure china il capo e continua la sua personale crociata per dare un futuro al fratello, e a se stessa. I fuochi artificiali che colgono Rahima e Nedim in strada, ognuno con le sue paure, i suoi segreti e i suoi ricordi sono uno squarcio nel buio della loro esistenza, e forse in quell'abbraccio stentato c'è la speranza di incontrarsi nel territorio misterioso e insondabile dell'amore e del dolore. Un film rigoroso, in cui i sentimenti sono mortificati dalle difficoltà del vivere, e il grumo duro del passato non può svanire come le macerie dalle strade. Quel velo che nasconde, che protegge, che tiene a distanza è il simbolo di un'identità dolente, cresciuta nell'orrore della guerra e incapace di guardare al futuro con speranza, tant'è che anche il corteggiamento di un vicino di casa è vissuto da Rahima con durezza, con sospetto. C'è un rigore stilistico nel film di Aida Begic che colpisce come una folata di vento gelido, una desolata disperazione che tutto inghiotte e tutto mortifica, ed è significativo che l'unica scena in cui Rahima sorride è un momento intimo, vissuto con un'amica, in cui si leva il velo e per un attimo tornata ragazza spensierata che era stata. Ma è un attimo, e poi scompare nella nebbia della notte che inghiotte la felicità e consegna allo spettatore immagini e sguardi che toccano nel profondo per la sincerità anche se talvolta il distacco emotivo rischia di spiazzare e allontanare dal mondo ferito di Rahima e Nedim.
The Master - di Paul Thomas Anderson con , Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Laura Dern ***
Grandissima prova attoriale dei due protagonisti nel nuovo film di Anderson, un duetto-duello fra Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman che lascia però un po' l'amaro in bocca per l'andamento della sceneggiatura che accompagna l'evoluzione del rapporto maestro allievo, ma senza picchi emotivi o slanci narrativi. Freddie Quell torna dalla seconda guerra mondiale con quello che oggi chiameremmo disturbo da stress post traumatico, e naturalmente gli psichiatri dell'esercito poco possono contro la sua rabbia e la sua inquietudine, i lavori si susseguono ai lavori, le risse alle risse, l'abuso di alcool si trasforma in una sperimentazione di misture fortissime. L'incontro con Lancaster Dodd però cambia la sua vita, perchè Dodd è un uomo carismatico, affabulatore, manipolatore ed è a capo di una specie di setta, "La Causa", fatta da familiari ed amici, in cui professa la reincarnazione, la psicanalisi da strapazzo, la cura della leucemia con il recupero dei ricordi di vite precedenti e l' educazione emotiva attraverso l'ipnosi e un morbido quanto insistente lavaggio del cervello fatto di sedute, confronti dialettici ed esperimenti improvvisati. Freddie si lascia sedurre dall'idea di appartenere a qualcuno, di non essere più un solitario sbandato e nevrotico, e così si unisce a Dodd e ai suoi seguaci, non riuscendo però a controllare la violenza, gli attacchi di rabbia, lo scetticismo profondo. I due uomini sono uno di sostegno all'altro, perchè non esiste maestro senza allievo, non esiste plagio senza qualcuno che si faccia plagiare, e non esiste forza senza debolezza con cui confrontarsi, perciò è vero che Freddie ha bisogno di Dodd per placare i suoi istinti sessuali e la rabbia che lo divora, ma altrettanto Dodd ha bisogno di Freddie, come dei tanti adepti che si sottopongono alle sue sedute, per esistere, per avere un ruolo, per non scomparire. C'è una grande tristezza nell'animo dei due uomini, che si aggrappano l'un l'altro e ogni tanto si sfidano e si allontanano senza mai riuscire a staccarsi del tutto, mentre le figura della moglie di Dodd, una Amy Adams dura e se possibile anche più manipolatrice del marito, del figlio che non crede ai sermoni del padre e del genero che cerca invece di accattivarselo, ci riportano alle miserie e alla quotidiana meschinità familiare, perchè dietro ad un guru che forse crede davvero alle proprie teorie e forse no, c'è pur sempre un uomo che ha paura della solitudine e del fallimento. L'impianto narrativo, estremamente lento non aiuta ad "entrare" nel film, ma l'interpretazione complementare ed ipnotica di Phoenix e Seymour Hoffman trascina il film e lo mantiene ad uno standard non originale ma coinvolgente, non inquietante ma struggente, e il confronto finale in penombra fra due vite irrecuperabili è di perfetto equilibrio emotivo.