Recensioni - Marzo 2012
Il Mio Migliore Incubo - di Anne Fontaine con Isabelle Huppert, Benoît Poelvoorde, André Dussollier, Virginie Efira *
Le commedie francesi sono per definizione eleganti, raffinate, capaci di far sorridere attraverso la lente dei sentimenti e dell'ironia più sottile. E anche in questo caso l'accoppiata Huppert Poelvoorde strappa qualche sorriso, lei ovviamente aristocratica un po' sprezzante e tanto insoddisfatta nonostante la galleria d'arte che dirige, la casa elegantissima e i vestiti firmati lui ignorante, fallito, sempre sull'orlo della battuta volgare o della gaffe. Inutile dirsi che si troveranno a condividere avventure e sentimenti e che le distanze sociali verranno scavalcate grazie ad un progressivo sgretolamento delle barriere di lei. Grazioso e nulla più il nuovo film della regista di Cocò avant Chanel, perchè l'idea del contrasto sociale è decisamente sfruttata e anche i dialoghi e le situazioni sono appena al di sopra del banale. Gli interpreti però sono perfetti, aderenti ai loro ruoli senza mai enfatizzarli e farli diventare macchiette, capaci di rendere credibili anche i comportamenti più inverosimili. Qualche sferzata in più, qualche scena un po' meno scontata, qualche celta meno sentimentale, e sarebbe stata una graffiante parodia di due atteggiamenti sociali ugualmente esecrabili, così resta solo un piacevole passatempo che concede qualche sorriso e nulla più, seppure in una confezione di buon gusto e di raffinatezza che sono da sempre la cifra stilistica del cinema brillante francese.
Magnifica Presenza - di Ferzan Ozpetek con Elio Germano, Margherita Buy, Vittoria Puccini, Beppe Fiorello, Anna Proclemer *
Magnifica presenza, ovvero Ozpetek e i fantasmi. La trama è raffinata ed originale, un giovane siciliano si trasferisce a Roma con il sogno di fare l'attore e nella magnifica casa che riesce ad affittare a prezzo stracciato troverà ad accoglierlo, in veste di spettri, una intera compagnia teatrale scomparsa misteriosamente nel 1943. All'iniziale sconcerto seguirà la conoscenza e l'amicizia con questi elegantissimi attori perennemente alla prova del loro spettacolo. Detto questo lo sviluppo è però dicotomico, con scene decisamente riuscite prima fra tutte quella in cui Fiorello, la Buy e la Puccini danno lezioni di cinema a Germano con un magnifico chiaro scuro sul volto della Puccini ad evocare la Garbo, ma altre decisamente stonate come l'avventura un po' felliniana che ci porta in un lugubre stanzone dove vive una Platinette in versione Colonnello Kurtz circondata da un gineceo grottesco o quella del confronto Germano Proclemer in cui la grande attrice sembra una Baby Jane catapultata in un film di Dario Argento mentre schiaccia insetti sul tavolino. Un film stonato quindi, a tratti sublime e soffice, che accompagna la solitudine del protagonista con echi del passato sicuramente più affascinanti di un banale presente, ma che non riesce ad armonizzare il tutto, lasciando la sensazione di non aver giocato tutte le sue carte visto che Ozpetek rimane uno dei più talentuosi registi delle prigioni del cuore, delle ansie quotidiane, della difficoltà di vivere. Gli omaggi al cinema del passato sono eleganti e suggestivi, la metafora di un uomo solo che trova conforto e sostegno solo negli echi della propria mente è struggente e ben orchestrata, ma quello che resta alla fine è un senso di incompiuto, e anche Germano rimane sottotono, un po' troppo sperduto anche per chi sperduto, tra fantasmi gentili e realtà crudele, ha tutti i diritti per esserlo.
Cosa Piove dal Cielo? - Un Cuento Chino - di Sebastián Borensztein con
Ricardo Darín, Muriel Santa Ana, Huang Sheng
Huang, Enric Rodriguez - 2011 - Commedia - Argentina, Spagna ***
Vincitore del Marc'Aurelio al Festival del Cinema di Roma 2011 il film di Borensztein regala sorrisi, emozioni e profonde verità. La solitudine di Roberto, un uomo di mezz'età (il grande Ricardo Darin de "Il segreto dei tuoi occhi") viene rotta da un giovane cinese che non parla una parola di spagnolo, è solo e sperduto e per di più ha avuto la grandissima sfortuna di perdere la fidanzata in un modo che definire rocambolesco è dir poco. Il confronto fra i due è esilarante quanto tenero, i lungi silenzi obbligati raccontano delle loro solitudini più di mille dialoghi e le notizie più incredibili che Roberto colleziona dai giornali di tutto il mondo danno un tocco surreale a ciò che invece è più che reale, la vita. Come sempre dagli incontri più improbabili il cinema, quando è ai suoi più alti livelli, sa trarre spunti di divertimento e riflessione e mai come in questo caso ci riesce.
La Sorgente dell'Amore - di Radu Mihaileanu con Leila Bekhti, Hafsia Herzi, Biyouna, Sabrina Ouazani, Saleh Bakri ***
La cinematografia di Mihaileanu (Train de Vie, Il Concerto) è di quelle che con toni lievi e discreti, e a volte anche con guizzi di commedia, affronta argomenti profondi e drammatici, perchè la potenza di un sorriso o di un sussurro è molto maggiore di quella di un grido o di un gesto crudo. Questa volta sceglie di ambientare il suo nuovo film in un piccolo villaggio mussulmano del Medio Oriente. Lì tutto è fermo ad un tempo remoto ed immoto, non c'è l'elettricità, non c'è l'acqua corrente, non c'è quasi nulla di ciò che nel mondo occidentale diamo per scontato, e soprattutto non c'è rispetto per le donne, che da secoli scalano una montagna per andare a prendere l'acqua alla sorgente. Hanno perso figli per questo, hanno sopportato fatiche e sforzi senza mai lamentarsi, quasi rassegnate ad un ruolo passivo e soggiogato che nessuno si azzarda a mettere in dubbio. Finchè al villaggio non arriva Leila, giovane sposa del maestro, che le spingerà a ribellarsi, a chiedere di più ai loro uomini, arrivando addirittura a suggerire uno sciopero dell'amore fin quando non avranno ottenuto risposte concrete alle loro esigenze. All'inizio Leila avrà la solidarietà solo della più anziana del villaggio, poi pian piano anche le altre donne capiranno che meritano di più, che hanno diritto al rispetto e all'aiuto da parte di quei mariti pigri e arroccati su posizioni ancestrali. Naturalmente gli scontri si fanno via via più aspri fin quando la notizia arriva ai giornali e a quel punto lo Stato decide di intervenire costruendo un acquedotto, spaventato all'idea che altri scioperi simili si diffondano nel paese, e che le donne inizino a rivendicare diritti che sconvolgerebbero le tradizioni. La metafora dello sciopero del sesso è antica quanto efficace in un contesto così atemporale da essere universale, e sono le donne ad avere le scene forti, in cui affermano verità semplici e profonde, una per tutta quella in Leila ricorda che loro non sono in guerra con gli uomini, sono in guerra con il ruolo che gli uomini nei secoli hanno attribuito loro, o l'altra in cui la vecchia madre rimpovera al figlio l'integralismo religioso che lo ha trasformato in un fanatico che lei non riconosce e non apprezza. Davvero bella questa messa in scena di un mondo apparentemente estremo e lontano, ma molto più radicato, almeno nel pensiero se non nella forma, di quanto non sembri. Bravissime le interpreti, con i loro momenti di rabbia e di dolezza tutti femminili, e la chiusura del film sulla figura di una giovane che, dopo aver imparato a leggere e scrivere, abbandona il villaggio, è un incoraggiamento a tutte le donne ad abbandonare le loro gabbie, fisiche o metaforiche che siano.
Young Adult - by Jason Reitman. With Charlize Theron, Patrick Wilson, Patton Oswalt,
Elizabeth Reaser ***
Difficile entrare nel'età adulta fatta di delusioni, amarezze e solitudine quando si è state "la più bella, la più corteggiata, la più invidiata" al liceo. Difficile abbandonare l'illusione di poter un giorno tornare ad essere quell'oggetto di desiderio ed amore. Ma è per questo che Mavis, quarantenne ghost writer di libri per "young adult", adolescenti quindi, torna al paese d'origine, per ritrovare quella magia che l'età adulta non le regala più. Perchè è divorziata, beve troppo e il lavoro non va più bene come un tempo. E perchè ha saputo che il suo ex fidanzato si è sposato e ha avuto una bambina. Un affronto che improvvisamente fa crollare Mavis che vuole riconquistarlo, e più che altro vuole riconquistare la se stessa di tanti anni prima. Lo vuole a tal punto da rendersi ridicola, al punto da sfiorare la psicosi e l'ossessione, perchè improvvisamente tutto sembra convergere sulla possibilità di riscatto e rivincita, se non vendetta. C'è un profondo malessere in Mavis, un dolore latente nascosto nella tricotillomania, un abisso di solitudine e paura del futuro che la fa procedere a ritroso, vittima di un'illusione che può solo farla precipitare ancora più giù. Unica spalla su cui appoggiarsi per piangere e bere in compagnia l'emarginato del paese, quello che al liceo fu massacrato di botte dai compagni che lo credevano gay (e questo ci dice molto del livello culturale del paesino della profonda America dove si svolge l'azione) che cerca di far capire a Mavis che il passato deve restare nel passato e che dobbiamo trovare in noi stessi la forza di crescere, di affrontare la realtà e cambiarla se non ci piace. Molto profonda e molto attenta l'analisi che Diablo Cody , qui sceneggiatrice, fa della difficoltà di abbandonare le confortevoli illusioni per gettarsi nell'arena della vita, molto misurata Charlize Theron nell'interpretare una donna chiaramente ben oltre l'orlo di una crisi di nervi, e molto sincera la messa in scena della disperazione e della solitudine senza mai calcarne i toni per non scadere nel caricaturale. La scelta finale di Mavis è un piccolo germoglio di speranza nella fatica del vivere, che non è solo un mestiere come diceva Pavese, ma un'arte acrobatica in bilico fra paura e speranza.
John Carter - di Andrew Stanton con Taylor Kitsch, Lynn Collins, Willem Dafoe,
Dominic West **
Prima di creare il personaggio di Tarzan che lo consacrò al successo Edgar Rice Borroughs diede vita ad un altro personaggio, John Carter e alla sue avventure su Marte nella serie di Libri dedicati a Barsoom, il nome di Marte nella saga. La Diseny oggi recupera quel personaggio avventuriero e lo rende protagonista di una produzione stellare, con animazione, capture motion, effetti speciali davvero specialissimi e un ritmo travolgente. I primi venti minuti si svolgono nell'Ottocento, e non mancano le epiche battaglie cowboys indiani ma poi ci si trasferisce su Marte e qui l'avventura diventa fantasmagorica, con le creature verdi in lotta fra loro e degli esseri simili agli umani che si contendono il trono. Naturalmente c'è la bella principessa di cui Carter si innamora e la guerra per il dominio del regno non si fa mancare ogni tipo di stereotipo, del resto è un film Disney per grandi e piccini e i buoni devono trionfare, ma il punto forte del film restano le grandi scene in cui i personaggi umani interagiscono con il capture motion , i mostri disegnati e realizzati benissimo, le astronavi e i mille effetti che rendono il film godibile al di là del prevedibile andamento della trama. C'è perfino una scena di lotta fra il gladiatore Carter e dei giganteschi mostri ciechi all'interno di un'arena simil Colosseo, come a dire che quando la Disney si mette in testa di realizzare un kolossal non si fa, e non ci fa, mancare nulla, dal western al fantasy, da Guerre Stellari al Gladiatore, ogni mezzo è buono per stupire e divertire. Perché l'intento dichiarato è questo, ed è del tutto legittimo, soprattutto quando la qualità tecnica è tanto sofisticata da raggiungere livelli mai raggiunti finora.
Posti in Piedi in Paradiso - di Carlo Verdone con Carlo Verdone, Pierfrancesco Favino, Marco Giallini, Micaela Ramazzotti *
Commedia sentimentale sulla crisi dell'uomo e sulle difficoltà economiche dei nostri giorni. Verdone stavolta affronta le miserie quotidiane di tre uomini separati con figli da mantenere che, pur non conoscendosi, decidono di condividere un appartamento per risparmiare. Ovviamente ne succederanno di tutti i colori, personaggi stravaganti come la cardiologa interpretata dalla Ramazzotti sconvolgeranno le loro esistenze e i figli tenteranno di riportare un po' di normalità e di speranza nelle esistenze di questi cinquantenni per niente splendidi. Peccato per le tante situazioni al limite del volgare per le parolacce insistite e per il romanesco ad oltranza, perché Verdone ha nelle sue corde la malinconia giusta per rendere un film come questo un piccolo gioiello, e invece insiste su episodi farseschi e sguardi al cielo, su situazioni comiche che non fanno ridere nessuno (alla frase di Giallini "La bellezza di questa casa è che è silenziosa" segue come da copione un frastuono infernale dovuto alla metro che passa sotto). Perché abusare di gag e battute che possono andar bene a riempire un film di un autore scarso quando invece si ha, come Verdone ha sempre avuto, la capacità di tratteggiare personaggi un po' patetici un po' ruffiani che potrebbero avere ben altro spessore? Non si può negare l'abilità nel tirare fuori il meglio dagli attori, tra l'altro la cifra comica della Ramazzotti è altissima, riesce a far ridere anche quando si esibisce in un sexy ballo, ma il film resta sempre su un piano più basso di quello che potrebbe, incastrato fra una battuta fiacca e una parolaccia inutile. Un auspicio: che Verdone abbia il coraggio di non guardare al pubblico che vuole ridere facile e faccia quel salto di qualità che è nelle sue corde, consegnandoci un film maturo, brillante magari ma senza occhi al cielo, inflessioni romanesche e battutacce. Perché altrimenti il rischio è che anche un film come Posti in Piedi in Paradiso, che avrebbe tutte le possibilità per essere una gradevole commedia sentimentale finisca per essere solo uno dei tanti film comici italiani, incapaci di alzarsi al di sopra del mediocre. Peccato, perché sotto la sua ormai inutile coperta di Linus delle gag, degli equivoci e dei letti che si rompono quando ci si butta sopra (ma si può, davvero, ancora?) Verdone è un grande autore capace di leggere gli italiani come pochi altri. Se solo non si ostinasse a cercare anche il consenso di quegli italiani...
A simple life -
di Ann Hui con Deanie Ip, Andy Lau, Anthony Wong, , Wang Fuli ***
Semplice e toccante, semplice e profondo, semplice e struggente, semplice e straziante. Semplice nell'accezione in cui semplice vuol dire lineare, senza orpelli e senza ipocrisie, capace di lasciar parlare le immagini, anche crudeli a volte, e di accompagnare la protagonista verso la morte senza pietismi o falsi moralismi. La storia di Ah Tao, domestica per più di sessant'anni presso la stessa famiglia di Hong Kong è semplice come lo scorrere della vita quando si arriva all'essenza delle cose: ha cresciuto i bambini come se fossero suoi, ha fatto la spesa con cura e preparato pranzi e cene con maestria e pignoleria, ha accudito il gatto e stirato le camicie e dopo aver avuto un infarto viene ricoverata presso una casa per anziani, luogo descritto da Ann Hui con coraggio ed eleganza, perchè mostra gli orrori della decadenza senza mai scivolare nel voyeurismo, perchè c'è la morte in quell'istituto dove anche la privacy è negata e dove nei bagni ci si deve chiudere il naso per la puzza, ma c'è anche poesia nei sorrisi stentati e nello sforzo di amare la vita anche nelle sue ultime pagine. Il giovane che Ah Tao ha cresciuto è ora un produttore cinematografico affermato, ma l'affetto che li lega è profondo, anche se mai esageratamente manifesto come del resto tipico della cultura orientale, e le scene fra i due sono di una tenerezza profonda e concreta, in cui le sorti sono accettate ma non per questo banalizzate, e in cui il dolore della perdita è sempre latente, e sempre cosciente. Estetico e vibrante, capace di emozionare e anche di inorridire, pacato - e forse per questo a volte un po' distante - resta un gioiello di equilibrio dei sentimenti e di espressività microscopica, che attraversa il volto di Deanie Ip, Coppa Volpi a Venezia come miglior attrice.
17 Ragazze - di Delphine Coulin, Muriel Coulin con Roxane Duran, Louise Grinberg, Esther Garrel, Solène Rigot **
Quando lo sbandamento adolescenziale non è supportato da una famiglia o da una società - leggi scuola - adeguata, può portare ad un fraintendimento dei ruoli estremamente pericoloso. E' quanto succede in "17 ragazze", ambientato in Francia anche se l'episodio che ha dato vita al film è avvenuto negli Stati Uniti, in cui diciassette alunne dello stesso liceo decidono di rimanere incinta nello stesso momento, per poter crescere insieme i loro bambini, lontane da famiglie opprimenti e poco attente ai loro bisogni. Il desiderio di ribellione degli adolescenti sfocia qui in un delirio collettivo, e queste gravidanze-sfida sono quanto di più immaturo si possa immaginare ma niente frena le amiche che si fanno coraggio a vicenda e sognano una casa comune in cui poter rientrare dopo la mezzanotte - desiderio più che legittimo per una diciassettenne, ma che fa chiaramente intendere come non abbiano la più pallida idea del concetto di maternità inteso come responsabilità e maturità. I bambini sono per queste bellissime e delicate fanciulle in fiore un mezzo per evadere, per liberarsi dai legacci della vita di provincia e per sentirsi libere. Chiaramente il progetto fallirà e non si fa fatica ad immaginare come le vite di parecchie delle vere protagoniste della storia saranno oggi più complesse che mai, ma il film resta bello, semplice nel mostrare la follia disinvolta e irresponsabile di ogni adolescente, e poco conta che qui il progetto di fuga coinvolga niente meno che 17 innocenti neonati, non c'è giudizio morale nella pellicola delle sorelle Coulin ed è giusto così, perchè troppo facile sarebbe stato liquidare il tutto con uno scuotere di capo, la denuncia qui è altra, e coinvolge tutti ciò che sono - o dovrebbero essere - alle spalle di queste ragazze fragili, impaurite dalla vita e in balia degli errori che inevitabilmente accompagnano ogni adolescenza, inquieta per definizione, quando non è protetta, aiutata e consigliata, da quegli adulti, qui assenti e lontani come purtroppo spesso nella realtà, che gli stessi errori, altri, ma comunque uguali nel loro essere poi macigni nel proprio passato, li hanno già commessi.
The Double - di Michael Brandt con Topher Grace, Richard Gere, Martin Sheen, Stephen Moyer, Stana Katic *
Onesto film di spionaggio che torna a focalizzare la Russia come nemico, e non è la prima volta negli ultimi anni che i film made in Usa scelgano di ridare vita ad un duello che negli anni della Guerra Fredda ha dato origine a film di ben altro spessore. Restando alle pellicole di spionaggio più recenti The Double non è raffinato come La Talpa ma non è neanche un concentrato di sparatorie e banalità come Safe House. Quando dopo mezz'ora veniamo a conoscenza di ciò che di solito si scopre alla fine di ogni film di spionaggio, e cioè l'identità del doppiogiochista, si rimane un po' spiazzati, ma ci sarà un altro colpo di scena in sottofinale per ristabilire gli equilibri della suspence. Il resto è un po' routine, con un vecchio agente della Cia, Richard Gere armato di mestiere più che di vera adesione al personaggio, richiamato in servizio per dare la caccia ad uno spietato agente russo che lui dichiara di aver ucciso in passato ma che i vertici dell'Agenzia ritengono ancora in attività. Il confronto con la giovane recluta è inevitabile, e i flashback man mano ci fanno capire la sete di vendetta di Gere. Ci sono dei paradigmi inevitabili in film di questo tipo e The Double non se ne fa mancare nessuno, ma qualche passaggio originale c'è, e il finale fa da sponda alla considerazione che il libero arbitrio si può applicare anche al mondo delle non libere spie di tutto il mondo. Citazione vintage del capostipite di tutti gli agenti segreti del mondo, James Bond, visto che la piccola garrota nascosta nell'orologio che viene usata dal killer russo per sbarazzarsi dei nemici era usata nella prima scena di "Dalla Russia con amore" da un agente sovietico. Da Gere vorremmo qualche guizzo in più e la partecipazione di Martin Sheen non aggiunge granché alla galleria dei Direttori dell'Intelligence, duri e puri.
The Woman in Black - di James Watkins con Daniel Radcliffe, Ciarán Hinds, Janet McTeer, Roger Allam *
Piccoli Harry Potter crescono e sempre con presenze inquietanti hanno a che fare. Siamo nella Londra del 1800 e il giovane avvocato Arthur Kipps, vedovo e con un bimbo di pochi anni, viene mandato dallo studio per cui lavora in un piccolo paese isolato dove sbrigare le pratiche per la vendita di una casa la cui proprietaria è morta recentemente. Niente di speciale, un lavoretto che lo terrà occupato un paio di giorni al massimo, tanto che propone alla tata di raggiungerlo col bambino nel fine settimana per passare un paio di giorni in campagna. Mai progetto fu più sbagliato, una serie di morti inquietanti, tutte riguardanti del bambini, avvolge il paese, antiche leggende e superstizioni inquietano gli abitanti e cominciano a turbare il giovane avvocato, strane presenze si affacciano ovunque. Come sempre in film di questo genere i fantasmi e le loro apparizioni sono motivo di suspense, cadenze d'inganno e colpi di scena, ma qui la macchina da presa indugia troppo su ogni inquadratura preparandoci a chissà quale rivelazione, sciupando così le occasioni di spaventare veramente. L'atmosfera gotica del villaggio e la nebbiolina che avvolge la casa dove tutto ebbe origine sono un buon punto di partenza, ma la storia è simile a tante altre già viste, e i bambini morti in vesti candide alla stazione fanno pena e tenerezza più che paura. Daniel Radcliffe è attonito e spaventato, ma poco espressivo e di sicuro non aiuta la sua lunga permanenza alla scuola di magia di Hogwarts che rischia di caratterizzarlo ad oltranza. In definitiva un film di genere senza guizzi ma anche senza troppo splatter, senza trovate originali ma anche onesto e dignitoso.
Viaggio nell'Isola Misteriosa - di Brad Peyton con Josh Hutcherson, Dwayne Johnson, Michael Caine, Vanessa Hudgens *
Ecco il classico film in cui il 3D ha un senso ben preciso, moltiplicare le invenzioni fantastiche e rendere l'avventura quasi tangibile. La trama è presto detta, un adolescente imbronciato e rancoroso verso il patrigno capta un messaggio radio criptato e si convince che provenga da suo nonno, un'esploratore mezzo matto (un divertente e divertito Michael Caine) per indicargli la strada verso una misteriosa isola, che è un summa di tutti i libri dedicati alle isole e ai tesori, da Verne a Stevenson, e così parte, proprio con l'odiato patrigno, verso l'ignoto. Vivranno ovviamente avventure fantastiche su un'isola dove le proporzioni degli animali sono invertite rispetto a quelle della Terra - bellissimi i colibrì giganteschi e variopinti - impareranno a conoscersi e rispettarsi e riporteranno a casa perfino il mitico Nautilus. Più di così.... Film dichiaratamente di genere e apertamente per famiglie ha il suo punto forte nella bellissime scenografie naturali e nelle sovrapposizioni al computer, che come dicevamo il 3D amplifica e valorizza. Insomma un giocattolone, ma un bel giocattolone, e se si fa voglia di giocare e lasciarsi trasportare in un mondo fantastico per passare un'ora e mezzo spensierati va benissimo.
Safe House - Nessuno è al sicuro - di Daniel Espinosa con Denzel Washington e Ryan Reynolds *
Tantissima azione e pochissima sostanza nel nuovo film di Espinosa con protagonista Denzel Washington. Un impianto narrativo visto mille volte, con l'ex agente dei servizi segreti in fuga solitaria, sparatorie in media ogni cinque minuti - e su quasi due ore di film non è poco! - e dialoghi talmente banali da essere quasi inutili. Cia, MI6, agenti corrotti e file che potrebbero mettere in imbarazzo i servizi segreti di tutto il mondo, inseguimenti e rivelazioni da cui si dovrebbe essere stupiti ma che invece avevamo intuito almeno mezz'ora prima, resta solo qualche sorriso assassino di Denzel Washington, ma se questo è l'unico motivo per costruire un film , allora tanto vale andare a rivedersi una sua vecchia pellicola. Peccato perchè l'idea di una safe house, le case segrete e superaccessoriate sparse in tutto il mondo dove la Cia fa transitare prigionieri, testimoni e chiunque debba rimanere segreto poteva essere sfruttata meglio che non come unico sfondo per il confronto fra la giovane recluta inesperta e il veterano smaliziato, e l'ambientazione in Sudafrica durante i mondiali di calcio avrebbe potuto dare uno spessore storico e sociale all'intera vicenda invece è buona solo per farci riascoltare le odiate vuvuzelas. E meno male che dopo un'ora e quarantotto minuti le pallottole finiscono, i personaggi muoiono quasi tutti e non poi possiamo tornare a sperare che il prossimo film di Washington ci riconsegni il suo vero talento.
Knockout - Resa dei Conti - di Steven Soderbergh con Gina Carano, Ewan McGregor, Michael Douglas, Bill
Paxton, Antonio Banderas, Channing Tatum **
Da Steven Soderbergh ci aspettiamo sempre provocazione, innovazione, capacità di stupire ed incantare con trovate registiche inusuali. Stavolta però il compito riesce a metà perché la scelta di incentrare un film di impianto spionistico su una campionessa di Mixed Martial Arts sposata il baricentro della pellicola su un piano fisico fin troppo esibito. E' vero che la trama è sufficientemente complessa e piena di colpi di scena da risultare, seppure a tratti confusa, avvincente, ma le tante scazzottate rischiano di far precipitare il film nel calderone del più banale action movie. Vendetta tremenda vendetta è quella che medita Mallory Kane, agente super speciale di una delle tante agenzie governative rifugium peccatorum di marines e navy seals, che si vede assegnare un incarico talmente semplice da rivelarsi una trappola per liberarsi di lei. E allora eccola nascondersi, tramare, uccidere e incastrare uno ad uno i suoi superiori, in un sorta di caccia all'uomo che ci mostrerà tutta la sua abilità fisica e la sua tenacia. Tanti grandi attori che però appaiono solo di sfuggita, un paio di scene a testa tanto per giustificare i loro nomi nei titoli di testa, qualche idea originale e qualche battuta graffiante, ma da un regista come Sodebergh ci aspettiamo ci dobbiamo aspettare, molto molto di più.
Cesare deve morire -
di Paolo Taviani, Vittorio Taviani con Cosimo Rega,
Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca ***
Coraggioso Orso d'oro al Festival di Berlino - coraggioso perchè il film dura poco più di un'ora, perchè la pellicola è in bianco e nero, perchè gli attori sono dilettanti e perchè "profanare" Shakespeare facendolo recitare in dialetto è una magia riuscita a pochi - arriva in sala l'ultima fatica dei fratelli Taviani e spiazza anche i puristi, anche chi Shakespeare è abituato a sentirlo recitare da attori come Sir Lawrence Olivier o Kenneth Branagh. Perchè il gruppo di detenuti del carcere romano di Rebibbia cui è affidato il compito di allestire il "Giulio Cesare" di Shakespeare mettono in scena non solo i versi immortali e mai tanto attuali - fatti di arrivismo, tradimento e congiure politiche - del Bardo, ma anche le loro storie, il loro vissuto doloroso, la delusione e il fallimento di una intera esistenza. E danno vita, e voci roche, e volti scavati, e corpi provati, ad un'opera che è insieme testimonianza del potere dell'arte, afflato di partecipazione umana ad un progetto comune, rivincita verso se stessi e verso il destino, e non ultimo, una messa in scena appassionata, in cui ogni battuta è stata provata centinaia di volte, nel silenzio di una cella, nascosti in cortile, per dimostrare agli altri, ma soprattutto a se stessi, che se pur estromessi dal mondo civile si ha ancora un'anima cui aggrapparsi. La messa in scena è semplicemente magistrale, le scene si sovrappongono e gli spazi entro cui si provano i dialoghi si aprono come se fossero davvero i Fori Romani. I protagonisti, da Cesare, a Bruto, a Cassio, ad Antonio, hanno il merito di mettere in palcoscenico tutte le loro fragilità, tutta la violenza in cui sono cresciuti, tutta la voglia di riscatto - due di loro hanno poi scritto un libro, un terzo è diventato attore dopo aver scontato la sua pena - ma è ai grandi registi che sono i fratelli Taviani che va il merito di aver saputo maneggiare tematiche più che scottanti senza mai calcare la mano o prendere una posizione politica, ma di aver semplicemente fatto dell'arte pura, vera, cinematograficamente impeccabile ed umanamente emozionante.
50/50 - di Jonathan Levine con Joseph Gordon-Levitt, Seth Rogen, Anna Kendrick, Bryce Dallas Howard, Anjelica Huston ***
Dopo il non del tutto riuscito "Il mio angolo di Paradiso" arriva il secondo film della stagione che tenta di coniugare il dramma assoluto del cancro con i toni leggeri della commedia. Lì il peso era affidato tutto sulle spalle di Kate Hudson e del suo sorriso disarmante, qui invece l'incarico di alleggerire l'atmosfera è appannaggio di Seth Rogen, comico capace di fare battute rozze e prive di ogni tatto che però riescono perfettamente e spezzare la tensione dei momenti più crudi. La storia è semplice: Adam ha neanche trent'anni, una relazione in bilico, un lavoro frenetico, un amico bizzarro e alla perenne ricerca di sesso, una madre iperprotettiva e un padre malato di Alzheimer. Una vita tutto sommato normale, nei suoi alti e bassi, nel suo percorrere a piccoli passi verso l'età adulta. Ma un dolore persistente alla schiena cambierà tutto, perché la diagnosi è di quelle che lasciano senza fiato, un tumore raro della colonna, e le possibilità di sopravvivenza, citate onestamente dal medico sono appunto 50/50, da cui il titolo del film. La disperazione è inevitabile, il coraggio di affrontare le cure e le conseguenze si fa fatica a trovarlo tra le lacrime della madre e l'abbandono della fidanzata, le sedute di psicoterapia con una neolaureata tanto volenterosa quanto goffa aiuteranno quel che possono, e cioè poco (anche se i sentimenti fra i due si scopriranno ben più profondi di quelli fra paziente e terapeuta), ma a sostenerlo ci sarà sempre la mano tesa dell'amico apparentemente arruffone e insensibile, capace di litigare con Adam anche dopo che ha appena fatto una chemioterapia, ma anche l'unico che nasconde in casa un libro su come aiutare un amico malato di cancro. L'emozione scorre lungo tutto il film senza scendere mai nel lacrimevole, è sostenuta e sincera, le interpretazioni del cast tutte di ottimo livello, la tenera storia d'amore che fra mille paure si fa strada è appena accennata e mai sfruttata per imbottire il film di romanticismo spicciolo, ma soprattutto la mano felice di Levine permette alla storia di mantenersi in perfetto equilibrio fra malattia e vita, perché quando il cancro entra nella vita di una persona, e della sua famiglia, e dei suoi amici, l'unica cosa che si può e si deve tentare di fare, è infilarci dentro a forza qualche sprazzo di vita, sia pure rimorchiare ragazze sfruttando la testa rasata da cancro, come suggerisce cinicamente, e in modo assolutamente esilarante, Seth ad Adam in una scena tanto toccante quanto comica. Equilibrismo non da poco.