Giugno 2012
L'amore dura tre anni - di Frédéric Beigbeder con Gaspard Proust, Louise Bourgoin, Frederique Bel, Joey Starr, Jonathn Lambert **
Avventure e disavventure sentimentali di un trentenne appena divorziato, emozioni in bilico fra cinismo e passione, educazione sentimentale a suon di delusioni e riavvicinamenti, insomma tutto ciò che una commedia francese sa mettere in campo, di buono e non. Marc Marronier, fresco di divorzio e amareggiato quanto basta dai rapporti con le donne scrive un pamphlet teorizzando che l'amore dura solo tre anni e via andando di luoghi comuni e considerazioni amare sulle donne. Fatalità vuole che il libro diventi un enorme successo, e ancor più fatalità vuole che Marc si innamori di Alice, la moglie di suo cugino, che detesta il libro e di conseguenza il suo autore (non sapendo naturalmente che si tratta di Marc). Fraintendimenti, rotture, riconciliazioni porteranno all'inevitabile lieto fine lasciandoci un po' soddisfatti e un po' delusi. Perchè se è vero che l'impianto narrativo è divertente, scorrevole e che il personaggio di Marc è nevrotico a sufficienza, è altrettanto vero che la storia d'amore tra i due non restituisce palpiti nè urgenze, nè passione dilaniante. Alice è una donna in carriera, indaffarata e svampita, ma rimane una figurina un po' stereotipata, e le scene fra i due non decollano, pur se alcuni dialoghi e alcune battute colgono nel segno. Beigbeder arriva alla regia dopo essere stato scrittore e critico letterario - proprio come il suo personaggio Marc - e il rischio di proporre un prodotto un po' autoreferenziale c'è, con i monologhi di Marc rivolti in camera, quasi a voler instaurare un rapporto diretto e complice con lo spettatore, salvo poi smitizzare l'ambiente letterario da cui proviene con una sana satira su editori e premi letterari. Una commedia gradevole ma un po' prevedibile, sentimentale ma senza una passione credibile, divertente ma a tratti infarcita di clichè. Che però regala qualche scena di sincero divertimento - i consigli dei genitori divorziati a Marc sono fra i momenti migliori del film e una colonna sonora nostalgica sulle note di
Michel Legrand.
Take Shelter -
di Jeff Nichols con Michael Shannon, Jessica Chastain, Katy Mixon,
Shea Whigham ***
Quale è il confine fra follia e premonizione, quanto si può spingere in là una mente spaventata, quando si passa dall' essere una Cassandra inascoltata ad uno schizofrenico latente? Queste sono le domande che Curtis LaForche si pone ogni giorno, da quando incubi terribili lo assalgono, con visioni di tempeste foriere di distruzione e allucinazioni di tuoni e fulmini. La sua vita è una vita come tante, un lavoro come operaio edile, una moglie fragile ma risoluta a non far mancare nulla alla propria famiglia - lavora come sarta e mette da parte i soldi per affittare una casa al mare per l'estate - e una figlia non udente, in attesa dell'intervento per l'impianto cocleare. Ma è i passato l'incubo peggiore che Curtis si trova ad affrontare, perchè a sua madre all'età di trent'anni hanno diagnosticato una schizofrenia paranoide, e naturalmente Curtis pensa che i propri sintomi siano da attribuire alla stessa patologia, e perciò si rivolge a psicologi e psichiatri per tentare di salvare se steso e la propria famiglia. perchè lo scopo ultimo di Curtis è sempre questo, salvare la moglie e la figlia dal pericolo incombente, sia esso il devastane tornado che gli compare in sogno sia essa la malattia mentale che potrebbe star affacciandosi alla sua mente. La coscienza di una malattia menale è forse la più grande tragedia all'interno di essa, e la sofferenza di Curtis quando si accorge di essere solo con le proprie allucinazioni è tangibile e potente, resa con dolente espressività da Michael Shannon, già poliziotto disturbato in "Boardwalk Empire", la serie di Martin Scorsese che lo ha reso celebre. Ma c'è in lui un barlume di dubbio, quasi una timida fiducia nella propria visione, che lo spinge a costruire un rifugio anti uragano, impegnandosi con la banca per un prestito, scontrandosi con tutti, credendo fermamente in ciò che il suo istinto gli suggerisce Ed è proprio la dicotomia in cui si dibatte questo semplice operaio, in difficoltà economica e spaventato da ciò che gli sta succedendo, la nota che dà il tono al film, che non è solo un viaggio in una mente malata, che non è solo un film catastrofista, che non è solo una metafora della nube nera che si affolla sul mondo intero, minacciato dalla crisi economica e dalle incertezze sul futuro ma è anche una personalissima e sofferta dichiarazione d'amore, una ferrea volontà di non lasciarsi portar via - dalla malattia o dalla natura maligna o dalla società corrotta - ciò che si è costruito. Struggente l'interpretazione di Jessica Chastain, moglie devota e spaventata, che dal buio del rifugio anti uragano chiede al marito un atto di fiducia, di tornare a credere all'esistenza della luce del sole. Finale inquietante, ma anche inevitabile, per una pellicola che voglia mantenersi coerente con l'atmosfera costruita con eleganza e mano ferma scena dopo scena.
Adorabili Amiche - di Benoît Pétré con Jane Birkin, Caroline Cellier, Catherine Jacob, Thierry Lhermitte **
Il titolo originale del film "Thelma, Louise e Chantal" potrebbe far pensare alla volontà del regista di osannare il cult di Ridley Scott, in realtà il film è molto lontano dagli stilemi dell'on the road americano, siamo più vicini allo stile francese classico, commedia venata di malinconia, scene divertenti alternate a momenti di riflessione, lacrime, risate e qualche verità. Tre signore ormai ben oltre la cinquantina, la timida e rassegnata Nelly, la cougar sempre alla ricerca di qualche nuovo uomo da conquistare Gabrielle e la casalinga grassoccia e infelice Chantal partono a bordo di una vecchia Citroen per andare al matrimonio di un loro ex con cui Gabrielle ha anche avuto una figlia. Durante il viaggio, a tratti liberatorio a tratti foriero di incontri inaspettati ma anche cassa di risonanza dei fallimenti e delle delusioni che la vita ha portato con sè , le tre amiche impareranno qualcosa di più su loro stesse, e torneranno a casa profondamente cambiate. L'impianto narrativo è piuttosto prevedibile e alcune scene sono decisamente sopra le righe, al limite del grottesco, ma alcuni momenti più intimi e dolenti danno modo alle tre interpreti di giocare la carta della sincerità e della fragilità, e sono sicuramente tra i migliori del film. E ritroviamo con piacere Jane Birkin, che con vezzo birichino ad un giovane che le chiede di cantargli una canzone risponde "non sono una cantante, ma una canzone la so..".
Detachment - Il distacco - di Tony Kaye con Adrien Brody, Christina Hendricks,
James Caan, Lucy Liu, William Petersen, Blythe Danner, Marcia Gay Harden ***
L'ambientazione scolastica non deve fuorviare, perchè Detachment non è un film di genere scolastico, non solo e non esclusivamente almeno. E' un'analisi crudele malinconica e struggente dell'esperienza umana, un caleidoscopio di emozioni scarne, estreme, vibranti, un viaggio nei fallimenti e nelle speranze più sincere che appartengono anche a chi è costretto ai margini della società. Henry Barthes, un magistrale Adrian Brody, trattenuto, intenso e sofferente, è un supplente. Non un insegnante di ruolo quindi, ma un eterno irrisolto, migrante da una scuola all'altra. E il fatto che lo sia per scelta ci dice molto sulla sua natura schiva, a margine, a prescindere, quasi che la vita sia per lui un susseguirsi di sostituzioni, uno spostarsi da una scuola all'altra, da una realtà all'altra, da un progetto all'altro senza legarsi a nessuno, senza mettere mai radici, senza tentare di ancorare se stesso. Frutto questo di un trauma lontano che conosceremo attraverso flashback colorati di rosso sangue, rosso vergogna, rosso rabbia. Un trauma che se pure lo rende quasi impermeabile alla vita non lo rende però incapace di comunicare con i suoi studenti, ragazzi allo sbando incapaci di immaginare uno scopo, un progetto, un sogno. Le vite senza futuro di questi adolescenti spaventati sono magnificamente intrecciate alle vite degli insegnanti, svuotati dal loro ruolo sociale, frustrati dalla mancanza di mezzi e soli di fronte al fallimento personale e sociale. L'assenza delle figure genitoriali è assoluta - la serata Insegnati-Genitori va tristemente deserta e gli insegnati sconsolati si domandano "Ma dove sono finiti i genitori, dove sono finiti i tempi in cui si affollavano qui preoccupati per i loro figli?", ma è solo una delle tante domande che cadono nel vuoto della realtà estrema che fa da palcoscenico alle emozioni private, privatissime dei volti spaesati - poco conta che siano adolescenti o adulti, insegnanti o alunni - dell'umanità intera. Due soli legami rompono la solitudine e la desolazione di Barthes, quello con il nonno ricoverato in casa di cura, e le scene crude e realistiche del cronicario sono schiaffi lucidi e feroci che Kaye ha il coraggio di non ammantare di stolido pietismo, e quello con una prostituta bambina, che tenta di salvare dalla strada ospitandola in casa. Le soluzioni visive, la capacità di scavare nei volti e negli sguardi silenziosi dei protagonisti fanno di Detachment un film solido, emozionante, toccante ma anche ruvido e spigoloso, senza facili vie d'uscita, senza redenzioni o rivincite. L'alunna più dotata non riuscirà comunque a superare le umiliazioni dei compagni e di un padre arido, l'insegnante più volenteroso non riuscirà comunque a superare la barriera di indifferenza dei ragazzi e la scenata della psicologa Lucy Liu ad una studentessa indifferente al proprio destino scolastico è uno sfogo amarissimo e reale sulla delusione che ogni adulto prova quando vede un giovane buttare via la propria vita. Non c'è lieto fine - se non in un abbraccio tra Barthes e la prostituta affidata ad una casa famiglia - non c'è messaggio facile o consolatorio, ma c'è tutta la umana pietas, tutto il coraggio di guardare nell'abisso dell'animo umano senza pregiudizio nè indulgenza e c'è soprattutto la forza di tradurre in immagini potenti ciò che solitamente è affidato alle parole, lasciando che siano i corpi e i gesti a comunicare disperazione e dolore. Un'unico rammarico, che in Italia questo capolavoro esca a fine giugno, con le sale semivuote. Ma non è la prima volta.
W.E. - Edward e Wallis -
di Madonna con Abbie Cornish, Andrea Riseborough,
Oscar Isaac, James D'Arcy **
Due storie parallele e distanti nel tempo, un personaggio pubblico estremamente controverso e chiacchierato come Wallis Simpson e una anonima giovane frustrata e insicura, due epoche, due mondi, due culture a confronto. A far da collante l'infelicità di due donne mal coniugate che si trovano a subire violenze e delusioni prima di giungere al riscatto personale. Tutto questo attraverso gli occhi di Madonna, attenta più all'estetica che alla sostanza, alla coreografia del film più che ai contenuti. Sicuramente più riuscita la parte della pellicola dedicata all'amore fra Wallis Simpson e il re d'Inghilterra Edward, che per lei abdicò la corona, colorita nelle scene di ballo - tutte danzate ad un ritmo diverso da quello della colonna sonora, contrasto stridente ma affascinante - seduttiva ed estremamente curata nei dettagli, da quelli dichiaratamente glamour a quelli più intimi, fatti di silenzi, di sguardi, di rinunce, decisamente più infelice nella parte contemporanea, con una coppia algida e stereotipata, dove i dialoghi sono spesso irrisolti e irritanti, e lo spessore psicologico della crisi di coppia incanalato in una sterilità e in una gelosia francamente troppo scolastiche per avere un senso narrativo. Se a questo si aggiunge che la giovane Wally - che passa le giornate da Sotheby sognando sui cimeli della duchessa di Windsor e si innamora di un intellettuale russo costretto a fare l'inserviente - è un pallido riflesso della ben più vulcanica personalità della Simpson si capisce quanto il film sia sbilanciato a favore del passato, epoca perfetta per una critica sociale verso una stampa aggressiva e invadente - di cui Madonna è stata ed è vittima e beneficiata - e per un'esaltazione della trasgressività e del coraggio di scelte fuori dagli schemi e dalle tradizioni di cui Miss Ciccone è sempre stata una paladina. Detto questo il film ha dei passaggi visivi gradevoli e qualche scena ben girata, con pose che sembrano uscite dal suo vecchio video "Vogue" dove a più riprese il ritornello diceva appunto "Strike a pose", e la storia di due donne che, in epoche diverse, ripercorrono gli stessi passi verso la libertà e la felicità, se pur non nuova, è comunque ben eseguita. Forse da Madonna ci si poteva aspettare qualche guizzo in più e qualche banalità in meno, ma comunque le critiche feroci che hanno accompagnato l'uscita del film sono forse eccessive, anche se saranno uno stimolo per la sempre combattiva regina del pop.
A ciascuno il suo cinema - di Campion, Moretti, Cronenberg, Polanski, Kitano, Kaurismaki, Von Trier, Kiarostami, Lelouch, Yimou, Dardenne, Anghelopulos, Wenders, Inarritu, Kaige, Cohen, Loach, Van Sant, August , De Oliveira... **
Per festeggiare i 60 anni del Festival di Cannes il suo presidente Giles Jacob ha organizzato una singolare pellicola ad inviti, coinvolgendo 35 tra i più grandi cineasti al mondo per raccontare il cinema, la passione, i ricordi, le attese, le speranze e le delusioni di chi cinema fa, guarda, ama. Ognuno di loro ha avuto a disposizione tre minuti per raccontare la propria visione di cinema, per chiudere i propri protagonisti in una sala buia, o in un'arena all'aperto, o in cinema sperduto di campagna, o in cinema-chiesa (Van Sant) per celebrare la sacralità della settima arte. Il risultato è un viaggio nella memoria di ognuno di questi grandi artisti, nei loro sogni adolescenziali o nelle loro paure più recondite, esorcizzate in modo dissacratorio da Von Trier ed estremizzate da un Cronenberg catastrofista. Risultato discontinuo, tempi fin troppo tirati per far respirare qualsivoglia progetto, ma alcuni episodi arrivano dritti al cuore, come i volti di donne che assistono alla proiezione di "Romeo e Giulietta" di Zeffirelli nell'episodio di Kiarostami o i ricordi lontani di Lelouch o l'ironia di Polanski o la grottesca farsa di Kitano. Gli spettatori in sala sono i veri protagonisti, i loro sguardi - anche quelli vuoti di non vedenti, protagonisti di ben due episodi - e la loro meraviglia davanti alla magia del cinema resta la stessa meraviglia che abbiamo provato tutti noi davanti ai tanti capolavori che questi magnifici 35 ci hanno regalato negli anni.
C'era una volta in Anatolia - Once Upon a Time in Anatolia - di Nuri Bilge Ceylan con Muhammet Uzuner, Yilmaz Erdogan, Taner Birsel ****
Nuri Bilge Ceylan, già autore del bellissimo "Tre scimmie" torna a mettere in scena le più profonde emozioni umane con questa pellicola, Gran Prix della Giuria al Festival di Cannes 2011. E lo fa attraverso un meccanismo a matrioska, perchè ogni scena ne contiene un'altra, ogni dialogo è propedeutico al successivo, ogni rivelazione contiene i germogli per la rivelazione successiva, che a volte arriva anche dopo un'ora dalla prima. La trama apparentemente è quella di un poliziesco e ci presenta un commissario di polizia, un procuratore e un medico legale che con altri agenti scortano un assassino confesso nel luogo dove dice di aver sepolto il cadavere della vittima. Viaggeranno tutta la notte e dopo aver alla fine scoperto il luogo di sepoltura torneranno in città per l'autopsia. Ma la parte poliziesca finisce qui, perchè non sapremo mai fino in fondo le ragioni dell'omicidio, nè ci saranno interrogatori (a parte una sola scena, nel buio della notte, in cui il colpevole viene maltrattato dal commissario esasperato) nè indagini. Ci saranno invece tutta una serie di dialoghi fra i tre protagonisti, il dottore, il commissario e i procuratore, che ci racconteranno le loro vite, le loro delusioni, i loro drammi. Sono dialoghi lenti, fra persone stanche (fisicamente per la lunga notte di ricerche ed emotivamente, ognuno per ragioni diverse e lontane, ma sempre presenti) dialoghi che svelano e raccontano, e contemporaneamente spiazzano, noi e i protagonisti stessi. Perchè nel raccontare loro stessi si confrontano col passato, con il presente, e si scoprono fragili, e sconfitti. E nel giudicare l'assassino, apatico, freddo, distante, hanno mille dubbi a livello umano, e sociale. Lo scambio di parole avviene spesso in macchina, o durante le soste, e Ceylan non ha paura ad accostare tematiche alte e profonde ad altre banali e quotidiane, perciò si passa con disinvoltura dalle considerazioni sulla qualità dello yogurt fatto con latte di bufala alle riflessioni sul mistero della vita e della morte, dalle puntigliose misurazioni per stabilire se il cadavere è seppellito in una regione piuttosto che in altra alla considerazione che a volte si va ancora a lavorare ben oltre l'età della pensione solo perchè ciò che si vive in casa è troppo doloroso (come nel caso del commissario che assiste da anni un figlio malato), dalle battute riguardo la somiglianza del procuratore con Clark Gable di cui ha gli stesi baffi (che si accarezza con vanità lontana dal suo ruolo) alla consapevolezza che il suicidio è una estrema forma di punizione per chi resta. La scena finale dell'autopsia, di un corpo violato e sezionato mentre fuori dalla finestra un gruppo di ragazzini gioca a pallone e la vedova del morto si allontana stancamente con il figlioletto sono ancora una volta testimonianza della volontà del regista di mettere in scena la vita in tutte le sue forme, di mettere a nudo i sentimenti degli uomini, di svelarli fragili al di là dei loro ruoli sociali. La semplice eleganza con cui fa tutto ciò lo rende un coreografo dell'esistenza, artefice di una danza imperfetta in cui ognuno sbaglia i passi, ma proprio nel far questo rende magnifica l'intera rappresentazione scenica.
E la vita, così imperfetta, e per questo affascinante - al punto da diventare "Once upon a time...", "C'era una volta..." - è una favola lontana e misteriosa che tutto contiene e tutto restituisce.
Le paludi della morte -
di Ami Canaan Mann con Sam Worthington,
Jeffrey Dean Morgan, Jessica Chastain, Chloe Moretz *
Avventurarsi nel difficile, oltretutto sfruttatissimo, territorio del poliziesco con caccia al serial killer, soprattutto se si è la figlia di Michael Mann, è sicuramente una scelta ardua, ma Ami Canaan Mann ci prova ugualmente, scegliendo come location le paludose terre del Texas, e ci si dedica con metodo e dedizione, ma rischia talvolta di impantanarsi un po'. La trama è da manuale, una serie di ragazze morte, una scomparsa nel nulla, una giovane in pericolo e due poliziotti un po' sgualciti nell'anima che indagano. Il contorno semmai è più interessante, una palude sociale fatta di famiglie più che disfunzionali, di prostitute, spacciatori, reticenze e sottoboschi che difficilmente fanno penetrare alcunchè, sia pure la ferrea volontà dei due agenti di far luce sugli orrendi delitti. I personaggi sono ben delineati, le sottili lacerazioni che un mestiere del genere comporta lasciate a primi piani composti e a silenzi espressivi, ma non c'è mai un guizzo di novità, non c'è niente che non sappia di già visto, e alla lunga il gioco del poliziotto stanco che scende negli abissi della società per salvare l'adolescente simbolo di speranza e rinascita risulta ridondante e stucchevole. La mano ferma della regia fa sperare di meglio per il futuro, ma al momento queste paludi sono molto simili alle tante altre paludi in cui dei serial killer ben più carismatici di quelli che la Mann confeziona per noi, si sono avventurati in altri centinaia di film simili. Non proprio un saldo di fine stagione ma quasi, del resto si sa, i thriller si addicono all'estate cinematografica.
La Guerra è Dichiarata - di Valérie Donzelli con Valérie Donzelli, Jérémie Elkaïm, Gabriel Elkaïm, Brigitte Sy **
Film coraggioso ed estremo, ma non del tutto riuscito, che mete in campo da guerra più crudele, quella contro la malattia. In questo caso il tumore al cervello del piccolo Adam, figlio di una giovanissima coppia , dai nomi profetici di Romeo e Juliet, che all'inizio del film conosciamo innamorata, spensierata e scanzonata. Il calvario che i due ragazzi saranno costretti ad affrontare per sostenere, incoraggiare e salvare il piccolo è fatto di paure, dubbi, incertezze e frustrazioni, ma anche di energia, passione, coraggio e voglia di vivere. E questo è senz'altro il messaggio primario di una pellicola ben girata e montata, la necessità, e il bisogno di trovare spazio per la vita, per la quotidianità, nel pur desolato e terrificante mondo del dolore. Ma le modalità con cui ce lo presenta sono a volte sconcertanti, alcune scene decisamente dissonanti - nella fase di estrema preoccupazione e concitazione per le prime indagini del bambino Juliet parte con il piccolo destinazione Ospedale di Marsiglia mentre Romeo resta a Parigi a dipingere le pareti del loro nuovo appartamento scherzando e ridendo con un amico, inconcepibile anche nella più libera interpretazione cinematografica, e come questa sono molte altre le sene in cui si rimane lontani da un'emozione sincera, quasi che gli sforzi per divertirsi, per vivere nonostante, siano un'imposizione razionale, un percorso programmatico più che un afflato emozionale. Peccato perchè le tematiche sono profonde, perchè i due attori hanno vissuto sulla loro pelle questa vicenda e per dichiarare guerra al cancro non è sufficiente, e non è necessario, sballarsi di musica e alcool, nè esasperare i toni dell'ottimismo a tutti i costi, perchè si rischia di non essere credibili. La forza di questi due fragili genitori, spaventati dalla vita e dalle responsabilità è sicuramente sincera e spontanea, ma chiunque abbia attraversato il territorio cancro sa che non si brinda a champagne quando dalla sala operatoria arriva la parola "tumore maligno". Ripeto peccato, perchè a Donzelli sa come evitare le trappole sentimentali e fa un'ottima scelta nel non mostrare mai il bambino nelle fasi acute di terapia, e perchè lo spaesamento di fronte all'abisso di alcune scene è reso con toni vibranti e crudi, ma un certo disagio di fondo - di fronte all'opera filmica in quanto tale - rimane mentre c'è un senso di grande gioia nell'apprendere che la guerra, dopo essere stata dichiarata, combattuta e sofferta, è stata anche vinta. Auguri a Gabriel, il vero protagonista della storia.
La mia vita è uno zoo - di Cameron Crowe con Matt Damon, Scarlett Johansson, Thomas Aden Church, Patrick Fugit, Elle Fanning, Maggie Elizabeth Jones **
Tratto da una storia vera raccontata dal protagonista Benjamin Mee nell'omonimo libro "Ho comprato uno zoo" racconta dell'avventura vissuta dal Benjiamin, un giornalista vedovo con due figli che per ricominciare la loro vita in un'ambiente nuovo, meno carico di ricordi negativi come la casa dove è morta sua moglie, decide di comprare una villetta fuori città, ma scopre che la proprietà include anche un piccolo zoo, chiuso per mancanza di fondi. L'entusiasmo della figlia, innamorata di zebre e pavoni, lo spingerà ad impegnarsi nel titanico sforzo di ristrutturare lo zoo per farlo riaprire, coordinare un gruppo di collaboratori tanto volenterosi quanto privi di esperienza, il tutto mentre cerca di recuperare il rapporto con il figlio adolescente, ribelle e pieno di rabbia per la perdita della madre. Naturalmente non mancano i momenti di difficoltà, gli intoppi burocratici e qualche litigio fatto di lacrime e risentimento, ma il lieto fine è assicurato, e dai titoli di coda apprendiamo che il parco naturale Mee è stato modello per tanti altri piccoli zoo in tutto il mondo. Una sceneggiatura lineare, a tratti scolastica e didascalica, con un andamento classico e conosciuto, scandito dagli inevitabili tre tempi, tragedia e difficoltà di elaborare il lutto, tentativo di risollevarsi ed inevitabili ostacoli, dissolvimento delle nuvole (anche metereologiche in questo caso visto che i giorno prima dell'apertura ufficiale dello zoo sulla zona del parco si scatena un uragano) e lieto fine con abbracci, riconciliazioni e anche un piccolo germoglio di sentimento amoroso che forse sboccerà. Detto questo però il film è godibile, ben recitato (plauso alla Johansson che ha il coraggio di recitare senza trucco, capelli in disordine, un jeans e una camicia sformata - quante altre dive, specie nostrane, oserebbero tanto? e perfettamente in parte Matt Damon, un po' sperduto, un po' coraggioso) e le scene naturalistiche, degne del National Geographic, dedicate agli animali sono godibilissime. Nell'insieme un film che non sorprende e non ha guizzi registici (dall'autore di "Quasi famosi" ci si poteva aspettare qualche azzardo in più) ma che emoziona e commuove sinceramente, e che sa come prendere una trama da manuale e farne un film gradevole e onesto, senza pretese intellettualistiche ma capace di approfondimenti psicologici e di una grande cura nel costruire i personaggi - fino all'ultimo caratterista - cosa non da poco in un'epoca in cui la sciatteria con cui vengono scritte tante sceneggiature è il difetto principale della maggior parte dei film di fascia media. E il sorriso della piccola Maggie Elizabeth Jones incanta anche chi di solito arriccia il naso quando entrano in scena bambini appena rimasti orfani temendo lacrime e banalità, perchè non solo è spontanea e incantevole senza troppe moine, ma ha una profondità e una malinconia adulta che tocca nel profondo.
Lorax - Il Guardiano della Foresta - di Chris Renaud, Kyle Balda - Animazione **
Premesso che dai produttori di Cattivissime me ci si poteva aspettare qualcosa di meno convenzionale, Lorax è pur sempre un prodotto garbato, a tratti divertente, con un'intento nobile e un testo di Dr. Seuss, grande autore di libri per l'infanzia alle spalle. Il problema di fondo è che le tematiche, l'amore per la natura, la difesa dell'ambiente, il capitalismo che soffoca la società - metaforicamente e non solo visto che nella cittadina dove si svolge il film l'aria è a pagamento - sono state negli ultimi anni fin troppo sfruttate e perciò il messaggio, sia pure importante e condiviso, risulta leggermente noioso ed insistito. Al centro della storia Ted, un adolescente che vive in una città di plastica dove non esistono più alberi, che per far dono alla ragazzina di cui è innamorato di un germoglio dell'ormai scomparso patrimonio forestale, si reca dall'eremita Onceler di cui conoscerà la triste storia e da cui riceverà in dono un seme prezioso per ridar vita alla natura e sconfiggere il prepotente magnate che governa la città, il cui busto rotolerà a terra proprio come quello di tanti dittatori reali. Il Lorax del titolo, mitico spirito difensore delle foreste e dei suoi abitanti, ha la voce e il piglio di Danny de Vito, Onceler, Ted, la sua nonna e gli altri personaggi sono simpatici ma non hanno la forza di altri protagonisti recenti dell'animazione, e le canzoni tradotte in italiano sono come sempre un pedaggio che l'anima musical dei cartoons deve pagare con testi adattati e mai completamente riusciti. Un film che si lascia vedere ma che non lascia il segno, nonostante alcune scene particolarmente riuscite, alcune battute e alcune riflessioni che non si può che condividere ma che sarebbe stato possibile porgere in modo più graffiante e divertente.
Men in Black III - di Barry Sonnenfeld con Will Smith, Tommy Lee Jones, Josh Brolin, Jemaine Clement, Michael Stuhlbarg , Emma Thompson **
Tornano gli agenti K e J, tornano gli alieni mostruosi, tornano le armi sofisticate, i grandi effetti speciali, le battute, la musica d'effetto, insomma tornano i Men In Black, a quindici anni dal primo episodio e a dieci dal secondo e buon per noi non sono affatto invecchiati, non si sono infiacchiti, e neanche annoiati di dar la caccia ai nemici della Terra. Abituati a dei sequel stanchi e privi di idee si rimane piacevolmente sorpresi da Men in Black III perchè ha il pregio di avere una solida sceneggiatura, interpreti sempre brillanti e in parte - a Will Smith e a Tommy Lee Jones si unisce questa volta Josh Brolin nella versione giovane di K - visto che per questa terza avventura gli autori si concedono il lusso e il divertimento, di un viaggio indietro nel tempo, addirittura nel mitico 1969, alla vigilia del lancio da Cape Canaveral dell'Apollo 11. L'atmosfera dal sapore retrò rende possibili situazioni brillanti e battute che soprattutto chi ha vissuto quegli anni apprezzerà, prime fra tutte la visita alla Factory di Andy Warhol, di cui scopriremo la vera identità. La caccia al villain di turno il blogodiano
Boris, è un pretesto per le solite scene d'azione, per reiterare in chiave brillante l'eterna lotta bene-male senza sfumature o concessioni alla psicologia, ma del resto gli uomini in nero sono fatti per vincere, lo si sa, e il divertimento è garantito solo se si sta al loro gioco, ai loro ritmi, alle loro stravaganze. Una chicca di questo terzo episodio è la presenza dell'alieno Griffin, timido e impacciato, che prevede le illimitate possibilità di futuro con sguardo limpido e disincantato, perfettamente reso da
Michael Stuhlbarg. E non stona la nota sentimentale con cui in sottofinale apprenderemo qualche segreto mai svelato finora sulla vita dei due agenti. Due ore di divertimento onesto e solido, con una squadra ormai talmente affiatata da far presagire una seria possibilità di altre avventure a caccia di alieni da imprigionare.
Silent Souls -
di Aleksei Fedorchenko con Igor Sergeyev, Yuriy Tsurilo, Yulia Aug,
Ivan Tushin **
Presentato al Festival di Venezia del 2010 esce solo ora in sala "Silent Souls", viaggio malinconico ma mai triste, avventura dell'anima e riflessione sulla vita e sulla morte, con toni - narrativi e fotografici - inconsueti, quasi rarefatti. La culla del film è la cultura e il territorio dei Meja, un'etnia antica e ormai praticamente dimenticata, che viveva in una sperduta regione della Russia. Tradizioni e rituali accompagnano ogni scena di un film che sussurra le emozioni, che suggerisce ed evoca, che accompagna gesti e azioni con quadri naturali silenziosi e lontani, spettatori eterni del fluire della vita. E della morte. Perchè è proprio la morte di Tanya, giovane moglie di un piccolo imprenditore, ad essere al centro dei riti che accompagnano il viaggio di distacco che il marito Miron compie, insieme all'amico Aist - scrittore e voce narrante del film - per consegnare il corpo di Tanya alle acque del fiume. Acque che accolgono, che conservano, e che restituiscono ricordi e paure, speranze e fantasie. La tenerezza struggente con cui Miron lava il corpo amato della moglie è un omaggio discreto e trattenuto all'amor fou che li ha legati in vita, il "Fumo" che condivide con Aist (racconti intimi della loro vita a due) un prolungare quella passione che riviviamo in alcuni intensi flashback, e la semplicità con cui abbandona le ceneri di tanya al fluire della corrente un dolce arrendersi al destino. I limiti di una pellicola così trattenuta è che le emozioni e i sentimenti restino compressi e inespressi, e infatti qualche passaggio risulta anonimo e forzato nella sua asciuttezza, ma sono contornati di poesia i ricordi di Aist, che evoca con nostalgia un padre felicemente estraneo alla realtà. Ma scorre lieve quell'acqua della vita, e disseta le anime di questo piccolo popolo tenacemente aggrappato alle proprie radici, sia pure affondate nell'eterno scorrere dell'acqua.
Love & Secrets - di Andrew Jarecki con Kirsten Dunst, Ryan Gosling, Frank Langella, Kristen Wiig *
A più di due anni dalla distribuzione americana esce anche in Italia "Love & Secrets" , titolo originale "All good things" - domanda: perchè cambiare un titolo inglese con un altro, sempre in inglese? - e nel frattempo Ryan Gosling è diventato una star. Motivo sufficiente per far uscire, in finale di stagione una pellicola che ha alcune tracce interessanti, ma che spesso le abbandona per ritornare sul sentiero principale del thriller psicologico, sentiero peraltro fin troppo affollato. La storia, ispirata a fatti realmente accaduti, ci presenta David Marks, figlio un po' frustrato un po' privilegiato di un ricco padre padrone - nella prima scena David in smoking deve rinunciare ai suoi impegni perchè il padre gli ordina di andare a controllare un problema idraulico in una delle cose che affittano - che si innamora come nella più classica delle favole, della ragazza carina ma squattrinata, si mette contro la famiglia, la sposa e va a vivere in campagna con lei. Tutto bene dunque? Chiaramente no, perchè siamo solo a pochi minuti di film, e si sa, quando le cose si mettono tropo bene all'inizio c'è solo da aspettare... e infatti scopriamo ben presto che David ha un passato traumatico che ne ha alterato la personalità, che alterna momenti di dolcezza e passione ad altri in cui una violenza cieca lo travolge, che il rapporto con il padre è più patologico di quel che può sembrare, e che per seguire le sue trame mentali malate e perverse non esita a vestirsi da donna, ad uccidere e ad inscenare alibi diabolici. Facile immaginare quindi che la scomparsa della dolce mogliettina rimanga un enigma insoluto, e che il processo a suo carico che si svolgerà quasi vent'anni dopo, lo veda solo condannato per occultamento di cadavere, non quello della moglie ovviamente, mai rinvenuto. Gosling è un perfetto sociopatico, diciamolo subito, ma proprio per questo privo del qualsivoglia appeal, perchè a differenza di un sociopatico reale, distaccato, del tutto incapace di afferrare il concetto di male e quindi per questo privo di empatia, emozione o reazione, un sociopatico cinematografico deve avere qualche guizzo, qualche scarto, qualche vezzo che ce lo renda ripugnante e seducente ad un tempo, altrimenti resta un freddo clone di Norman Bates in parrucca e vestitino. L'atmosfera tesa ed inquietante è sicuramente la cosa più riuscita del film , che però manca nell'approfondimento psicologico, cosa tanto più grave quando si vuol fare un film sulle tensioni psicologiche, sulle dinamiche malate all'interno di una famiglia, sul disagio mascherato che esplode improvviso in persone apparentemente normali. Kristin Dunst è sufficientemente solare all'inizio e devastata quando scopre la vera natura del marito, Gosling fa quel che deve, e tutto sommato il film si lascia seguire, ma non lascia inquieti e disturbati come si dovrebbe essere di fronte ad una trama del genere.
Viaggio in Paradiso - di Adrian Grunberg con Mel Gibson, Peter Stormare, Bob Gunton, Dean Norris *
Mel Gibson tenta di rilanciare la sua carriera dopo le polemiche e gli scandali che ne hanno fortemente appannato l'immagine di protagonista bello e coraggioso con un personaggio che sembra cucito addosso al suo sguardo ironico, al suo fisico roccioso, al suo curriculum fatto di eroi un po' scapestrati un po' romantici. Ci riesce? A metà, perchè "Viaggio in Paradiso" ci restituisce in alcuni frammenti un Gibson vecchio stile ma in altri ci precipita in un'atmosfera fin troppo caricaturale. Un rapinatore truccato da clown - intenzione dichiarata di non prendersi sul serio fin dalle prime inquadrature - viene catturato congiuntamente dalla polizia frontaliera messicana e americana, derubato dal malloppo e rinchiuso a El Pueblito, un carcere aperto dove regna l'anarchia più assoluta, circolano droga ed armi più che in strada e sopravvivere è un miracolo ogni giorno. Il boss locale, bisognoso di un trapianto di fegato, da' la caccia ad un ragazzino il cui gruppo sanguigno è compatibile con il suo e Gibson diventa ben presto il difensore del bambino e di sua madre. Il tutto mentre tenta di recuperare i suoi soldi, mentre sogna di far giustiziare l'amante della sua ex moglie e mentre imita niente meno che Clint Eastwood per preparare un attentato. C'è di che divertirsi, non c'è dubbio, ma c'è anche da che rimanere sconcertati davanti a questo carcere che sembra un clone della Marshalsea di Dickens, dove le sparatorie durano interminabili minuti e dove l'unica regola è che non esiste alcuna regola. Gibson spara, fa gli occhi spiritati, afferra al volo una bomba a mano come se fosse un'azione di football americano, difende gli innocenti e giustizia i colpevoli, tutto nel perfetto stile giustiziere americano, ma la credibilità del film, affrancata dalle scene d'azione condite da litri di sangue e girate con sufficiente ironia, è davvero scarsa, e ben poco aggiunge la sia pur volenterosa presenza di buoni caratteristi a far da contorno, perchè il difetto principale del film di Grunberg, che pure ha il merito di restituirci un Gibson meno serioso e meno "autoriale" quindi più simpatico e genuino, è che mette nel frullatore un gran numero di generi, un gran numero di stili, un gran numero di citazioni ed omaggi, senza però fonderli fino in fondo, creando così una maionese leggermente impazzita, e pressochè inutile. Però nei primissimi piani lo sguardo di Mel Gibson è ancora quello assassino di Arma Letale, e ci fa rimpiangere un po' quei ruoli realmente scanzonati ed estremi della sua gioventù.
Killer Elite - di Gary McKendry con Jason Statham, Clive Owen, Robert De Niro, Dominic Purcell **
Presentato in anteprima al
Toronto Internation Film Festival il lungometraggio che vede protagonisti Clive Owen e Robert De Niro è un solido film di spionaggio ambientato negli Anni Ottanta, tra Londra e il Medio Oriente. Non ci sono buoni contro cattivi qui, i ruoli sono ambigui e borderline per tutte le pedine in campo, agenti dello spionaggio inglese e americano, che si rincorrono e si danno la caccia in una spirale di trappole, appostamenti, inseguimenti e lotte corpo a corpo. Non mancano i colpi di scena, i tradimenti e i doppi giochi come in ogni film di spionaggio, ma le scene d'azione non sono ridondanti, lasciando spazio alla tensione e alla suspance nella preparazione degli attentati e agli approfondimenti psicologici dei personaggi (l'idealista e integro Owen, lo stanco e disgustato Statham e il cinico e disilluso De Niro). Una trama una volta tanto lineare che però nulla toglie al gioco spionistico e alla azione pura, ma soprattutto un'idea vincente, quella delle spie che danno la caccia alle spie che danno loro la caccia, tutti costretti loro malgrado ad interpretare un ruolo che li fa pericolosamente assomigliare ai terroristi che dovrebbero combattere. Le interpretazioni sono asciutte, tese quanto basta per rappresentare senza sconti e senza ipocrisia l'ambiente pericoloso e corrotto in cui si muovono gli uomini delle forze speciali. Naturalmente non c'è niente di estremamente originale e la regia rimane aderente all'azione senza coglierci mai veramente di sorpresa, ma la trama si lascia seguire e nel contesto del filone spionistico si può definire un prodotto medio alto. I titoli di testa ci dicono che il film è ispirato ad una storia vera, il che ci inquieta ancora di più.
Marilyn - di Simon Curtis con Michelle Williams, Kenneth Branagh, Eddie Redmayne, Judi Dench, Julia Ormond , Derek Jacobi **
Nel 1956, poco dopo aver sposato Arthur Miller, Marilyn Monroe si trasferì a Londra per girare "Il principe e la Ballerina" con Sir Laurence Olivier. Il giovane assistente di set Colin Clark, all'inizio intimidito dall'essere a contatto con attori tanto famosi, sarà l'unico che riuscirà ad instaurare un rapporto intimo e sincero con l'attrice americana, fragile e insicura ogni giorno di più. Trascorrerà con lei giorni indimenticabili, che qualche anno dopo saranno raccolti in un libro che fa da sfondo al film di Simon Curtis. Le impegnative parti di Marilyn e Olivier sono affidate a Michelle Williams e Kenneth Branagh (per entrambi meritatissime nomination agli Oscar), mentre Julia Ormond è Vivien Leight. Il racconto di Colin è affettuoso, partecipe, complice, visto che la sua breve frequentazione di Marilyn fu per lui una di quelle esperienze che a ventitre anni sconvolgono mente e cuore, ma sincera ed onesta quanto basta per raccontare la dipendenza di Marilyn dai farmaci, la corte di personaggi che le ruotava intorno con scopi non sempre nobili, il bisogno spasmodico della star desiderata da tutti gli uomini del pianeta di essere rassicurata ed amata da un singolo uomo che la vedesse come realmente era e non come lo star system la dipingeva. Lo stile della pellicola è lineare, e la scelta è vincente, perchè di fronte a personaggi così "pesanti" si può solo accompagnarli nel loro vissuto. Si conoscono malinconie e paure di questi grandi attori - magnifica la scena in cui il grande Olivier confessa a Colin la sua paura di invecchiare e perdere lo smalto dei primi anni - ci si intenerisce davanti ad una Marilyn così insicura del proprio talento di attrice da dover provare con la sua coach (Paula Strasberg) una battuta, anche la più banale, decine di volte e si rimpiange un'epoca d'oro in cui il mondo cinema era fatto di vero glamour. Come dicevamo meritatissime le nomination di Michelle Wiliams, una Marilyn donna-bambina, sexy e divertente nei momenti buoni, ma sperduta e disperata quando i dubbi e la solitudine la tormentano e un Kenneth Branagh perfettamente a suo agio nel ruolo del grande attore e regista shakesperiano alle prese con le bizze della sua prima attrice.