Settembre 2013
Mood Indigo - La Schiuma dei Giorni - di Michel Gondry con Audrey Tautou, Omar Sy, Romain Duris, Jamel Debbouze ***
Boris Vian ha scritto un libro delicato e onirico, Michel Gondry ne ha fatto un film altrettanto delicato e onirico, ma talmente carico di suggestioni visive che talvolta si smarrisce la fragile struttura narrativa che pure è piena di metafore e allegorie. La trama è talmente semplice da rasentare lo schematico, Colin, uomo ricco e annoiato, si innamora di Chloè, creatura eterea attratta dall'impaccio di Colin. I due si innamorano, si sposano, ma la vita - e la malattia - li costringeranno ad un brusco risveglio dal sogno d'amore. Raccontata così la storia sembra lineare e quasi banale, ma ciò che cambia le carte in tavola è che la storia di Coline Chloè si svolge in un universo magico e surreale, dove ogni oggetto si anima, dove la casa è gestita da un cuoco generoso e spassoso cui si allungano le gambe quando balla, dove vive un topolino antropomorfo e dove il grande Duke Ellington suona per i due innamorati ogni notte. Le invenzioni sceniche sono talmente tante - e tutte davvero superlative diciamolo - da non permettere ai protagonisti di espandersi come potrebbero, e anche i personaggi di contorno, dal cuoco all'amico intellettuale Chick alla sua fidanzata Alise restano solo figurine sullo sfondo del fantasmagorico mondo fatato che le meraviglie degli effetti speciali riescono a rendere incantato. Le metafore sono come dicevamo tante, la scelta registica di accumulare effetti visivi e sonori, trovate e invenzioni può andar bene nella prima parte del film ma man mano che la storia procede si sente quasi il bisogno di qualche pausa dal carosello di trasformazioni fisiche e creature fantastiche per lasciar posto all'evoluzione lenta e dolorosa della malattia di Chloè, una ninfea che cresce nel suo cuore e che bisogna far morire di sete. Ma una scelta geniale resta quella di far rimpicciolire la casa man mano che il mal di vivere - la malattia, ma anche la crisi economica - chiude gli orizzonti temporali ed emotivi e di far scolorare il brillante colore delle prime scene in un freddo e drammatico bianco e nero che tutto avvolge e tutto raggela. Audrey Tautou, Omar Sy, Romain Duris e Jamel Debbouze fanno del loro meglio per inserirsi in questo psichedelico universo fatto di ogni più folle invenzione, ma certo la recitazione soffre un po' nel confronto con la tecnologia. Un film affascinante sicuramente, struggente e coraggioso ma talvolta un po' ridondante. Sicuramente sarebbe risultato un capolavoro se qualche emozione in più fosse riuscita a filtrare tra un paradosso e una iperbole, tra una creatura bizzarra e un gioco di prestigio visivo.
I Puffi 2 - di Raja Gosnell con Neil Patrick Harris, Hank Azaria, Anton Yelchin, Brendan Gleeson ***
I Puffi a Parigi per liberare Puffetta e portare come al solito scompiglio e divertimento. Dopo il primo divertentissimo episodio tornano gli Smurf, gli omini blu che tanto bene rappresentano l'umanità con i loro tic e manie. Se ne starebbero tanto felici a Pufflandia, tra un Facepuff e un compleanno da organizzare quando Gargamella e il suo malefico e intelligentissimo gatto mettono in atto una trappola per catturare puffetta - da lui creata cattiva ma poi convertita dal Grande Puffo nel precedente episodio - ed estorcerle la formula magica dei puffi e conquistare così il potere sull'intero pianeta. E la cosa sembra fatta, ma Grande Puffo, Puffo Brontolone - che tenta una riconversione in "Penso positivo" - Puffo Vanitoso e Tontolone partono alla volta di Parigi - dove Gargamella si esibisce come mago da palcoscenico niente meno che all'Operà - per compiere il grande salvataggio. E ovviamente non saranno soli ma accompagnati dalla famiglia Winslow a cui si è aggiunto anche un patrigno ingombrante e simpatico che riuscirà perfino a farsi trasformare in anatra, e ben sappiamo che fine fanno le anatre nelle cucine francesi... La storia è semplice, dedicata chiaramente ai più piccoli, ma sfido qualunque adulto a non divertirsi con le trovate e le battute dei piccoletti blu - una su tutte "quando una cosa può andar storto lo farà" è parte della Legge di Purphy ovviamente - e a non seguire con tenerezza le tenere emozioni che accompagnano la trasformazione delle due nuove creature create da Gargamella, che interagiscono con Puffetta dapprima per ingannarla e poi per aiutarla, diventano ben presto dei villain redenti decisamente simpatici. Insomma divertimento puro senza pretesa di psicologismi - anche se certi puffi se approfonditi un po' caratterialmente potrebbero essere inseriti come esempi nei cataloghi di psicopatologia - come Puffo passivo-aggressivo, o Puffo vanitoso o Puffo brontolone - ma decisamente ben realizzato, con delle magnifiche vedute aeree di Parigi e il solito magnifico gatto dalle espressioni esasperate e sarcastiche che vince su tutti.
Las Acacias - di Pablo Giorgelli con Germán de Silva, Nayra Calle Mamani, Hebe Duarte ****
Camera d'Oro al Festival di Cannes per questo piccolo delicato intenso ed emozionante film scritto e diretto da Pablo Giorgielli. La storia è quella di Ruben, un camionista che trasporta legna fra il Paraguay e l'Argentina e che durante uno di questi viaggi, per fare un favore al suo datore di lavoro, deve dare un passaggio a Jacinta, una ragazza che vuole raggiungere Buenos Aires. L'incontro fra i due non nasce sotto i migliori auspici perchè Jacinta si presenta all'appuntamento con la sua bimba di cinque mesi di cui Ruben non era a conoscenza, e così il viaggio inizia fra malumori e gesti bruschi. I chilometri che i due percorrono in quasi assoluto silenzio, rotto inizialmente solo da qualche domanda imbarazzata, sembrano dilatare la distanza fra due solitudini, fra due fragilità, fra due universi, ma man mano che gli sguardi si incrociano e man mano che la piccola Anahi, fra una smorfia e un sorriso, riesce a scogliere la tensione, ci sarà spazio per un timido confronto, fatto di frammenti di confidenze, di piccole gentilezze, di reciproche attenzioni. Un film in cui apparentemente accade pochissimo, ma che in realtà fa percorrere ai due protagonisti chilometri, non solo fisici, ma anche emozionali, per avvicinarli l'uno all'altro, per far sì che l'introverso e solitario Ruben trovi il coraggio di proporre a Jacinta un successivo incontro. Delicato, intenso, capace con pochissimi dialoghi e gesti misurati e mai eclatanti di raccontarci, senza mai svelarcele, le vite di Ruben e Jacinta - Las Acacias ha il raro dono di evocare invece di palesare lasciando che siano i corpi impacciati ad esprimere le emozioni cui la voce non riesce a dar forma. In questo senso la scena in cui Ruben scende a fumare una sigaretta è esemplare, incapace di proporsi e quasi geloso delle attenzioni di un altro camionista verso la ragazza è un capolavoro di sottrazione, e laddove altri registi lo avrebbero fatto camminare nervosamente avanti e indietro o tirare un calcio ad un sasso Giorgelli lo inchioda al terreno, con movimenti minimi, incerti, trattenuti così come sono trattenuti i suoi sentimenti. La solitudine è un nucleo duro e compatto, difficile da infrangere sembra suggerire Giorgelli, e la fisicità di Germán de Silva lo asseconda con una recitazione asciutta e una mimica quasi impercettibile (i primi sorrisi che rivolge ad Anahi sono tutti da interpretare tanto sono trattenuti) ma la tenerezza con cui si apre al futuro è struggente e potente. Resta nel cuore questo piccolo grande gioiello, un puzzle di emozioni che formano un affresco poetico e venato di timida speranza.
Il Cacciatore di Donne - di Scott Walker con Nicolas Cage, John Cusack,
Vanessa Hudgens, Jodi Lyn O'Keefe **
Thriller classico, ispirato tra l'altro ad una storia vera, che schiera in campo il poliziotto buono stanco e demotivato ma ostinato una volta che ha preso sotto la sua ala protettrice una vittima fragile e persa sulla strada della prostituzione minorile e il killer freddo sadico, perfetto padre di famiglia all'apparenza ma capace di perversioni infinite. Come avrete capito niente di nuovo, e neanche le ambientazioni fredde dell'Alaska sono così originali, però c'è un'atmosfera decadente che compensa la mancanza di approfondimenti psicologici, e qualche confronto dolente a sfumare la classica indagine di polizia fatta di scarsi indizi, testimoni inaffidabili e killer capaci di sfuggire ad ogni maglia ella giustizia. Manca però quel guizzo che trasforma il killer in personaggio a tutto tondo (leggi Hannibal Lecter se vogliamo fare un paragone "alto") mancano i colpi di scena - e non tanto perchè l'identità del killer è nota fin dalle prime scene ma proprio perchè l'andamento è talmente lineare e scolastico che si fatica a credere di essere in presenza di un thriller, e soprattutto i due protagonisti sono troppo statitici, troppo intrappolati in figure senza spessore, senza motivazioni e pulsioni profonde. Un film pigro poco attento a far salire di tono la trama nonostante avesse un bel personaggio come quello della prostituta bambina - ma Scorsese e Jodie Foster sono lontani, diciamolo subito - e che fatica a trovare sia un ritmo serrato che avrebbe dato tono alla suspence, sia l'approfondimento psicologico e sociale di un uomo - di due uomini - che scendono all'inferno senza neanche degnarsi di alzare un sopracciglio. Un po' troppo poco anche per Nicolas Cage che da tempo immemore non azzecca un film e per John Cusack che fa stancamente gli occhi da cattivo ma non mette mai veramente paura.
Il Potere dei Soldi - di Robert Luketic con Liam Hemsworth, Harrison Ford,
Gary Oldman, Richard Dreyfuss, Lucas Till **
Non se svogliato sia la parola più giusta a descrivere la pellicola di Luketic, ma la sensazione che si prova davanti allo scorrere delle immagini - lente anche negli snodi d'azione - è proprio questa, come se ad una trama già di per sè piuttosto fiacchina nessuno avesse pensato di aggiungere verve, sagacia e colpi di scena, realizzando quindi una pellicola senza scintille nè pathos. Adam Cassidy è un giovane rampante che ha sottratto troppi soldi all'azienda da cui è stato appena licenziato. Il suo ex boss lo ricatta quindi obbligandolo a farsi assumere dalla concorrenza per rubare segreti industriali. E così Adam si trova catapultato nel giro grosso, dove dovrà vedersela con gli quali veri, fino naturalmente a quando non verrà scoperto e allora il rischio non sarà più solo quello di finire in carcere. E naturalmente non mancano le complicazioni sentimentali perchè la ragazza di cui si innamora è proprio quella che custodisce i segreti che Adam deve rubare, perciò potete ben immaginare l'"originalissimo" dialogo che si svolge tra i due a base di "tu mi hai ingannato, hai finto tutto questo tempo" e "Non sempre ho finto, i miei sentimenti per te sono veri...". Una cosa proprio nuova vero? E non bastasse questo il cast schiera tre vecchi leoni mai come qui imbolsiti e spelacchiati - Harrison Ford, Gary Oldman e Richard Dreyfuss - che niente possono aggiungere e niente possono inventare e a dir la verità neanche ci provano perchè la loro recitazione è davvero a tirar via. Il difetto peggiore è che i caratteri dei personaggi sono più piatti di un cartone animato anni 50', i cattivi sono cattivi e diventano sempre più cattivi, gli ingenui restano ingenui e nessuna pedina emotiva si sposta sullo scacchiera della sceneggiatura. Peccato però che grandi attori simili si prestino a film così sciatti e banali, e se proprio il cachet è di quelli a cui non si può dire di no che almeno in fase di post produzione ci mettano una parola per movimentarlo un po'.
R.I.P.D. - di Robert Schwentke con Ryan Reynolds, Jeff Bridges, Stephanie Szostak,
Kevin Bacon ***
Un po' Man in Black, un po' Sfida all'Ok Corrall e un pizzico di Ghost, divertente e scanzonato con un Jeff Bridges superlativo e auto ironico, intrattenimento puro ma senza mai abbassare il livello di adrenalina e di azione. Nick Walker fa il poliziotto a Boston, il suo collega Bobby Hayes è un po' corrotto e all'idea di spartire un bottino Nick si sottrae ricevendo in cambio una pallottola in testa. Il risveglio è in dipartimento molto particolare, il R.I.P.D. il dipartimento nell'aldilà che raccoglie i poliziotti in servizio per rinviarli sulla terra a caccia di criminali mostruosi camuffati sotto sembianze normali. Ad affiancarlo un veterano del dipartimento, Roy Pulsipher, sceriffo dell'ottocento, dai modi bruschi e dalla guida spericolata. I due sulla terra non appaiono con le loro sembianze, e la coppia di alter ego è davvero esilarante, ma questo impedisce a Nick di contattare la moglie che lo crede corrotto. Tra avventure, sparatorie e smascheramenti la pellicola gioca tutte le carte della commedia, dell'action movie e del buddy buddy, riuscendo a mantenersi originale nei caratteri e nei personaggi, con battute che sostengono la trama e villain esteticamente molto ben marcati, quasi simpatici nelle loro mostruosità. Ma come dicevamo è Jeff Bridges a farsi carico dell'ossatura del film, con il suo sguardo sornione, con una voce cavernosa che se avrete occasione di vedere il film in originale vi conquisterà e con la capacità di interpretare un film di genere, leggero e scanzonato con una verve e un carisma che altri attori riserverebbero solo a Shakespeare. Si esce con il sorriso sulle labbra dal cinema, soddisfatti del contenuto mai ingannevole e grati agli effetti speciali, alle battute semplici e ai caratteri tagliati con l'accetta per non spacciare il sano divertimento per cinema alternativo e sperimentale, o peggio ancora intellettuale come tanti altri tentano - invano - di fare.
Starbuck - 533 Figli e non saperlo - di Ken Scott con Patrick Huard, Julie LeBreton, Antoine Bertrand, Dominic Philie ***
Commedia canadese tenera, un po' malinconica, a volte sbilenca e a volte esilarante, che ha in sottofondo una tematica importante come la paternità consapevole, e come contorno una girandola di personaggi buffi e simpatici, sperduti nelle loro fragilità ma capaci di slanci di generosità. David Wozniack ha due fratelli, un padre e una numerosissima famiglia di origine polacca che lo considera un po' la pecora nera del gruppo, lavora nella macelleria di famiglia, ha un debito pesantissimo che non riesce a saldare con ceffi pericolosi e molto minaccioso e tenta invano di rabbonire la fidanzata Valèrie che trascura per andare a giocare a calcio. Due notizie sconvolgeranno di lì a poco la sua quotidianità, la scoperta che Valérie è incinta e la scoperta che quello sperma che aveva donato molti anni prima ad una clinica della fertilità è "responsabile" di ben 533 nascite, 533 ragazzi che si sono coalizzati per scoprire il loro padre biologico. David dapprima rifiuta anche la sola idea di incontrare i ragazzi, ma poi incuriosito ne avvicina alcuni senza ovviamente rivelare chi sia, scoprendo il piacere di aiutarli e prendersi cura dei loro bisogni. L'andamento del film lascia ampi spazi ai momenti brillanti, ma non mancano spunti di riflessione e momenti di intima comunione fra questo padre per caso e questi ragazzi un po' sperduti un po' fiduciosi nel futuro, sintesi di una generazione che è alla ricerca di un padre, di un punto fermo, di una spalla cui appoggiarsi. Attori perfetti nei tratti, nella gestualità tipica della commedia ma modulata da espressioni più sincere e profonde, una trama semplice ma mai scontata e una coralità di racconto e di recitazione che rendono estremamente piacevole questa garbata produzione canadese.
Turbo - di David Soren - Animazione ***
Un sogno da inseguire, un desiderio apparentemente impossibile che solo chi ha la forza di opporsi agli sberleffi e alle prese in giro degli altri può inseguire, e un paradosso di fondo che diventa metafora sono alla base della nuova produzione Dreamworks, un po' pigra nell'invenzione e nella realizzazione, ma pur sempre su ottimi livelli qualitativi. Teo è una lumaca, lenta ma spericolata cui il motto "rientra e ruzzola" adottato dai suoi compagni sta stretto, lui ha il mito della velocità, passa le ore incollato alla televisione a vedere le corse e sogna di partecipare ad Indianapolis. Inutilmente il fratello tenta di dissuaderlo, Teo sfida tricicli e tagliaerba e non ha nessuna intenzione di rinunciare al suo sogno. Un incidente che ricorda molto da vicino "Spruzza sparisci e spara" di disneyiana memoria lo trascina all'interno di un motore e i vapori degli ingranaggi lo trasformano in una super lumaca, con tanto di luci e radio incorporate, ma soprattutto con una velocità supersonica. Da lì in avanti saranno solo ostacoli da superare, ma con l'aiuto di un ragazzone messicano che crede nei sogni almeno quanto Teo la partecipazione alla mitica 500 Miglia di Indianapolis non è più un sogno, e la magia di battere l'idolo delle folle non è più solo un miraggio. La trama come vedete è piuttosto semplice - il "diverso" che insegue un sogno e alla fine, sia pure aiutato da un pizzico di magia e fortuna che serve sempre, ce la fa, i personaggi sono simpatici e i caratteri come d'obbligo nell'animazione divertenti e scanzonati, ma quello che manca è un pizzico di verve, di stravaganza nei dialoghi e di inventiva nella realizzazione anche se i musetti delle lumachine sono molto mobili ed espressivi. Difficile trovare un difetto macroscopico, impossibile dire che non ci si diverta, ma non ci si entusiasma mai, non ci si stupisce, non si avverte il brivido dell'emozione che ogni cartone degno di questo nome deve provocare. Ci aspettiamo un po' più di grinta e di originalità da parte dagli autori di Kung Fu Panda o Dragon Trainer perchè nonostante Turbo corra velocissimo non decolla mai, al contrario di un prodotto tra poco sugli schermi anche in Italia, e cioè "Cattivissimo me 2" divertentissimo ed emozionante come pochi.
Elysium - di Neill Blomkamp con Matt Damon, Jodie Foster, William Fichtner,
Alice Braga ***
2154. La terra è una landa desolata, degradata e abitata solo da reietti, criminali e poveri che non possono permettersi il trasferimento su Elysium, quella stazione interstellare dove tutto è lindo e pindo, si può guarire da ogni malattia e la vita sembra perfetta. Sì, lo so, sembra l'incipit di altri - tanti, troppi - recenti film di fantascienza in cui la terra è condannata ad essere la pattumiera dell'universo, e i regimi totalitari sono l'alternativa spaziale naturalmente guidati da spettrali controfigure di essere umani, stereotipi che si confondono gli uni con gli altri, o meglio le altre perchè, chissà per quale scelta registica e psicologica, spesso si tende ad far interpretare a donne dal piglio mascolino le comandanti tutte d'un pezzo pronte a sterminare senza pietà pur di mantenere controllo e potere - Melissa Leo in Oblivion, una segaligna e un tantino caricaturale Jodie Foster qui. E non mancano, nel nuovo film del regista di District 9, l'eroe maltrattato che per salvarsi la vita è costretto ad infrangere ogni regola e a lottare contro tutti - dire buoni e cattivi in questo caso è un po' un eufemismo visto che ognuno ha occasione per redimersi o ricadere nella colpe ennesime volte - un Matt Damon che regala al suo Max ben pochi momenti di dolente umanità - ricordi d'infanzia, l'incontro con il grande amore il sacrificio finale che ricorda Armageddon - ma che, novello Robocop, imbraccia muscoli e fucile per regalare all'umanità giustizia e libertà e non mancano quei topos immancabili nei film di fantascienza - la resistenza che un po' gioca alla rivoluzione un po' pensa agli affari - l'elemento toccante che quasi mai supera i sei anni e infatti anche qui è incarnato da Mathilda, malata di leucemia che su Elysium potrebbe guarire, e che racconta la favola del suricami e dell'ippopotamo con una saggezza da premio Nobel, per non dire dell'amico fidato del protagonista che finisce col soccombere ai progetti visionari dell'eroe e della lotta di potere fra gerarchi, burocrati e folli visionari, tutti destinati ad uscire sconfitti ma mai redenti, perchè in questo genere di film non c'è mai spazio per la riflessione, il senso di colpa, l'ammissione delle proprie responsabilità, c'è spazio solo per "sparo prima io o spari prima tu?", ma tant'è, lo si sa già dai titoli di testa... però il finale è bello, non c'è quell'happy end che avrebbe reso il tutto davvero indigesto, c'è anzi un lento fluire di immagini che dovrebbero testimoniare la vittoria e però hanno il sapore della sconfitta, del dolore, della perdita comunque di qualcosa, a prescindere da chi ha vinto. Elysium in fondo è l'utopia ancestrale che tutti ci portiamo dentro, quel luogo mitologico dove non c'è malattia, non c'è guerra non c'è odio. E il sacrificio che compie Max per regalarlo all'umanità ha il sapore del sogno, eterno, di donare una vita migliore a chi resterà dopo di noi.
Il Mondo di Arthur Newman - di Dante Ariola con Emily Blunt, Colin Firth, Anne Heche, Phillip Troy Linger ***
La mediocrità di una vita banale normale - se la parola normale ha ancora un qualche significato - il desiderio di diventare altro da sè, un uomo con il coraggio di cambiare, di vivere, di osare. E' questo ciò che Wallace Avery cova da tempo, tra le pieghe di una quotidianità fatta da un lavoro come impiegato di basso profilo, da una fidanzata con cui ha un rapporto pacato e distaccato, da un figlio adolescente che gli parla a malapena perchè si è sentito trascurato quando era piccolo e da una ex moglie che si è risposata. Solo l'antica passione per il golf - del quale sarebbe stato una promessa se solo il suo carattere impacciato ed emotivo non lo avesse reso un perdente nel momento del passaggio al professionismo - lo tiene a galla, e di più, lo spinge ad acquistare una falsa identità per tentare la sorte in un resort di lusso dove forse verrà assunto, ma soprattutto a scappare da una vita che gli sta stretta ma che non ha il coraggio di cambiare. L'incontro con Michaela o meglio Charlotte - perchè anche lei è in fuga da se stessa con l'identità della sorella schizofrenica - sarà il punto di partenza per una fuga da e verso, fuga da loro stessi e dalle loro esistenze sbilenche, e fuga verso un'identità qualunque, presa in prestito via via da persone incontrate per via, che Wallace e Charlotte replicano infilandosi nelle loro case e nei loro vestiti e riuscendo per qualche ora ad essere felici, spensierati, ad amarsi anche, perchè nascosti dietro identità fittizie non corrono nessun rischio di esporsi, di mettersi in gioco, di vincere o perdere. Ma tutte le fughe hanno un tempo limite e anche i due Zelig dell'anima dovranno fare i conti con il proprio passato, che solo diventando futuro può dare senso a quell'avventura nel nulla e nel tutto, nel vuoto dell'assenza - di identità e di responsabilità - e nel pieno della presenza - il legame fra i due diventa sempre più intimo e sincero e nell'ultimo atto d'amore non ricorrono più a travestimenti e furti di identità. La chiusa del film è un po' troppo frettolosa e didascalica per risultate convincente, e di sicuro poco credibili sono le incursioni gioiose e irresponsabili nelle vite - e nelle case - di perfetti sconosciuti, ma la malinconia di fondo - perfettamente stampata sul volto dolente di Colin Firth e nello sguardo camaleontico della Blunt e lo strisciante desiderio di trovare la propria via oltre la rassegnazione e la colpa sono autentici e colpisce la considerazione di Wallace su come sia sia sentito per tutta la vita. "Bisognerebbe sentire un'ondata" dice riferendosi a ciò che si dovrebbe provare nei confronti di un figlio - ma può valere per una moglie, o un lavoro, o la vita in generale - e invece lui, dice "Sentivo solo gocce, sempre e solo piccole gocce...". Non è da tutti avere il coraggio di ammetterlo, e di volervi porre rimedio, sia pure diventando Arthur Newman.
In Trance - di Danny Boyle con James McAvoy, Vincent Cassel, Rosario Dawson,
Danny Sapani ***
Parlare di ipnosi al cinema è sempre un rischio, non sempre calcolato. Si rischia il farsesco, si rischia il clone di altri prodotti con testimoni smemorati e psichiatri emotivamente fragili. Boyle per non correre il rischio imbastisce una trama elaborata, labirintica talvolta, in cui i personaggi, pur sorretti da un soggetto solido, non sono altrettanto ben supportati dai rivoli di sceneggiatura che soprattutto nella parte centrale del film si perde fra allucinazioni e trance, carneficine virtuali e inutili colpi di scena che di fatto non portano a nulla se non a risvegli sudati dopo l'ennesima perdita di coscienza. La trama è estremamente semplice all'apparenza, il furto di una tela di Goya da parte di una gang cui si è unito, per saldare i debiti di gioco, anche Simon, dipendente della casa d'aste dove il quadro verrà messo in vendita. Un inside job facile facile, ma Simon subisce un colpo in testa durante la rapina e perde la memoria, dimenticando dove aveva nascosto il quadro dopo il furto. Il boss Frank inizialmente non crede alla sincerità di Simon riguardo la sua amnesia, ma dopo averlo torturato e non aver ottenuto nulla, decide di farlo sottoporre all'ipnosi per stimolare i suoi ricordi e recuperare la preziosa tela. E qui tutto si complica perchè la terapista Elizabeth - la bellissima Rosario Dawson - riuscirà a complicare i già complicati percorsi mentali del povero Simon, a coinvolgere nel gioco anche Frank - un fin troppo granitico Vincent Cassel che solo in finale si concede un sorriso - e a precipitare lo spettatore in una girandola di flashback che solo in finale recuperano fascino ed originalità facendo recuperare al film una certa piacevolezza che in alcuni snodi aveva decisamente perso. Discontinuo e parzialmente divertente, estremamente curato ed elegante nei giochi di luce, di immagini sfocate, di nudi disinvolti e mai volgari, tutto sommati superiore nel progetto che nella realizzazione ha però una prima parte di grande ritmo e una rivelazione finale tutt'altro che banale, capace di aggiungere anche un pizzico di interrogativo morale e di dubbio etico sui comportamenti umani, ingessati fino a quel momento in cubicoli comportamentali fin troppo ovvi.
Una Fragile Armonia - di Yaron Zilberman con Philip Seymour Hoffman, Christopher Walken, Catherine Keener, Mark Ivanir, Imogen Poots, ****
Magnifica sinfonia - imperfetta come del resto la vita è - per quattro superbi interpreti che ci regalano un film misurato, maturo, intenso e capace di emozionare profondamente. "The Fugue" è un quartetto d'archi che si esibisce insieme da quasi venticinque anni e alla vigilia dell'inizio di una nuova stagione una notizia sconvolge l'armonia del gruppo: Peter, il più anziano dei quattro ha appena scoperto di essere affetto dal morbo di Parkinson e quindi non potrà più suonare con gli altri. La preparazione di un ultimo concerto, in parallelo con la ricerca di una nuovo violoncellista, coincide con l'esplosione di antiche tensioni, piccoli rancori e giudizi sopiti che inevitabilmente mandano in frantumi un equilibrio costruito in anni ed anni di sacrifici e rinunce. Robert avanza la richiesta di passare da secondo violino a primo, la moglie Juliette non lo ritiene adatto e nel dirlo mina la loro stessa relazione spingendo Robert a tradirla, mentre Daniel, il più riservato del quartetto, rigoroso e concentrato sulla musica, si innamora di Alexandra, figlia di Juliette e Robert, mandando in frantumi la loro antica amicizia. Inevitabilmente la malattia di Peter amplifica le inquietudini e le fragilità di personalità che hanno convissuto troppo a lungo in un microcosmo per riuscire improvvisamente a reggersi sulle proprie gambe. Le scelte finali dei quattro saranno una dichiarazione d'amore per la musica, quella musica di Beethoven che li ha nutriti, protetti e salvati in tutti quegli anni, nei momenti drammatici come in quelli felici, nell'entusiasmo della gioventù e nella disillusione della maturità. Interpretazioni magistrali da parte dei quattro protagonisti, Walken e Seymour Hoffaman su tutti, semplicemente perfetti nel mostrare con pudore, con violenza, con amore o con rinuncia i propri sentimenti, e un finale che riconcilia con un grande cinema intimistico, simbolico e profondissimo.