Novembre 2012
E se vivessimo tutti insieme? - di Stéphane Robelin con Guy Bedos, Daniel Brühl, Geraldine Chaplin, Jane Fonda ***
Mai come negli ultimi mesi abbiamo assistito, a livello cinematografico, ad un ritorno di interesse per storie che coinvolgono anziani, da "Amour" a "Marigold Hotel" a "Di nuovo in gioco" i registi mettono in campo, ognuno con il proprio calibro, protagonisti avviati verso la fine della vita. Robelin sceglie l'apparente via della leggerezza ma la pesantezza della senilità si intuisce tra le rughe dei cinque protagonisti e l'amarezza del quotidiano di fa strada anche nei salotti borghesi in cui si riuniscono allegramente gli amici di una vita, Jeanne, sposata con Albert, Annie sposata con Jean e Claude, scapolo impenitente. Le riunioni apparentemente serene nascondono fragilità e malattie: Jeanne sta morendo di cancro ma non vuole che il marito Albert lo sappia, perchè sta affrontando i primi sintomi di Alzheimer, Annie ed il marito litigano per ogni sciocchezza e Claude ha avuto un attacco di cuore. I figli vorrebbero che andassero in case di riposo, che abdicassero al loro ruolo sociale per essere affidati a degli adulti responsabili, loro al contrario non ne vogliono sapere e decidono così di andare a vivere tutti insieme, per proteggersi dalle aggressioni della vita, e dalla incombente mancanza di autonomia. A loro si unisce Dirk, uno studente tedesco che sta preparando una tesi sugli anziani, e che diventerà il confidente di Jeanne, che ad un passo dalla morte ha voglia di parlare di vita, di amore, di sesso e di tradimento, forse per esorcizzare i dolori, o per ricordare a se stessa che ha vissuto, che ha amato, che è stata altro da un corpo che si sta arrendendo. Alcuni passaggi del film lasciano il sospetto di manierismo, di una studiata partitura in cui i momenti cruciali vadano sempre stemperati da un sottile umorismo, da un grottesco confronto su storie di vecchi tradimenti, da uno sberleffo o una situazione comica - Claude che grazie al Viagra vuol passare un pomeriggio di passione ed incontra il figlio è uno dei tanti esempi - quasi che Robelin avesse paura di spingere sull'acceleratore del dramma, quasi che volesse a tutti i costi dare una ventata di allegria ad un contesto malinconico e disperato, ma il film resta comunque intonato, attento ad accompagnare con calda empatia i momenti più delicati senza mai scendere al compromesso della scena madre ricattatoria. Il personaggio di Albert è decisamente il termometro di una vita che sta scomparendo, il suo diario dove appunta - e cancella - il quotidiano che non ricorda più, il suo rispettare in silenzio la volontà di Jeanne di non curarsi più e l'apprensione con cui la cerca alla fine del film sono tra i momenti più intensi di una pellicola che vola alto quando lascia che sia la verità ad essere protagonista e segna un po' il passo nei passaggi di spensieratezza, sia pure sostenuti da un cast in stato di grazia, che diffonde naturalezza e grazia senza mai eccedere in protagonismi, lasciando che dai loro visi segnati e dal loro corpi sfioriti traspaia tutta la vitalità di chi ancora non si rassegna alla fine.
Le 5 Leggende - di Peter Ramsey e William Joyce - Animazione ***
Il mondo dell'animazione ha sempre marcato confini netti fra Bene e Male, ma mai come in questo caso la lotta è al centro della trama e va a scardinare paure ancestrali e il bisogno primario di credere in qualcuno per poter credere in noi stessi. Le cinque leggende del titolo sono i grandi protettori dei bambini, coloro che distribuiscono gioia, fantasia e sogni d'oro e sono esattamente Babbo Natale, il Coniglio Pasquale, la Fatina dei Denti - di derivazione anglosassone, che nel corso del film incontrando un topino dirà ad una delle sue aiutanti "E' del contingente europeo" dove notoriamente sono i topini a portare un soldino ai bimbi che perdono i denti - e Sandy Man che con la sua polverina dorata regala i sogni d'oro ai bambini. Sono stati nominati dall'Uomo della Luna e svolgono il loro compito con zelo, ma un pericolo incombe, Pitch Black - l'Uomo Nero - vuole distruggere i sogni dei bambini, facendo così svanire la loro capacità di credere nei miti che hanno da sempre accompagnato l'infanzia. E' per questo che l'Uomo della Luna ingaggia una quinta leggenda, Jack Frost, dispettoso folletto del ghiaccio e della neve, spirito adolescenziale alla Peter Pan e dimentico del proprio passato. All'iniziale incredulità per il ruolo che dovrà ricoprire nella lotta contro Pitch Jack reagirà prendendo sempre più coscienza della propria personalità, ritrovando i propri ricordi e lottando per restituire ai bambini di tutto il mondo la fiducia in tutti loro. Epico ed avventuroso, capace di scavare nell'inconscio emozionando e di coinvolgere nel turbine di avventure nelle scene d'azione, il film di Natale della Dreamworks riesce ad essere divertente e scanzonato pur parlando di paure da vincere, di identità da trovare, di coraggio e di fiducia, valori profondi ed eterni, come eterno è il bisogno dell'infanzia di credere nei propri eroi. Babbo Natale ha l'accento russo e le braccia tatuate, il Coniglio Pasquale assomiglia a Rambo, il surreale Sandy ha una tenerezza infinita, la Fatina sembra uscita dal regno di Avatar e Jack Frost ha l'anima inquieta di ogni adolescente, non si sono certo risparmiati gli sceneggiatori nel tratteggiare caratteri e fragilità dei miti dell'infanzia, e la vittoria finale su un Uomo Nero ormai invisibile ai bambini è figlia del coraggio di chi combatte per qualcosa in cui crede, e che ama. Magnifica la grafica e ottima la resa in 3D, ma ciò che rende "Le 5 leggende" un gioiello è il cuore pulsante e vitale dei protagonisti, il messaggio appassionato e sincero che solo affrontando e combattendo contro le proprie paure si può conoscere noi stessi e la magnifica capacità di enfasi senza retorica, di epica senza eroi stereotipati e di leggende mai così umane e contemporanee.
Di nuovo in gioco - di Robert Lorenz con Clint Eastwood, Amy Adams, John Goodman, Justine Timberlake, Chelcie Ross, Raymond Anthony Thomas, Ed Lauter **
Se il viso di Clint Eastwood non tradisse la contemporaneità del film si potrebbe pensare di star assistendo ad una pellicola di trenta, anche quaranta anni fa. L'impianto narrativo è classico, le scene si susseguono in modo lineare, la recitazione è senza sorprese e le battute sono facilmente prevedibili, ma nonostante questo la ostinata vecchiaia di Gus, talent scout di baseball che sta perdendo la vista, risulta gradevole e si lascia guardare con un sorriso empatico, quasi che il personaggio truce interpretato da Clint Eastwood sia il fratello di tanti altri rudi vegliardi conosciuti negli anni, non ultimi proprio i protagonisti delle recenti pellicole di Eastwood. Il viaggio che Gus compie per visionare un giovane talento sarà anche occasione di confronto con la figlia Mickey, cresciuta lontana dal padre con cui ha un rapporto di odio amore e soprattutto sarà motivo di sfida nei confronti dei giovani colleghi che armati di computer pensano che per valutare un giocatore basti studiare le sue statistiche. Naturalmente Mickey si innamorerà di un giovane pupillo di Gus e il giovane che sulla carta sembrava promettente si rivelerà un brocco proprio come l'esperienza di Gus aveva suggerito, e tutto finirà in gloria, ma è proprio quello che ci si aspetta da un film del genere, si sa che il protagonista dovrà soffrire ed essere messo in ridicolo per tutto il film per poi prendersi la sua rivincita finale con un paio di battute che sarebbero state bene in uno deo tanti western interpretati da Eastwood. Se non si è in cerca di un capolavoro stilistico o non si cerca l'originalità a tutti i costi "Di nuovo in gioco" ha una sua pacata piacevolezza e i duetti bisbetici fra Gus e Mickey sono sinceri e godibili, ma certo non si può negare che qualche guizzo in più, sia a livello di sceneggiatura, che di regia, che di interpretazione, avrebbe fatto fare un salto di qualità al film che rimane così piuttosto dimenticabile.
Lawless - di John Hillcoat con Tom Hardy, Gary Oldman, Jessica Chastain, Shia LaBeou, Guy Pearce, Mia Wasikowska **
Tratto dalla storia vera dei fratelli Bondurant di cui vediamo una foto d'epoca alla fine del film, la pellicola di Hillcoat, già autore di "The Road" ci porta all'epoca del proibizionismo, con una ricostruzione d'ambiente molto accurata, e un gran volare di proiettili, sangue e alcool. Forrest, Howard e Jack Bondurant, fratelli immortali secondo la leggenda della Virginia, distillano e vendono alcolici negli anni del proibizionismo e si scontrano con gli interessi di altri gangster di città ma soprattutto con gli interessi del procuratore e del suo rappresentante nella contea, l'agente Charlie Rakes - un Guy Pearce azzimato e algido quanto basta per un bel ruolo ambiguo e viscido - che gestisce i traffici leciti ed illeciti della zona. Gli scontri a fuoco si susseguono a ritmo vertiginoso, le vendette e le dichiarazioni di potere sono quanto di più "virile" si possa immaginare, ma sono due figure femminili ad imporsi, la fragile ma ribelle Bertha, figlia del pastore - la sempre deliziosa, candida e maliziosa Mia Wasikowska - di cui si innamorerà Jack, il più piccolo dei tre fratelli e Maggie, fuggita dalla città corrotta e violenta che cerca nel piccolo saloon di provincia quella pace che non è destinata ad avere - la bellissima e tormentata Jessica Chastain - che turberà l'altrettanto inquieto Forrest. La trama ha un andamento piuttosto prevedibile, le rese dei conti inevitabili e gli agguati sanguinolenti grondano liquido rosso come da copione, ma la presenza di un così bel cast fa sì che il film si segua facilmente, anche se a pochi minuti dall'inizio immaginiamo già fra chi sarà il "duello" finale. La sena familiare post proibizionismo con cui si chiude il film ha un tono vagamente ironico, quasi a sdrammatizzare la crudezza di un'epoca - e di un film - che ha lasciato sul campo centinaia di vittime in nome del dio booze.
Amour - di Michael Haneke con Emmanuelle Riva, Jean-Louis Trintignant, Isabelle Huppert, William Shimell ****
A pochi minuti dall'inizio del film Georges, il personaggio interpretato da Jean-Louis Trintignant racconta che quando era un ragazzino andò al cinema e vide un film che lo emozionò a tal punto da farlo piangere. Tanti decenni dopo confessa di non ricordare più la trama del film, ma di risentire ancora le stesse emozioni di allora. Ecco, a distanza di tempo si potrà anche dimenticare qualche dettaglio del nuovo film di Michael Haneke, Palma d'oro al Festival di Cannes - ma di sicuro rimarranno le emozioni forti, crudeli, viscerali che colpiscono durante la proiezione. Georges e Anne sono invecchiati insieme e conducono una vita tranquilla e borghese, fra un concerto e un libro da condividere. Quando Anne ha una prima ischemia transitoria il futuro dei due anziani coniugi si fa più incerto e la successiva paresi che la costringe sulla sedia a rotelle è un passaggio che i due cercano di affrontare con coraggio e forza, aiutandosi a superare i momenti di ovvio imbarazzo e dolore. Le prospettive si annullano, il corpo e le sue esigenze prendono il sopravvento e il peggiorare della malattia, unitamente alla volontà di Anne di non sopravvivere a se stessa, costringono Georges ad un atto d'amore estremo e totalizzante. La messa in scena è talmente aderente alla realtà da sembrare quasi documentaristica, ma ciò che interessa maggiormente ad Haneke è raccontare il pudore dei sentimenti, l'inadeguatezza di fronte all'orrore della malattia, il bisogno di dare un senso all'abisso che si avvicina. La figlia di Georges ed Anne, una sempre intensa Isabelle Huppert, un giorno va a visitare la madre e trova la porta della camera da letto chiusa a chiave. Ne chiede ovviamente ragione al padre e la risposata di lui è raggelante e tenerissima allo stesso tempo, perchè dopo aver raccontato alla figlia le miserie e le sofferenze fisiche e mentali che Anne subisce ogni giorno conclude con la frase "Non c'è niente da vedere in tutto questo", quasi volesse proteggere quella donna, tanto bella e tanto amata, dalla pietà e dalla compassione, sia pure della sua stessa figlia, perchè laddove non c'è più dignità non c'è più vita, e solo un grande amore può avere un'evoluzione tanto coraggiosa. Gli sguardi che i due protagonisti - magnifici per sobrietà, fragilità e potenza espressiva Trintingnant ed Emmanuelle Riva - si scambiano sono sguardi stanchi, vecchi, pieni di paura e di angoscia, ma anche di dignità e di forza, pronti a resistere, ma anche a lasciar andare. Perchè, sembra insegnarci Haneke, la vita è fatta proprio di questo, di resistere e lasciar andare, di amare e agire, di incontrarsi, amarsi e andare via insieme. Prima che sia la vita a toglierci anche l'ultimo brandello di libertà e di dignità.
End of watch - Tolleranza Zero - di David Ayer con, Jake Gyllenhaal, Michael Pena, Anna Kendrick, America Ferrera, Michael Pena, Frank Grillo, Cody Horn ***
Uno spaccato crudo e spietato della vita di due agenti di pattuglia a South Central, quartiere a dir poco problematico di Los Angeles. Raccontata così la trama del nuovo film di David Ayer sembrerebbe l'ennesimo poliziesco, ma a fare la differenza è la scelta registica di incollare la telecamera a mano ai due protagonisti, di riprenderli in azione con l'affanno che loro stessi provano, con inquadrature sporche e visioni parziali che ci fanno percepire la tensione di un quotidiano fatto di irruzioni pericolose, scoperte disturbanti ed azioni al limite del lecito. Brian Taylor e Mike Zavala sono colleghi e partners di pattuglia ma sono anche amici, si confidano le difficoltà della vita sentimentale -Taylor single all'inizio del film poi felicemente fidanzato e sposato, Zavala legatissimo alla moglie conosciuta sui banchi di scuola e alla loro numerosissima famiglia messicana - giocano fra loro e fanno scherzi ai colleghi per sdrammatizzare una vita sempre in bilico fra rischi, emozioni difficili da lasciare la sera nell'armadietto del distretto e realtà che non si possono ignorare, come la rivalità fra le band di neri e quelle di messicani che si dividono il territorio fra armi e droga. Taylor sta seguendo anche un corso di cinema e con la sua telecamera a mano riprende le azioni in cui sono coinvolti, regalando a noi le soggettive e i primi piani che caratterizzano la loro giornata. I frammenti di storie che man mano scivolano sullo schermo sono schegge impazzite di una società malata, di cui non sapremo mai la fine, quasi che il caos e il degrado siano intercambiabili, che un orrore prosegua nel successivo, anche se i protagonisti sono diversi. Seguiamo i due agenti fra le fiamme di un incendio da cui riescono salvare tre bambini, negli abissi di uno scantinato dove esseri umani vengono venduti come merce scaduta o nella scoperta macabra di cadaveri smembrati e intuiamo che il costante ricorso alla battuta o allo sberleffo è una antidoto all'orrore quotidiano cui devono assistere, spesso impotenti. La tragedia è sempre in agguato, i volti sfigurati di due colleghi testimoniano la pericolosità di un lavoro tanto ripetitivo quanto sempre in bilico sull'abisso e la scena finale, temporalmente precedente all'epilogo, è un pugno nello stomaco, diretto e feroce quanto le realtà cui Taylor e Zavale hanno assistito fino ad allora. Si può rimanere perplessi all'inizio del film dalla sequela di crimini registrata in tempo reale dalla frenetica telecamera di Taylor, ma quando la pellicola finisce si capisce che questo è uno di quei film che restano dentro, con la sua coraggiosa forza vitale che sopravvive all'orrore perennemente in agguato. Perfettamente affiatati ed in parte i due protagonisti, esaltati, inquieti, eroici e rissosi, inchiodati allo stesso destino dei criminali cui danno la caccia, un destino fatto di violenza e di paura, di vita e di morte.
Un mostro a Parigi - di Bibo Bergeron - Animazione ***
L'animazione negli ultimi decenni ha raggiunto punte di qualità elevatissime e con "Un mostro a Parigi" fa un ulteriore passo in avanti nella ricerca di uno stile ricercato e maturo. A differenza del ritmo indiavolato delle ultime produzioni Diseny o delle creature della Pixar la pellicola francese ha un andamento lineare, una trama che rimanda ad altri miti ma rimane originale e fresca e personaggi deliziosamente antichi, quasi bozzetti di un'epoca lontana che emanano un fascino parigino, elegante e raffinato, oltre che ironico e romantico. Il mostro che spaventa Parigi in realtà è una piccola pulce trasformata in un gigante da una pozione fatta cadere accidentalmente da Raul ed Emile, i due protagonisti, fattorino pasticcione Raul, timido proiezionista in un cinema Emile. La povera pulce scappa sui tetti di Parigi e viene accolta e nascosta da Lucille, sensuale cantante nel locale "L'Oiseau Rare" La pulce, con una voce melodiosa e abilissima a ballare, viene mascherata da Lucille e portata sul palco con lei, dove si esibirà in duetti scatenati. Tutto sembrerebbe risolto ma il meschino ed ambizioso prefetto Maynotte, aiutato dal fedele Paté darà la caccia al mostro, ribattezzato Francoeur da Lucille, scatenando una giravolta di situazioni rocambolesche e avventure. Francoeur scrive magnifica musica nei sotterranei del teatro come il fantasa dell'Opera, si arrampica sulla Torre Eiffell per salvarsi come King Kong e si maschera per non essere riconosciuto come Elephant Man, un concentrato di mostri poetici, malinconici e lirici come lui, trasformato suo malgrado e costretto a sopportare le angherie di tutti. Lucille con la sua grazia ancheggia sul palco, fa gli occhi dolci ad un Raul innamorato di lei quanto del suo furgone - simpaticissimo carattere infantile scanzonato ma capace di amicizia e amore sincero - ed Emile goffamente corteggia la cassiera del cinema fra una fuga ed un inseguimento, dimostrando un coraggio da eroe piccolo - solo di statura - tipico di tanta letteratura e cinema. La musica, protagonista al pari degli altri, ci racconta una Parigi malinconica ed intima, con canzoni - da gustare in originale assolutamente - di atmosfera e ritmo. La grafica estremizzata - il vitino di Lucille, il collo del prefetto, gli occhialoni della piccola cassiera - sono deliziosi particolari in un contesto di grandissima fattura, dalle scenografie ai costumi alle ricostruzioni della Chiesa del Sacre Coeur o della Torre Eiffell. Magnifiche le musiche come dicevamo, divertenti le battute, teneri i duetti romantici, insomma un gioiello di film, intenso, divertente, estremamente elegante e di grande pregio tecnico nel suo avvolgente 3D.
One Life - di Michael Gunton, Martha Holmes - Documentario ****
BBC Earth ha il grandissimo merito di averci fatto conoscere, attraverso i suoi documentari, la terra ed i suoi abitanti come mai prima nessuno aveva fatto, rivelandoci tenerezze e crudeltà del mondo animale, l'ineluttabilità di certi meccanismi naturali e la bellezza e l'intelligenza di alcune specie che hanno comportamenti sorprendenti. A monte di tutto questo una qualità di immagini che lascia senza fiato e un close up su animali selvaggi che riusciamo a conoscere nella loro quotidianità come se fossimo nella giungla sudamericana o nelle foreste del Kenia. Le specie presentate in questo magnifico documentario sono moltissime, alle prese con le lotte per la sopravvivenza, con i rituali per l'accoppiamento, con i combattimenti per la supremazia all'interno del loro gruppo. Si inizia con la nascita di una piccola foca nell'immenso deserto ghiacciato, parabola paragonabile ad un film come "The Grey" o "The essential killing" per il senso di solitudine e paura che trasmette, si prosegue con un gruppo di scimmie che vivono in Giappone in un ambiente innevato ed inospitale in cui solo i membri della stirpe reale hanno diritto ad usare una sorgente di acqua calda mentre gli altri ne sono esclusi, denuncia sociale degna di un film di Ken Loach. Assistiamo poi alla tenacia di una piccola raganella che vanamente dispone le sue uova regolarmente mangiate dai predatori ma non si arrende perchè portare a termine la sua missione è il suo unico scopo nella vita, dimostrando un'indole da Toro Scatenato e Rocky che si rialzano più forti da ogni sconfitta. Dopo aver assistito alle difficoltà di un piccolo elefante che dovrà imparare a tirarsi fuori dal fango, un Dumbo goffo in carne ed ossa, ci spostiamo in Argentina dove una comunità di formiche costruisce un palazzo sotterraneo dalle architetture così ardite che neanche Renzo Piano potrebbe concepire. L'ingegno delle piccole scimmie che in Brasile usano delle pietre per rompere le noci di cocco sembra uscita dal prologo di "2001 odissea nello spazio" e la lotta fatta di abilità e di furbizia fra un lupo e un piccolo stambecco sulle rocce d' Israele è un episodio di rara bellezza paragonabile al "La grande fuga" per la tensione fra chi bracca e chi è braccato. La resa di un elegantissimo struzzo in Africa ad un gruppo di tre ghepardi è crudele quanto un documentario sull'apartheid, mentre i varani di Komodo che avvelenano il bufalo, lo accerchiano e attendono la sua fine provoca un brivido di raccapriccio e fa pensare al Giulio Cesare di Shakespeare in cui i congiurati accerchiano Cesare prima di finirlo. La fuga al rallentatore di un piccolo roditore in Kenia è adrenalinica quanto quella di un inseguimento di Bond o Bourne, mentre la lucertola che quasi cammina sull'acqua in Belize e i pesci volanti ricordano le acrobazie inventate da Walt Disney in Fantasia e quando conosciamo la grande piovra rossa del Canada che depone le sue uova e aspetta che si schiudano lasciandosi morire per proteggerle ci troviamo di fronte ad uno dei capolavori di Douglas Sirk. La danza d'amore delle anatre dell'Oregon ha un'eleganza degna delle coreografie di West Side Story e la insensibilità del cervo volante del Cile che dopo essersi accoppiato con la sua compagna la spinge brutalmente giù dall'albero strappa un sorriso come una scena pulp del miglior Tarantino. Il finale è dedicato al parto di una gigantesco capodoglio a Tonga e ci riporta all'inizio del film consolidando l'idea che la vita inizia con una nascita e che l'avventura che con quella nascita prende il via è piena di magia, mistero e bellezza. Un documentario bello ed emozionante come solo la realtà sa essere, anche se a guardarla sul grande schermo sembra di assistere ad un magnifico film.
Il matrimonio che vorrei - di David Frankel, con Meryl Streep, Tommy Lee Jones,
Steve Carell, Elisabeth Shue, Jean Smart **
Dichiaratamente over cinquanta. Over cinquanta la coppia di protagonisti e over cinquanta gli spettatori cui il film si rivolge, perchè le tematiche sono quelle che appartengono solo a chi ha condiviso lustri e lustri insieme, innamorandosi, abituandosi uno all'altra, adagiandosi alla routine a scoprendo alla fine di voler ritrovare quella scintilla dei primi tempi che la quotidianità ha appannato. Ed è quel che succede a Key, sposata da trent'anni con Arnold e ancora innamorata di lui, ma frustrata e amareggiata dalla freddezza del marito, che dorme in un'altra camera, la bacia distrattamente al mattino e si addormenta davanti alla tv la sera. I tentativi di seduzione finiscono miseramente di fronte alla sguardo attonito di lui e allora la soluzione - in un'America dipendente dalla terapia come ben ci ha insegnato Allen negli anni - è quella di rivolgersi ad un sessuologo di fama, che tiene dei corsi settimanali per ravvivare l'ardore in coppie in crisi o semplicemente spente. L'entusiasmo con cui Arnold accoglie la proposta di Key fa capire che lui di quella presunta crisi non le aveva la minima coscienza, ma segue brontolando la moglie per farla contenta. Le sedute con il professor Feld - uno Steve Carell misuratissimo al limite dell'algido - iniziano freddamente, con una timida Key pronta a confessare fantasie e un coriaceo Arnold pronto a scappar via. Man mano che il film procede scopriamo tante piccole verità taciute, incomprensioni, desideri frustrati e sentimenti sopiti, ma anche la volontà da parte di entrambi, consapevole e propositiva quella di Key, quasi inaspettata e goffa quella d Arnold, di recuperare un'affettività perduta e il finale in riva al mare - una delle fantasie di Key - celebra la ritrovata armonia. Dire che il film è lo spaccato di ogni coppia che sta insieme da anni sarebbe esagerato, il pudore esasperato con cui i due coniugi si rapportano è quanto meno atipico, l'imbarazzo nello sfiorarsi o il bussare ad una porta prima di entrare sembrano sintomi più gravi di quelli di un semplice affievolimento della passione, ma certi battibecchi e certi confronti hanno un cuore sincero e la presenza dello psicanalista serve a dar loro il coraggio di confessare ciò che hanno difficoltà ad ammettere, anche se l'imbarazzo nell'affrontare certe tematiche sarebbe stato più adeguato con persone di un paio di generazioni precedenti piuttosto che due sessantenni cresciuti con il '68 ed il femminismo che sembrano usciti da un manuale di puro puritanesimo. Ciò che salva il film dal mero clichè sono le interpretazioni di Meryl Streep e di Tommy Lee Jones, passiva aggressiva lei sotto una patina di dolce lamentazione - che il doppiaggio italiano esaspera nei toni del tremulo - e coriaceo al limite del comico lui, improbabile protagonista di una romantic comedy ed invece irresistibile nel ruolo di corteggiatore "armato" di un mazzo di fiori. Un film tutto sommato profondo nei temi e simpatico nello sviluppo, ma un po' troppo stereotipato nel procedere e un po' troppo ruffiano nel concludere.
Paris-Manhattan - di Sophie Lellouche con Alice Taglioni, Patrick Bruel, Marine Delterme, Louis-Do de Lencquesaing, Woody Allen **
Ricordate sicuramente Woody Allen confidarsi con Humphrey Bogart nel suo "Provaci ancora Sam" alla ricerca di consigli e conforto per la sua vita sentimentale disastrosa. Trent'anni dopo è lo stesso Woody in versione poster ad essere il nume tutelare di Alice, farmacista romantica ed idealista che nonostante gli sforzi della sua famiglia per trovarle un marito è ancora single nonostante sia arrivata ormai ai trenta. I fallimenti non la fanno arretrare dal suo ottimismo però, e i suoi monologhi con il vecchio saggio Woody le tengono compagnia nelle serate solitarie. Quando ad una cena di famiglia conosce Victor, un uomo talmente diverso da lei da non aver mai visto neanche un film di Woody Allen, inizia una serie di incontri fatti di confidenze, battute sarcastiche, baruffe e complicità. Ci vorranno avventure rocambolesche - un'incursione notturna a casa della sorella e del cognato alla scoperta del tradimento di lui - una rapina finita in modo totalmente surreale con Alice che regala dei DVD di Allen al rapinatore per "guarirlo", come del resto fa con tutti i suoi clienti, convinta che la terapia del sorriso sia più efficace dei medicinali che lei stessa vende - per farli avvicinare ed innamorare. Il lieto fine, benedetto dal regista newyorkese in persona, è grandemente previsto ma gradevole, come tutto il film del resto, garbato e delicato. Niente di originale e nessun guizzo registico o interpretativo intendiamoci, anche se i protagonisti sono simpaticamente affiatati ed i comprimari effervescenti e stravaganti mentre la trama, sufficientemente surreale, scorre morbida e fluida seguendo i dettami della commedia romantica francese. Un film che non lascia segni indelebili quindi, ma che declina con grazia sentimenti universali e che regala un delizioso cameo ad un Woody Allen sornione cupido di cuori pronti a sbocciare.
Hotel Transylvania - di Genndy Tartakovsky - Animazione
Semplicemente delizioso. E semplicemente va inteso nel senso più letterale del termine, perchè la semplicità in questo caso è portatrice sana di divertimento, emozione, trovate visive e battute. E perchè con una trama tanto originale quanto attenta a seguire le regole classiche dell'animazione la pellicola di Tartakovsky riesce nell'intento di farci partecipare ad un party decisamente sui generis e a farci divertire con i partecipanti. Siamo in Transilvania e il Conte Dracula si prepara a festeggiare un evento davvero importante, il 118 compleanno della figlia Mavis, che raggiungerà così la maggiore età. Come tutti gli adolescenti Mavis vorrebbe viaggiare, vedere il mondo e conoscere i famigerati umani, ma il papà, dopo che un incendio appiccato dai contadini per annientare i vampiri aveva ucciso la moglie a distrutto il loro castello ha fatto costruire una fortezza inespugnabile da cui Mavis non è mai uscita. Negli anni il luogo è diventato un albergo che dà rifugio a tutti mostri del pianeta e così in occasione del compleanno vediamo arrivare Frankenstein, l'Uomo Invisibile, una famiglia di Lupi Mannari, Quasimodo e tanti altri. Tutto sembra andare come papà Dracula ha programmato, ma improvvisamente arriva al castello un vero umano, Jonathan, in viaggio attraverso l'Europa. Orrore iniziale, paura di essere aggredito, tentativo di farlo passare per Johhnystein, cugino di Frankie pur di non far interessare la piccola Mavis al "diverso", ma tutto si rivelerà vano, quando lo sguardo dei due giovani si incontra è amore a prima vista e da lì in poi la festa diventerà molto diversa da quello che tutti si aspettavano. Personaggi esilaranti, mostri teneri e spaventati dagli umani intolleranti e crudeli, dicerie sui vampiri inesatte che mandano su tutte le furie Dracula - imperdibile il disgusto di fronte ad uno spezzone di "Twilight" - e una infinita serie di situazioni rocambolesche e buffe che porteranno ad un finale conciliatorio come da copione ma non privo di un messaggio importante che stolloninea che solo riuscendo a superare la diffidenza verso chi è diverso da noi possiamo superare pregiudizi e paure e raggiungere la felicità. Il Festival dei Mostri in cui si imbattono Dracula e soci alla ricerca di Jonathan si rivela un luogo magico in cui i mostri sono acclamati ed amati, e la commozione che suscita in chi da sempre è stato emarginato ed avversato è toccante e sincera e per un attimo ci dimentichiamo di star assistendo ad un cartone animato. Pregio non da poco per un film che sa strappare risate come intenerire con personaggi già entrati nel nostro cuore. Aspettiamo il seguito!
Argo - di Ben Affleck con Bryan Cranston, Ben Affleck, John Goodman, Alan Arkin, Michael Cassidy, Taylor Schilling ***
Solido film d'azione, perfetta ricostruzione di un'epoca, intensa denuncia storica. Argo è un concentrato dei migliori stilemi di questi generi, e anche di molti altri, perchè non manca la suspence nei momenti topici, non manca la battuta ad effetto dei fool shakesperiani resi magistralmente da due gigioni come John Goodman e Alan Arkin, non manca l'emozione liberatoria nel classico finale da "arrivano i nostri" - poco conta che non siano eserciti a cavallo a salvare i protagonisti ma una prenotazione aerea - resta la sensazione di film saldamente ancorato a quel classico impianto narrativo che da sempre sorregge i migliori film statunitensi che raccontano con orgoglio la loro capacità operativa. L'azione si svolge in Iran, 1979, subito dopo la fuga dello Scia Pahlavi negli Stati Uniti. Khomeyni sale al potere, la popolazione insorge e prende d'assalto l'ambasciata statunitense a Teheran sequestrando più di sessanta persone fra impiegati ed ospiti. Solo sei diplomatici riusciranno a fuggire e a rifugiarsi temporaneamente a casa dell'ambasciatore canadese. Come riportarli a casa è la domanda che tormenta ministri e statisti, finchè non si decide di coinvolgere la Cia e in particolare l'agente Tony Mendez, esperto di situazioni critiche. L'idea che Mendez proporrà agli scettici politici è tanto strampalata che finisce per essere accettata: inventare la realizzazione di un film di fantascienza - Argo appunto - per giustificare l'entrata e soprattutto l'uscita di cittadini occidentali da Teheran. Un regista disincantato e un Premio Oscar per gli effetti speciali saranno il trait d'union fra Hollywood e la Cia per rendere l'idea più credibile possibile. Mendez va a Teheran, fa imparare ai sei diplomatici le parti che dovranno interpretare - registi, produttori, locations manager e operatori di ripresa che non sanno neanche tenere in mano un esposimetro - e in un crescendo di colpi di scena e di tensione degni di un thriller riuscirà a far rientrare i sei in patria, salvo dover restituire la medaglia al valore che gli verrà assegnata perchè l'operazione verrà secretata e gli Stati Uniti non figureranno come partecipanti all'azione, lasciando che siano i canadesi a prendersi tutto il merito, per non rischiare di mettere in pericolo i rimanenti ostaggi che verranno rilasciati solo dopo 444 giorni di prigionia. Sarà solo con la presidenza Clnton che i fatti verranno resi noti a livello inernazionale. Storia più cinematografica non si poteva trovare per costruire un film che raccontasse la storia ma anche il cinema, che svelasse gli intrighi politici ma anche la passione degli uomini che agiscono nel silenzio e nel buio dello spionaggio, che facesse spettacolo con personaggi quasi surreali per l'entusiasmo con cui partecipano ad un'azione del genere come se fosse un gioco - o un vero film . Attori perfettamente in parte, con Ben Affleck nel doppio ruolo di regista ed attore che regala al suo Tony Mendez una misura e un sangue freddo che non nascondono le emozioni, i dubbi e le passioni che lo agitano e sa dirigere con mano ferma il resto del cast costruendo una girandola di azioni ed emozioni degne di un regista di esperienza ben superiore alla sua. Un film vecchio stile si potrebbe dire, capace di coniugare lo spettacolo con l'impegno, la tensione con la riflessione, l'attenzione alla storia con la cura dei personaggi.
Ballata dell'odio e dell'amore - di Álex De la Iglesia con Santiago Segura, Antonio de la Torre, Sancho Gracia, Carlos Areces ***
Grottesco, inquietante, metaforico. E' racchiuso in questi aggettivi, e nelle atmosfere che ne scaturiscono il film di Alex De la Iglesia, Leone d'Oro per la Regia e Premio per la Miglior Sceneggiatura al Festival di Venezia 2010. Perennemente in bilico fra capolavoro e improbabile grand guignol, fra sarcastica metafora politica e disturbato melò sentimentale ci presenta una galleria di personaggi estremi, incandescenti,torbidi e sfuggenti ad ogni regola sociale. L'antefatto si svolge nel 1937, durante la guerra civile spagnola, quando due pagliacci vengono catturati dal'esercito franchista e costretti a combattere. L'immagine del clown, vestito e truccato per lo spettacolo, che uccide a colpi di macete è quanto di più grottesco si possa immaginare, e dà il tono al film , che non vuole solo narrare l'orrore della guerra, del franchismo e del clima sociale che seguì l'ascesa del Caudillo, vuole anche spiazzare nella narrazione, seguendo le vicissitudini di Javier, il figlio di uno dei due clown che, bambino triste dopo aver visto il padre catturato ed ucciso durante un'azione da lui provocata per vendicarsi del generale che lo aveva incarcerato, tenterà di trovare la felicità seguendo le orme del padre, diventando clown a sua volta, ma un clown triste, perchè uno col suo passato non può far ridere. Il circo che lo ingaggia è un campionario di personaggi strambi, come si addice ai freaks di ogni circo, ma il pagliaccio allegro, Sergio, sfiora comportamenti da sociopatico, aggredisce la sua compagna, l'acrobata Natalia, incute terrore agli altri artisti, tiranneggia il proprietario. Javier, timido, goffo e solitario, commette l'errore di innamorarsi di Natalia, dando il via ad una serie di escalation di violenza, sangue, vendette e ritorsioni, private e politiche perchè Javier avrà modo di rincontrare il generale che aveva catturato il padre, e tutto il dolore riesploderà con conseguenze devastanti. La storia d'amore a tre, con Natalia perennemente ambigua, attratta da Sergio nonostante la sua malvagità ma bisognosa del gentile Javier per sentirsi rassicurata, è fin dalle prime scene foriera di tragedie e di dolore, ma la trasformazione che compiono i due pagliacci - trasformazione anche fisica, auto inflitta quella di uno Javier ormai fuori controllo che si deturpa il viso per farlo somigliare ad una maschera tragica, provocata quella di Sergio, che verrà sfigurato da Javier come punizione per aver ancora una volta abusato di Natalia - è una metafora pesante di come un'anima corrotta dal dolore e dall'odio sia deviata per sempre, incancrenita in un sentimento folle e primitivo che nulla ha più di umano. Ci sono lunghe scene forti, disturbanti, e proprio per questo potenti e definitive, ci sono momenti poetici e lirici, malinconici oltre ogni dire - Javier che al cinema assiste all'esecuzione della canzone "Balada triste de trompeta" (titolo originale del film) - che restituiscono al clown folle la sua dolente consapevolezza, ci sono battute tristemente ironiche che ricordano come non ci sia speranza per un paese dove la pazzia dilaga, e ci sono scelte registiche di grandissima eleganza e suggestione visiva - la fascia rossa di seta con cui Natalia si esibisce che in finale, trascinata in terra, diventa metaforica scia di sangue di un paese, di un popolo, e di un individuo, segnati da un destino crudele che solo l'arte può rappresentare affidandosi a due clown, maschere per eccellenza, che per amore e per odio mettono in scena la più crudele delle recite. Film denuncia, film poetico, film talvolta eccessivo e talvolta sbilanciato, ma sempre visivamente originale e di grande impatto emotivo, con un coraggio figurativo non comune, e una scena finale in cui riso e pianto si confondono su volti che niente più hanno di umano, una scena che difficilmente si dimentica.
Red lights - di Rodrigo Cortés con Sigourney Weaver, Robert De Niro, Cillian Murphy, Elizabeth Olsen **
Un cast composto da Robert De Niro e Sigourney Weaver vent'anni fa avrebbe fatto venire i brividi di eccitazione ai cinefili, oggi fa rabbrividire per i rischi di essere di fronte all'ennesima accoppiata virtuale che si scioglie come neve al sole nel giro di pochi minuti. Se poi aggiungiamo che i due non hanno neanche una scena insieme, che la Weaver esce dal film dopo circa cinquanta minuti e che De Niro fa il De Niro degli ultimi anni il film anche se ha alcune carte valide da giocare, risulta un po' schizofrenico e un po' sbilenco. Margaret Matheson è una psicologa che insieme al suo assistente Tom Buckley dà la caccia ai finti sensitivi per smascherarli. Simon Silver è un famosissimo medium guaritore cieco che dopo trent'anni di esilio volontario torna per una serie di esibizioni. Lo scontro fra i due si svolge sempre a distanza, con colpi di scena talvolta prevedibili, talvolta ben organizzati. La prima parte del film è decisamente superiore alla fase centrale, confusa e un po' pasticciata, in cui non si sa bene se la strada che Cortés vuole percorrere è quella del paranormale o del thriller psicologico. Il finale riserva qualche scintilla di originalità ma sicuramente non è sufficiente a inserire la nuova pellicola dell'autore di "Buried" tra i film di fascino stilistico o di suggestione psicologica. La Weaver fa il suo onesto mestiere, e i suoi tormenti di madre sono sinceramente toccanti, Murphy interpreta il tormentato Buckley rimanendo però troppo in superficie quando il personaggio avrebbe potuto, soprattutto alla luce delle rivelazioni finali, esprimere inquietudini più scenografiche e disturbanti mentre De Niro recita quasi tutto il film con gli occhiali neri e non imprime al suo Simon quel carisma e quel fascino torbido che di solito i sensitivi hanno, ma la sua voce, nella versione originale, nella scena finale all'interno del teatro, per un attimo torna nel vigore e nella potenza quella del grande attore che abbiamo conosciuto decenni fa, e che ancora rimpiangiamo. Con qualche scena banale in meno - la lotta furiosa nel bagno dai fragilissimi sanitari su tutte - e qualche coraggiosa svolta registica in più si poteva raggiungere un risultato più originale perchè l'impianto narrativo di fondo è nel complesso salvabile, ma tant'è, forse l'apatia del grande Bob ha contagiato tutta la troupe e scena dopo scena si sono adagiati su un binario vagamente stereotipato fino all'apoteosi apocalittica finale.
La collina dei papaveri - di Goro Miyazaki - Animazione - Giappone - 2011 - Uscita in Italia 6 Novembre 2012
Seconda regia del figlio del grande Hayao Miyazaki - che ci mette lo zampino nella sceneggiatura - "Dalla collina dei papaveri" è un delicato e poetico affresco sul valore della memoria, dei ricordi e del passato, permeato di sentimenti sinceri e profondi, malinconico e solare ad un tempo, capace di trasportarci come sempre nel mondo magico della Ghibli dove la poesia si fa arte e il sogno realtà. Ambientato in Giappone nel 1963, alla vigilia delle Olimpiadi ma con ancora negli occhi e nel cuore gli orrori e le ferite della guerra, si concentra sulle vicende di un gruppo di liceali che hanno a cuore la ristrutturazione del "Quartier latin" la casa degli studenti sede delle varie associazioni studentesche, e che si scontrano con chi vorrebbe invece demolirla e ricostruirla nuova, mandando perduto il patrimonio di documenti, ricordi e affetti di chi li ha preceduti negli anni. All'interno della comunità studentesca si incrociano le strade e i sentimenti di Umi Matsuzaki e Shun Kazama che scopriranno di avere un legame profondo alle loro spalle, un legame che li porta a conoscere verità lontane sui loro genitori, ormai morti in guerra e a comprendere a fondo il valore di ciò che ci si lascia alle spalle. La lievità con cui i Miyazaki affrontano tematiche dolorose e spinose è pari solo alla loro capacità di veicolare messaggi eterni ed inviolabili con "educazione" orientale, pacata ed ossequiosa ma profondamente ferma nel condannare l'involgarimento della cultura, dell'onore, del rispetto. I ragazzi che credono fermamente nel loro progetto, che combattono per esso e che nonostante il loro essere proiettati nel futuro non dimenticano il passato - Umi che ogni mattina innalza le bandiere nautiche in onore del padre morto durante la guerra di Korea ne è la testimonianza più toccante - sono la speranza di allora come di oggi per andare verso un futuro che abbia memoria di sè, della propria famiglia, del proprio paese, degli errori e delle vittorie, dei sacrifici e delle conquiste. Grafica nello stile Ghibli, morbida, pastellata ed estremamente avvolgente al pari di un calda coperta, come quella che avvolge le lacrime di Umi, ragazza coraggiosa e fiera, che va verso il domani con il cuore colmo di ricordi, bagaglio indispensabile per non disperdere il patrimonio di chi ci ha preceduto. Come dimostra di voler fare Miyazaki junior restando nel solco familiare con discrezione ed eleganza.
Skyfall - di Sam Mendes con Daniel Craig, Judi Dench, Ralph Fiennes, Javier Bardem ***
Difficile per i fans di James Bond non rimanere spiazzati dal nuovo ruolo dell'eroe britannico che in apertura di film viene colpito dalle pallottole di una collega, perde il prezioso dischetto che potrebbe salvare degli agenti infiltrati del MI6 e viene addirittura dichiarato morto (non una primizia a ben vedere visto che in "Si vive solo due volte" di Bond si celebrava addirittura il funerale in mare, anche se lì era una morte concordata e quindi solo scenografica). Il suo riapparire non stupisce, ma il suo aspetto dimesso, dolente, forse stanco delle storture del mondo è lontano anni luce dall'elegante ed ironico Bond cui diede vita Sean Connery esattamente cinquant'anni fa. E' un difetto questo? un peccato di lesa maestà da parte di Sam Mendes, o piuttosto un bisogno di rendere più umano e quindi più credibile un agente che nella realtà contemporanea risulterebbe quasi macchiettistico se lasciato al suo destino di eterno vincente. Naturalmente l'impianto narrativo rimane quello classico, con scena iniziale al fulmicotone, con un cattivo cattivissimo di grande fascino, Silva - un Javier Bardem biondo ed effeminato - una M apparentemente rigida e un Q nuovo di zecca ma sempre pronto a fornire gingilli geniali, ma ciò che cambia è la percezione che noi abbiamo di Bond, che scopriamo dipendente da droga e alcool, incapace di superare il test fisico e psichico per il reintegro in servizio, eppur mandato allo sbaraglio per necessità superiori. Ma è proprio in questo quadro un po' desolato che il vecchio agente ha un guizzo d'orgoglio e mette in campo tutte le sue abilità, e tutta l'umanità che ne ha fatto il mito che è. Di sicuro fa bene Mendes a non ignorare ciò che la saga di Bourne ha insegnato, e cioè che gli agenti segreti non sono dei terminator tutti muscoli e niente sentimenti, ma altrettanto bene ha fatto a dare a Bond, James Bond, il re di tutti gli agenti segreti una chance per sconfiggere la decadenza, la vecchiaia, la sensazione di essere fuori dai giochi. Stilisticamente impeccabile e attento a non tralasciare la giusta dose di scene d'azione e di glamour ha però un passo in più, ascoltare per credere il discorso di M a superiori e politici quando confessa, citando Tennyson (M che cita Tennyson, ve lo immaginate nei leggiadri film Anni Sessanta?) che "Noi non siamo più ora la forza che nei giorni lontani muoveva la Terra e il cielo, noi siamo ciò che siamo... infiacchiti dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà di combattere e cercare, trovare e non cedere mai..." mentre sullo sfondo corrono le immagini di Bond che cerca di impedire una carneficina, e fallendo almeno all'inizio, altro coraggioso distacco dall'eroe che tutto può e tutto risolve. Un Bond nuovo quindi, ma decisamente più vicino ad un modello di uomo moderno, fatto di dubbi, dipendenze e fallimenti, e per questo capace di rinascere dalle proprie ceneri. E di tornare al volante della mitica Aston Martin DB5 guidata niente meno che nei terreni di famiglia dove Bond ed M si rifugiano in attesa dell'attacco finale di Silva e dove scopriamo il passato tragico del piccolo James e conosciamo il vecchio guardacaccia di famiglia che si permette di trattare il grande 007 come un moccioso incapace di sparare (risate assicurate). Un paio di annotazioni finali: lo spazio riservato alle Bond girls e alle loro scene di seduzione è decisamente ridotto rispetto al passato, il che alza ulteriormente il livello di maturità del film e Silva, il villain di turno, questa volta è un collega di Bond, un ex agente tradito che vuole vendetta, metafora ulteriore di un mondo dove la minaccia è sempre più spesso annidata all'interno di noi stessi.