Maggio 2012
La Fuga di Martha - di T. Sean Durkin con Hugh Dancy, Elizabeth Olsen, Sarah Paulson, John Hawkes ***
Premiato al Sudance Festival, da sempre garanzia di qualità, la pellicola di Durkin ci catapulta nell'abisso delle sette in un racconto pieno di mistero e di dolore. La giovane Martha non ha più dato notizie alla famiglia da due anni quando una mattina improvvisamente chiama la sorella e la prega di andarla a prendere. E' sperduta, senza soldi nè valigie, e non vuole raccontare nulla. La sorella la porta con sè in Connecticut dove sta trascorrendo le vacanze con il marito sperando di recuperare i rapporti e capire cosa sia successo, ma le stranezze di Martha e i suoi improvvisi sbalzi d'umore le fanno capire che il trauma subito dalla ragazza è di quelli troppo profondi per essere risolti fra le mura domestiche. E infatti attraverso una serie di flashback scopriremo che Martha, nei due anni in cui è scomparsa, ha vissuto in una fattoria dove un padre padrone ha plagiato tutti alla sua volontà. L'originalità del film sta nel presentare la figura del santone come assolutamente banale e priva di qualsivoglia carisma, cosa che rende ancora più inspiegabile la sua capacità di farsi obbedire in tutto e per tutto trasformando degli esseri umani in fragili appendici della sua volontà. E che ci dice molto sulle creature deboli, perdute e incapaci di trovare una propria strada, ci racconta della solitudine che le spinge ad accettare anche le crudeltà più estreme pur di ricevere in cambio una parvenza di affetto. E' un film che rovescia il punto di vista che di solito si focalizza su chi fonda e comanda nelle sette, scegliendo intelligentemente di parlare dei bisogni e delle paure più che del potere di coercizione, della voglia di essere accettati più che del delirio di onnipotenza. Un film che parla più del cedere che del convincere. Perchè in fondo tutto ciò che Martha chiede è di essere amata e in nome di quell'amore è disposta anche a rinnegare se stessa ed il proprio nome, e non solo metaforicamente, visto che all'interno della comunità le verrà imposto un nuovo nome. Interpreti misurati, lontani a certi eccessi espressivi che si attribuiscono spesso a chi vive un disagio psichico e un'atmosfera tesa e inquietante che accompagna ogni svolta narrativa, fino ad un finale che sconcerta e spiazza ancora una volta.
Molto forte, incredibilmente vicino - di Stephen Daldry con Sandra Bullock,
Max Von Sydow, Tom Hanks, John Goodman, Thomas Horn ***
Certe ferite, umane e sociali, difficilmente trovano, se non a distanza di molti anni, la giusta dimensione letteraria o cinematografica, ma "Molto forte, incredibilmente vicino" , tratto dal libro di Jonathan Safran Foer affronta la tragedia dell'11 settembre rimanendole tangente, senza mai intersecarla, e affidandola allo sguardo sperduto, adulto, dolente e inquietante nella sua genuinità, di un adolescente, e nel farlo la rende più poetica e più cruda allo stesso tempo, forse perchè gli occhi dell'infanzia sono sempre i più sinceri e i più schietti. Oskar è un bambino pieno di fobie, con marcati segni di manie ossessive compulsive, autolesionista, forse borderline alla Sindrome di Asperger, ma ha un rapporto privilegiato con il padre, che lo incoraggia, stimola la sua mente geniale, lo coinvolge in continue cacce al tesoro - su tutte la ricerca di un fantomatico sesto distretto di New York, scomparso chissà dove chissà quando - lo aiuta a vivere quindi, a dare un senso ad un mondo che Oskar misura in parametri matematici e statistici ma fatica a comprendere intuitivamente. Quando la tragedia delle Torri Gemelle lo lascia orfano di quel padre attento, premuroso e generoso - un Tom Hanks presente in poche scene ma capace di restituire tutto l'amore per un figlio problematico - con una madre apparentemente resa apatica dalla tragedia, Oskar si sente perduto, ma il giorno in cui trova una busta in una giacca del padre, e dentro la busta una chiave, e sopra la busta scritta la parola "Black" si convince che questo sia l'ennesimo messaggio del suo adorato papà, che sia un indizio lasciato proprio per lui, per condurlo a chissà quale altro tesoro. E così va alla ricerca di tutti i Black di New York, armato solo del suo tamburello, il cui suono lo rassicura e lo calma, e di un coraggio che non sa neanche lui di avere. Un misterioso vecchio (misterioso solo per pochi giorni) che non parla lo accompagnerà in alcuni dei suoi pellegrinaggi e il rapporto fra i due regalerà ad Oskar un'inaspettata amicizia. Un film intenso, sorprendente, con un giovane protagonista, Thomas Horn, in assoluto stato di grazia, misurato, composto, mai attore-bambino, che ci conduce nei meandri del dolore senza mai ricatti sentimentali o scarti compassionevoli. Il pellegrinaggio di Oskar è chiaramente il suo unico, e ultimo, tentativo di rimanere in contatto con quel padre salvifico che non può abbandonare, non fin quando non avrà trovato dentro il suo giovane cuore la forza di accettare l'insensatezza della vita, tanto più difficile per chi come lui, ha una mente razionale ed analitica. Il rapporto con la madre è magnificamente risolto con poche scene, confronti anche crudeli nella loro asciuttezza, e poi pieni di un amore inespresso quando una Sandra Bullock lontanissima dalle smorfie cui troppo spesso ci ha abituato e perciò attrice solida ed espressiva, rivela al figlio di essere a conoscenza della sua ricerca, e anzi, di averla preparata andando a parlare con i vari Black, pregandoli di essere gentili con quel bambino che di lì a qualche giorno avrebbe bussato alle loro porte con una chiave in mano. Difficilmente le tragedie contemporanee sanno far da sfondo a vicende intime e toccanti, ma fortunatamente ci sono ancora pellicole capaci di emozionare sinceramente, e di regalare alcune scene vibranti nella loro asciuttezza, molto forti, e incredibilmente vicine al nostro sentire. Se il sole esplodesse, dice Oskar, noi ce ne accorgeremmo solo dopo otto minuti, tanto è il tempo che impiega la velocità della luce ad arrivare fino alla terra, e otto minuti in più con suo padre sono quelli che questo bambino coraggioso, che ha paura perfino di andare in altalena, riesce ad inventare affrontando tutte le sue più nascoste paure, prima fra tutte quella di crescere da solo. Salvo scoprire che dall'altalena si può, non solo cadere, ma anche spiccare un salto e volare verso la vita. Due nomination all'Oscar, miglior film e miglior attore non protagonista, Max Von Sydow, mai tanto espressivo come in questa parte di un uomo che dopo le tragedie della Seconda Guerra Mondiale in Germania ha smesso di parlare.
Il Pescatore di Sogni - di Lasse Hallström con Kristin Scott Thomas, Ewan McGregor, Emily Blunt, Rachael Stirling **
Lasse Hallstrom , fin dal suo debutto con "La mia vita a quattro zampe" ci ha abituato ad un registro leggero e acquarellato, che nasconde tuttavia sacche di stagnante infelicità e amarezze irrisolte. E anche stavolta la favola lieve, vagamente surreale e a tratti onirica del "Pescatore di Sogni", nasconde un'inquietudine dei personaggi e una metafora del mondo moderno che traspaiono in più occasioni. Lo scienziato Alfred Jones, esperto di pesca e impiegato del Ministero dell'Agricoltura, riceve una proposta al limite del folle: esportare la pesca al salmone niente meno che nello Yemen. La proposta viene da un principe yemenita disposto ad impiegare cinquanta milioni di sterline pur di realizzare il suo sogno, e gli viene commissionata da Herriet
Chetwode-Talbot, nome impronunciabile ed entusiasmo da vendere. Ovviamente la reazione di Jones, un professore ingessato tendente all'autistico tanto è il suo distacco dagli umani entusiasmi (ha lo stesso - scarso - slancio emotivo sia nel fare l'amore con la moglie che nel suonare il violino nell'orchestra di cui entrambi fanno parte) è totalmente negativa, ma ci penserà una vulcanica, cinica e pragmatica responsabile delle pubbliche relazioni del Primo Ministro Britannico, alla ricerca di qualche notizia "leggera" dal Medio Oriente per contrastare la notizia delll'uccisione dei soldati inglesi in Afghanistan, a motivarlo. Inutile dire che le disavventure saranno molteplici, ma che alla fine i salmoni - di allevamento, e quindi docili e non abituati a risalire il fiume - salteranno felici anche nello Yemen superando perplessità, attentati di integralisti musulmani e ogni altra avversità. E così farà Jones, che imparerà a risalire il suo fiume, quel fiume della vita che aveva percorso fino ad allora fin troppo stancamente, trovando il coraggio di lasciare la moglie per unirsi alla "eccessiva" - parole sue, Herriet, capace di slanci, entusiasmi e scenate che inizialmente turbano l'impassibile Jones ma che poi finiscono per conquistarlo. Tutto questo affidato alla vena espressiva di Ewan Mc Gregor, sornione e trattenuto nella prima parte, sorriso contagioso e pieno di fiducia nel futuro alla fine, agli occhioni di Emily Blunt, perfetta contraltare alla algida moglie di Jones, e alle battute fulminanti di una Kristine Scott Thomas in stato di grazia, divertente e caustica, feroce nei confronti del Primo Ministro e sicuramente personaggio più riuscito del film. Che non decolla a vertici di originalità registica o stilistica, ma neanche vola basso, perchè è vero che talvolta risulta un po' stereotipato e didascalico nel rappresentare i caratteri e soprattutto il mondo arabo, ma ha una grazia tutta sua nel portare avanti la trama, nel farci credere all'evoluzione del professor Jones (dopo Indy un altro professor Jones alla conquista del mondo!) da timido e frustrato impiegato del Ministero a visionario e sognatore, capace di rivoluzionare la propria vita una volta scopertosi capace di farlo, e di farci divertire con la satira pungente del mondo mediatico che gira intorno alla politica, alla società, a tutto. La figura dello sceicco resta purtroppo sullo sfondo, ma a ben vedere è lui, con le sue idee innovatrici, il motore del cambiamento, e l'idea che, se si crede fortemente in qualcosa, si può con tenacia e un pizzico di incoscienza realizzarla, non è certo nuova, ma fa sempre piacere vederla avverarsi.
Dark Shadows -
di Tim Burton con Johnny Depp, Michele Pfiffer, Chloe Moretz,
Helena Bonham Carter, Eva Green **
Non stupisce che Tim Burton e Johnny Depp per il loro nuovo duetto abbiano scelto di adattare per il cinema Dark Shadows,la serie televisiva cult degli anni '70, poco nota in Italia ma con un nutrito gruppo di fedelissimi negli Usa, perchè ha in sè tutti gli elementi cari al cinema di Burton e del suo interprete preferito, e cioè l'ambientazione dark, i personaggi decisamente stravaganti, le situazioni grottesche e surreali. La vicenda inizia nel Maine nel 1700 quando Barnabas Collins, giovane rampollo di una famiglia inglese, trasferitasi in America per fondare il suo impero economico, commette il terribile errore di innamorarsi di una fanciulla dolce e innocente preferendola alla ragazza che da sempre lo ha amato e servito e che, particolare non trascurabile, è una potente strega che per punirlo lo trasforma in vampiro e lo seppellisce in una notte buia e tempestosa. Il risveglio dello sventurato avverrà nel 1972, in piena epoca hippy e l'impatto con la realtà sociale e familiare (gli eredi dei potenti Collins sono un manipolo di freaks allo sbando, in bolletta e in decadenza morale) sarà quanto meno traumatico e l'incontro-scontro con l'antica rivale lo costringerà ad affrontare una lotta senza esclusione di colpi. Hanno voglia di divertirsi Burton e Depp, e si vede, perchè sono molte le scene apertamente scanzonate - l'amplesso strega-vampiro girato a ritmo di Barry White ne è un frenetico esempio - ma c'è sempre una vena malinconica e triste negli occhi di Barnabas, e c'è sempre l'estraniazione di chi è costretto, per sua natura o per caso, a vivere una condizione che lo pone al di fuori della società e quindi della normalità. La casa avita, tutta passaggi segreti, stanze nascoste, è un rifugio-prigione per tutti i personaggi, che per ragioni diverse (c'è chi vede i fantasmi, chi ha un problema di alcolismo, chi è stato in ospedale psichiatrico) sono degli emarginati, e il loro confrontarsi con l'esterno è sempre traumatico, doloroso, frustrante. Depp con la sua aria stralunata incarna perfettamente, come sempre, lo stupore dell'alieno, del diverso, di chi non ha gli strumenti per integrarsi, e la sua strenua difesa del concetto di famiglia, quale che essa sia, sia pure con i suoi limiti e le sue fragilità, è struggente nel suo palese tentativo di riappropriarsi di ciò che la vita gli ha sottratto. Nessuno come Burton sa inscenare quel groviglio di atmosfere cupe e sentimenti nostalgici, e nessuno come Depp sa sdrammatizzarli con un'alzata di sopracciglio, e anche in questo caso l'intesa fra i due dà vita ad un "gruppo di famiglia in un interno" verosimile pur nella sua immaterialità, anzi proprio in virtù di questo.
Margin Call - J.C. Chandor con Kevin Spacey, Paul Bettany, Jeremy Irons, Demi Moore, Stanley Tucci - 2011 - Thriller - USA ***
Tutto in una notte. La crisi economica morde, un analista finanziario viene licenziato ma lascia un file ad un giovane collega che scoprirà che la banca per la quale lavorano sta per fallire. Che fare? Come evitare che il mattino successivo salti tutto? Nel giro di un paio d'ore vengono convocati gli stati generali ed ha inizio una notte di confronti serrati, proposte e progetti che salverebbero la banca ma manderebbero in rovina gli investitori, crisi di coscienza, ripensamenti e atti di coraggio. Teso come un grafico di borsa, spietato come un broker, amaro come il sapore del fallimento, Margin Call è un grandissimo film che racconta con coraggio ed onestà ciò che il mondo finanziario ci ha sempre taciuto fino all'inevitabile collasso. E lo fa mettendo in campo pedine pesanti come uno stanco e demotivato Kevin Spacey, un distaccato e cinico Jeremy Irons, un disilluso rassegnato Stanley Tucci e una rampante in caduta libera Demi Moore. Cast d'eccellenza che gareggia in bravura e asciuttezza e un monologo in sottofinale di Kevin Spacey che mette i brividi per i contenuti. Il cinema di contenuti talvolta rimane freddo e distante, pur avendo il pregio di denunciare realtà spesso taciute, in questo caso invece lo spessore cinematografico va di pari passo con la rappresentazione più che realista, e la tensione emotiva rimane totalmente scenica nella cadenza e nello svolgimento.
Another Earth - di Mike Cahill con William Mapother, Brit Marling, Jordan Baker, Flint
Beverage - 2010 - Drammatico - USA ***
Vincitore del Premio Speciale della Giuria e del Premio Sloan al Sundance Festival "Another Earth" è un film di fantascienza e allo stesso tempo un film strettamente legato alla nostra realtà. Dopo Von Trier e il suo Melancholia un'altra pellicola affronta il tema di un pianeta che si avvicina alla terra. Meno metafisico e catastrofico del film di Von Trier la bella storia intimista ed umanissima che Cahill ci propone si svolge in un tempo presente ma turbato dall'avvicinarsi di un pianeta perfettamente speculare e simmetrico alla terra, dove ognuno di noi ha un suo doppio che ha vissuto le nostre stesse esperienze. In questo clima la diciassettenne Rhoda, studentessa talmente brillante da essere stata appena ammessa alla prestigiosa Università del MIT, provoca per distrazione - sta appunto guardando il nuovo pianeta - un tragico incidente stradale in cui muoiono la moglie incinta e il figlio di tre anni di John Burroughs, professore universitario e compositore di successo. Dopo quattro anni di carcere Rhoda ha perso tutto, la possibilità di una brillante carriera, i suoi amici, una prospettiva. Il senso di colpa la devasta e la spinge ad andare da Burroughs per tentare di scusarsi, ma trova un uomo alla deriva che vive in stato di abbandono, la casa in completo disordine, il piano dimenticato sotto la polvere e non ha il coraggio di confessargli chi è (visto che l'incidente avvenne quando lei era minorenne il suo nome non fu mai comunicato a Burroughs per questioni di privacy) e cosa ha fatto, ma si offre come domestica per pulirgli la casa. Pian piano riuscirà a stanare l'uomo dalla sua solitudine, a fargli riscoprire la vita, a farlo tornare a suonare e comporre. Parallelamente Rhoda cercherà di essere inserita nel numero minimo di astronauti che saranno inviati come esploratori sull'altro pianeta. Per ricominciare a vivere, per dare uno scopo a quell'esistenza spezzata, per provare a dimenticare e perdonare se stessa. Grande attenzione alle sfumature in questa opera prima di grande pregio, grande sensibilità nel mettere in scena sentimenti forti e violenti che diventano prigioni, magnifica interpretazione dei due protagonisti, misurati ed intensi allo stesso tempo. E un sottofinale ed un finale che spiazzano e riconciliano con il cinema meno convenzionale che come sempre ha il coraggio di non dare risposte semplici e compiaciute.
Special Forces - Liberate l'ostaggio - di Stéphane Rybojad con Diane Kruger,
Djimon Hounsou, Benoît Magimel, Denis Menochet, Raz Degan ***
Film atipico per la cinematografia francese "Special Forces - Liberate l'ostaggio" è un film fondamentalmente d'azione e di guerra ma venato di approfondimenti psicologici e di coloriture sociali che lo differenziano dai tanti film di genere. Elsa, giornalista francese in Afghanistan per intervistare le coraggiose donne che lottano contro i pregiudizi e l'arretratezza culturale dei talebani, viene sequestrata con il suo assistente afghano da un capo talebano. Le autorità francesi inviano quindi le forze speciali per liberare gli ostaggi, ma l'operazione si complica quando i militari perdono il contatto radio con gli elicotteri e insieme agli ostaggi dovranno affrontare una marcia di più di dieci giorni sulle montagne afghane inseguiti dai talebani. La natura spettacolare del film è dichiarata e infatti le scene di incursione, di scontri e di appostamenti sono girati con la giusta tensione, ma le velleità di Rybojad, in origine regista di documentari, sono ben altre e lo dimostra fin dalle prime scene, quando sceglie di presentarci i protagonisti nelle loro case, con mogli e figli, per dar loro dei profili caratteriali al di là del ruolo. Ce li presenta un po' guasconi - non sono forse gli eredi degli spericolati moschettieri? - che mentre rispondono al fuoco nemico non mancano di gridare "amo questo lavoro" ma anche capaci di legami profondi e sinceri nei confronti dei compagni, e capaci di rischiare la propria vita per salvare una giornalista che nei suoi articoli era stata decisamente critica verso l'impegno militare francese in Afghanistan. Il rapporto fra Elsa e i vari componenti della Squadra Speciale è decisamente la parte più riuscita del film, il confronto prima imbarazzato, poi man mano sempre più viscerale e sincero fra esseri umani che escono dai propri ruoli per calarsi nella scomoda posizione di uomini e donne in lotta per la sopravvivenza sa dare spessore ad una pellicola che facilmente rischiava di scadere nel genere sparatorie senza sosta. Detto questo i difetti ci sono, soprattutto nella rappresentazione dei talebani, appiattiti nella loro crudeltà concentrata nello sguardo truce di Raz Degan (paradossale che un israeliano cresciuto nei kibbutz sia il simbolo dell'islamismo più estremo), ma il respiro cinematografico del film c'è tutto, i tempi scenici sono quelli di tanto cinema americano di genere, ma senza esagerazioni machiste o posizioni estreme. Sicuramente certi eccessi di enfasi e di retorica potevano essere maggiormente sfumati ma l'obiettivo di far riflettere sull'insensatezza di ogni guerra, sul coraggio di uomini che guardano la morte in faccia ogni giorno e su un popolo, quello afghano, che solo grazie a donne coraggiose come Elsa ritrova voce e dignità. Due scene su tutte: la prima si svolge dopo la morte di uno dei componenti della squadra, quando un suo compagno chiede all'assistente afghano di Elsa di recitare una preghiera nella sua lingua, accomunando le fedi nel dolore. L'altra si svolge durante la sepoltura di un altro militare francese, e di svolge in silenzio, con due contadini afghani che si avvicinano e partecipano alla cerimonia deponendo una pietra sulla tomba improvvisata. Ecco, in questa capacità di guardare oltre gli spari e le ideologie, sta il valore principale della pellicola di Rybojad che tra pallottole e ferite mortali riesce anche a trovare lo spazio stretto per un bacio, un fiore nel deserto arido di una guerra infinita.
To Rome with Love - di Woody Allen con Woody Allen, Alec Baldwin, Penelope Cruz, Ellen Page, Jesse Eisenberg, Judy Davis *
Le vacanze romane di Woody Allen lasciano decisamente l'amaro in bocca a chi ama e apprezza il grande cineasta newyorkese da tanti anni. La selta di dividere i film in quattro episodi si rivela fin da subito debole, forse perchè le sceneggiature sono fiacche, forse perchè i personaggi non hanno tempo di svilupparsi, resta il fatto che le storie scontate e banali di questi personaggi in cerca di autore - e regista - restano fragili e stereotipate, echi lontani di ben altri caratteri di Allen, residui stanchi di un talento che avevamo appena ritrovato in "Midnight in Paris" e già perduto. Le battute latitano, solo alcuni scambi al vetriolo Allen-Davis reggono lo standard alleniano - "Il mio quoziente d'intelligenza è 150" dice lui, "Lo stai valutando in Euro, in dollari vale molto meno" replica lei - la sprezzante critica al furore giornalistico che perseguita l'uomo qualunque Benigni appena diventato famoso (un Benigni che fa il Benigni, ancora, davvero?) poteva anche essere intrigante ma è davvero troppo scolastica e priva di originalità - nei telegiornali ascoltiamo domande ben più surreali del "Lei indossa boxer o slip?" che la reporter d'assalto rivolge al povero piccolo diavolo assurto ai fasti del nulla mediatico, mentre la presa in giro di certo teatro sperimentale capace di mettere in scena un Rigoletto sotto la doccia strappa qualche sorriso, ma nulla più. Le tante partecipazioni di attori italiani sono totalmente trascurabili, una Muti di plastica, un Gemma che a malapena si intravede, uno Scamarcio appena divertente, presenze inutili, buone forse a soddisfare l'orgoglio del cinema italiano ma niente più. Una spanna sopra gli altri il malinconico Baldwin sulle tracce del proprio passato e una divertente Cruz prostituta molto amata negli ambienti della Roma bene, ma la sensazione generale resta quella di un film stanco, svogliato, messo insieme senza ispirazione. Gli stereotipi si sprecano, la scena in cui si vede una processione religiosa fa letteralmente cadere le braccia, come se a Roma ancora si svolgessero processioni per il Santo Patrono - ma che Italia conosce Allen? - il personaggio che chiude il film gesticolando in canottiera è un omaggio ai coatti dei film Anni Sessanta o un ennesimo equivoco sui gesti, e i gusti, dei romani? e la musica tutta mandolini - da Volare ad Arrivederci Roma a Ciribiribin - è davvero tutto ciò che possiamo ascoltare come sottofondo di Roma 2012? E' con vera amarezza che si lascia la sala, non tanto per il ritratto macchiettistico di Roma e dei romani che Allen propone, nè per la esilità dello script e dei dialoghi, ma per la consapevolezza che anche uno scrittore raffinato e profondo come Woody Allen, pur di fare il suo canonico film annuo, più puntuale delle tasse, gira svogliatamente uno delle sue pellicole più pigre e sciatte. Salta una stagione Woody, e magari torna a Manhattan, che sicuramente conosci meglio di Roma.
Seafood - Un pesce fuor d'acqua - di Aun Hoe Goh - Animazione
L'animazione allarga i suoi confini e dopo "Leafie" di produzione coreana arriva ora "Seafood" realizzato in Malesia in computer graphic. Niente di sorprendente diciamolo subito, ma un prodotto più che dignitoso, con personaggi simpatici molto ben animati, espressivi e capaci di "recitare" con i loro corpi guizzanti in acqua. Sì, perchè i protagonisti di Seafood sono squali, polipi, tartarughe e altri abitanti del'Oceano dove vivono un po' in amicizia un po' in apprensione, perchè il grande squalo Julius sarà pure un bonaccione ma chissà che prima o poi non decida di farli diventare il suo spuntino di mezzogiorno. Al centro della storia il piccolo squaletto Pup che vuole recuperare delle uova rubate da due ragazzini e portate sulla terra. Mille peripezie attendono lui e suoi amici tra cui un polipetto inventore e una vecchia tartaruga saggia, ma naturalmente alla fine i villain, un po' stereotipati e all'antica e cioè cattivi a tutto tondo, senza quella sfumature che caratterizzavano per esempio la faina in Leafie, saranno tutti sconfitti e la famigliola allargata di pesci vari farà ritorno alle profondità dell'oceano più felice che mai. La caratteristica principale di Seafood è quella di mantenersi sempre lieve e leggera senza però scadere nel banale. Gli accenni sull'inquinamento e sullo sfruttamento dei mari sono sempre sfumati e mai didascalici, la lotta polli-pesci (che poi diventeranno alleati contro il comune nemico umano) divertenti e scanzonati e il finale con i tre galletti che partono alla scoperta del mare come in precedenza avevano fatto le creature dell'oceano con la terra è una trovata decisamente spassosa. Naturalmente rimaniamo distanti dai più recenti capolavori dell'animazione, ma il film rimane comunque godibile anche per un pubblico adulto, e l'ambientazione oceanica un vero trionfo di colori e di invenzioni.
Tutti i Nostri Desideri - di Philippe Lioret con Marie Gillain, Vincent Lindon,
Pascale Arbillot, Isabelle Renauld ***
Dopo "Welcome" si ricostituisce la coppia Lioret - Lindon e anche questa volta il risultato è una pellicola profonda, sincera, amara e intensa che coniuga l'intimità più cruda con l'analisi sociale più veritiera. Claire, una giovane donna, giudice di professione, si trova in aula la madre di una compagna di scuola della figlia, in difficoltà con il pagamento di un prestito, aumentato a dismisura grazie alle clausole capestro imposte dagli istituti di credito. Aiutata dal collega Stéphane cercherà il modo di far arrivare la causa alla Corte Europea per dimostrare come la società moderna e i suoi perversi meccanismi legati al consumismo e alle difficoltà economiche create dalla crisi in atto possa distruggere persone oneste e privarle anche della dignità. Parallelamente alla sua lotta per far valere i diritti della parte più indifesa della società Claire deve affrontare una battaglia ben più crudele dal momento in cui le scoprono un tumore cerebrale in fase terminale. Nascondendo al marito le sue condizioni per non farlo soffrire prima del tempo Claire sceglie di portare sulle sue fragili spalle un peso disumano e il rapporto professionale con Stephane, un Vincent Lindon dimesso e intenso, trattenuto nell'esprimere i propri sentimenti verso una donna che non può accogliere altro che amicizia e conforto nel momento in cui sta distaccandosi con dolore dalla vita e proprio per questo tutto dedito ad esaudire l'ultimo desiderio di Claire, far accogliere la loro causa al Consiglio europeo, come se fosse un atto d'amore. Lioret sa mantenere un perfetto equilibrio fra emozione e riflessione, non scendendo mai nel sentimentalismo o nel pietismo, riuscendo a dare ai propri personaggi uno spessore umano e sociale che ce li fa sentire vicini, nei loro desideri come nelle loro paure, nei loro sentimenti confusi come nella frustrazione di fronte alle ingiustizie della vita. Molte le scene emozionanti e toccanti nella loro asciuttezza, alcune specchio della superficialità che spinge anche chi è già in grosse difficoltà economiche come la madre di Claire a comprare una Tv maxi schermo facendo ulteriori debiti solo perchè, risposta testuale e inquietante nella sua insensatezza " ce l'hanno tutti" e altre che lasciano senza fiato come quella che si svolge nel giardino della casa che Claire e il marito hanno comprato
da poco. Lei è appena tornata dal'ospedale dove ha saputo che le restano solo pochi mesi di vita, lui ha appena piantato un ciliegio e le dice "vedrai che bello sarà fra due anni". Ecco, in questi due desideri così opposti e così antitetici, veder fiorire un ciliegio, e quindi implicitamente essere ancora vivi, ed avere un Tv ad alta definizione come tutti è racchiuso il senso del film, perchè è vero che noi siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni come ci ha insegnato Shakespeare, ma non tutti i sogni hanno lo stesso valore, e Lioret ce lo ricorda con una grazia ed una poesia lieve che colpisce nel profondo.
Gli Infedeli - di Emmanuelle Bercot, Fred Cavayé, Alexandre Courtes, Jean Dujardin, Michel Hazanavicius, Eric Lartigau, Gilles Lellouche con Jean Dujardin, Gilles Lellouche, Guillame Canet, Mathilda May, Sandrine Kiberlain *
La scelta coraggiosa dei due colleghi e amici Jean Dujardine e Gilles Lellouche (sceneggiatori e registi), di proporre un film ad episodi, genere caduto in disgrazia dopo i fasti delle commedie italiane Anni Sessanta, non corrisponde affatto, purtroppo, ad altrettanto coraggio nelle sceneggiature e nella scelta del tema. Perchè esplorare l'universo maschile più stereotipato e abusato, quello del traditore tout court, senza se e senza ma, e senza neanche un perchè, è operazione inutile e stanca, e le varie situazioni proposte, oltre ad esser fiacche da un punto di vista di dialoghi e battute, sono anche talmente banali e superficiali da lasciare esterrefatti. Possibile che non si potesse trovare un finale diverso all'episodio dell'uomo di mezz'età che si innamora della ventenne e finisce umiliato e malmenato dagli amici di lei? possibile che il travet in trasferta di lavoro debba risultare patetico oltre il consentito? Possibile che anche il confronto sui tradimenti passati che marito e moglie affrontano tutto in una notte debba mancare così clamorosamente il bersaglio pur avendo la possibilità di affrontare il tema della necessità o meno dell'essere sinceri in una dinamica di coppia? Qualche sorriso lo strappa l'episodio dei "Traditori Anonimi", impenitenti e incontrollabili, guidati da una terapeuta affranta , ma è davvero poca cosa e i siparietti comici tra un episodio e l'altro non brillano nè per originalità nel per eleganza. Il finale a Las Vegas poi, con la coppia di amici dongiovanni che si scoprono improvvisamente attratti uno dall'altro lascia francamente perplessi su cosa i due sodali avessero in mente di raccontare. Non certo i dubbi e le fragilità dell'uomo moderno, non certo il machismo esasperato e non certo la latente omosessualità nascosta dietro il dongiovannismo perchè si resta sempre e solo a livello macchiettistico. Peccato perchè Dujardin e Lellouche sono gigioni quanto basta per reggere ruoli estremi e per uscire dai confini del moralismo, ma non osano mai oltre qualche seminudo e qualche battuta forte. Davvero poco per il divo di "The Artist" e per il cinema francese che ci ha abituato a ben altre commedie e a ben altri approfondimenti psicologici all'interno di un contesto lieve e brillante.
Chronicle - di Josh Trank con Dane deHaan, Alex Russell, Michael B. Jordan, Michael Kelly, Ashley Hinshaw **
Tre giovani reduci da un rave trovano un cratere in un bosco al cui interno si trova una pietra che emette strani bagliori. Sembrerebbe solo un' avventura notturna, ma i tre giovani dal giorno successivo al ritrovamento scopriranno di avere strani poteri fisici legati alla telecinesi e man mano si dovranno confrontare con la loro nuova condizione. Apparentemente la trama è quella di tanti altri film in cui un gruppo di giovani ha a che fare con esperienze fisiche e psicologiche disturbanti, ma l'ottica del film di Trank (sceneggiato con Max Landis) non è quella epica e avventurosa di altre pellicole simili, ma quella dell'approfondimento delle psicologie dei tre giovani, soprattutto Andrew, il più fragile dei tre, emarginato e solitario, che conosciamo all'inizio del film attraverso le riprese della sua telecamera, una sorta di coperta di Linus con cui si difende dalla cattiveria dei compagni di scuola che lo prendono in giro e non lo considerano. La reazione iniziale di euforia e di invincibilità (tipica fra l'altro di ogni ragazzo di diciotto anni indipendentemente dai superpoteri) lascerà presto lo spazio alla voglia di vendicarsi di chi lo ha fatto soffrire, di prendersi la rivincita su chi ha osato criticarlo e qui il film diventa interessante e solido, perchè in quella furia distruttrice di Andrew, così caotica e e disordinata, così incapace di giusta misura e buon senso, ritroviamo tutta la fragilità degli adolescenti di fronte alla vita, i comportamenti eccessivi del branco, le esplosioni incontrollate di violenza, la mancanza di autocontrollo ed obiettività di giudizio. e ritroviamo la solitudine di chi non trova nella famiglia e nella scuola un punto di riferimento, un "adultità" cui chiedere consiglio o anche solo da cui prendere esempio. C'è molta società contemporanea in questa realtà fantascientifica, c'è l'inquietudine di chi si trova ad affontare un cambiamento improvviso (i poteri di telecinesi che trasformano i ragazzi in altro dal loro status abituale sono metafora dei cambiamenti devastanti e destabilizzanti che l'adolescenza in quanto passaggio dall'infanzia all'età adulta porta con sè) e la sofferenza che Andrew nasconde dietro la telecamera è quella stessa che tanti giovani provano nel confronto con coetanei e che tentano di scacciare magari spacciandosi per altro da ciò che sono nel mondo virtuale delle chat e dei social networks. Film di effetti e di azione ad una prima lettura, ma di profonda analisi e di riflessione man mano che ci avventura nella mente sempre più alienata di Andrew, film che lascia allo spettatore la sensazione che crescere significhi soprattutto imparare a controllare i propri istinti, a gestire le emozioni, ad ascoltare gli altri, cosa che, la cronaca ci insegna, è sempre un'avventura oscura e spesso fallimentare, proprio perchè troppo spesso gli adolescenti si trovano di fronte quasi infinite possibilità (qui rappresentati dai superpoteri ma facilmente riconoscibili nelle tante libertà che un giovane si trova a poter avere, da quella sessuale a quella comportamentale a quella estetica) ma che poi non è quasi mai in grado di gestire adeguatamente perchè gli mancano l'esperienza e il supporto di chi dovrebbe fornirli (il padre quasi sempre ubriaco di Andrew e la madre morente sono metafora profonda dell'assenza di ogni figura autoriale). Perfettamente in parte i tre giovani interpreti, survoltati e adrenalinici quanto basta per farci partecipi della loro euforia e profondamente segnati nel finale, quando la spensieratezza dell'adolescenza è solo un ricordo lontano e la rabbia di Andrew l'unica emozione rimasta. Peccato solo aver lasciato ampio spazio alla fase di gioco e di sperimentazione dei superpoteri, far scivolare il film nel ritmo scatenato di un film adolescenziale, cosa di cui una così sensibile analisi della gioventù avrebbe potuto tranquillamente fare a meno, ma si sa, sono gli adolescenti che frequentano le sale cinematografiche e una ventina di minuti di scene scatenate e a ritmo vertiginoso sono un bell'appeal. Speriamo che la successiva amara riflessione sull'adolescenza li coinvolga ugualmente.
Hunger Games - di Gary Ross con Jennifer Lawrence, Stanley Tucci, Woody Harrelson, Donald Sutherland, Lenny Kravitz ***
Tratto dal primo libro della trilogia di
Suzanne Collins, saga adolescenziale metaforica e introspettiva, il film di Gary Ross (Pleasantville e Seabiscuit) è un potente affresco di una società futura (ma non troppo) di uno spirito giovane indomabile e fiero e di un cinema fatto di immagini e di suoni, ma anche di spunti riflessivi. Affascinante e potente l'idea di partenza: per ricordare una lontana ribellione di alcuni distretti in un futuro molto simile al nostro presente si organizzano da 70 anni gli "Hunger Games" dove due giovani di ogni distretto ribelle (24 in tutto) si sfideranno fino alla morte (ne resterà uno solo di Highlanderiana memoria) in una lotta senza pietà ambientata in una giungla ostile. Tutto questo sotto gli occhi delle telecamere, perchè Hunger Games è soprattutto un grande show televisivo, con sponsor, presentatori survoltati (un irresistibile Stanley Tucci), stilisti e mentori a suggerire strategie per risultare simpatici e catturare spettatori, voti ed aiuti nella lotta finale, perchè la giungla è disseminata di pericoli reali, avversari feroci pronti a tutto pur di sopravvivere ma soprattutto è piena di trucchi tecnici inventati dai maghi del reality per tenere alta l'attenzione, per conquistare audience, per favorire i beniamini del pubblico ed eliminare chi invece non buca lo schermo. E poco conta che l'"eliminazione" non sia solo puramente teorica come nei reality cui assistiamo nelle nostre televisioni ormai da anni ma che invece sia fisica e definitiva, nessun senso di colpa o remora morale assale gli organizzatori dei giochi, o il governatore supremo di Capitol dove tutto si svolge (un Donald Sutherland sempre molto incisivo anche nelle poche scene cui partecipa). Metafora potente di una società ormai alienata ed incapace di riconoscere la propria deriva disumana, dove solo la protagonista
Katniss Everdeeen, la bellissima, matura ed intensa Jennifer Lawrence di "Un Gelido Inverno" per cui ebbe una nomination agli Oscar, oppone una resistenza fiera e appassionata, non rinunciando alla sua umanità, a proteggere una fra le bambine più piccole che partecipano ai Games, a sfidare apertamente le autorità violando le regole. Un'eroina a tutto tondo, forte proprio in virtù della sua fragilità, determinata non a diventare una primadonna televisiva come gli altri partecipanti ma solo a tornare a casa dalla propria famiglia, idealista e assolutista come ogni adolescente. Un film sui giovani, ma non solo per giovani, anzi, le tante metafore, anche politiche, ne fanno non solo un grandissimo film d'azione e di emozione, ma anche di riflessione e di ammonimento. Una trasposizione cinematografica che non ricalca le pagine del libro, sottrae ed aggiunge dove serve, ma che costruisce un universo terribile ed affascinante come pochi, disseminando la pellicola di semi che germoglieranno sicuramente nei prossimi episodi già in cantiere.
Ho cercato il tuo nome - di Scott Hicks con Zac Efron, Lily Rabe, Taylor Schilling, Blythe Danner, Jay R. Ferguson *
Ennesima trasposizione cinematografica di un libro di Nicholas Sparks ed ennesimo film intriso di drammi, buoni sentimenti, amori contrastati ed immancabile lieto fine. Qui il protagonista è Logan Thibault, marine in servizio in Iraq che durante una missione trova la foto di una giovane donna, si convince che sia il suo portafortuna e quando torna in America si mette alla ricerca della ragazza per ringraziarla. Naturalmente non le svelerà il motivo per cui è lì, naturalmente quando lei gli aprirà il cuore dolente per un divorzio da un marito prepotente e per la morte del fratello in Iraq (scopriamo così a chi apparteneva la foto) sarà pronto a consolarla e dopo qualche baruffa, qualche tragedia e qualche scena tenera fra i due arriviamo finalmente in porto all'atteso lieto fine, mai tanto scontato come in questo genere di film. Le storie d'amore al cinema sono da sempre preteso per infarcire una storia di ostacoli, villain che cercano di impedire la felicità della coppia di innamorati, segreti che inevitabilmente portano ad una temporanea rottura e via dicendo, ma gli scripts tratti dai libri di Sparks hanno tutti lo stesso andamento - lento - gli stessi scontati elementi, gli stessi personaggi stereotipati. Non fa eccezione "Ho cercato il tuo nome", e di sicuro la regia di Hicks non osa niente più del necessario (scene patinate, paesaggi idilliaci e primi piani intensi) nè la recitazione dell'ex ragazzo prodigio di High School Musical Zac Efron aggiunge alcunchè, anzi, lo sguardo da "stress post traumatico" non gli si addice molto e lo rende rigido e poco comunicativo. Resta la solita eleganza e simpatia di Blythe Danner (la mamma di Gwyneth Paltrow nella vita reale) e uno scenario naturale bellissimo dove viene voglia di andare in vacanza, magari non con un libro di Nicholas Sparks.