Novembre 2013
Lunchbox - di Ritesh Batra con Irrfan Khan, Nimrat Kaur, Bharati Achrekar,
Denzil Smith ****
Delicato, profondo, amaro, malinconico, dolce e feroce, proprio come la vita, questo delizioso affresco di sentimenti ed emozioni trattenute eppure vive, timide eppure coraggiose è affidato alla penna, ad piccoli biglietti nascosti nel portapranzo, cupido inconsapevole e bizzarro. Ila è una giovane sposa che vede il marito sempre più distratto, sempre più assente, e tenta di ravvivare i loro sentimenti preparandogli dei pranzi ricchi di amore e di passione, ma il fattorino che dovrebbe consegnare il portavivande sbaglia destinatario e così Saajan, un vedovo schivo e riservato, si trova a mangiare prelibatezze che crede preparate da un anonimo ristorante. Finchè i due cominciano a scriversi, a comunicare, a confessare le proprie paure, i propri dolori, quella solitudine che li attanaglia e che attraverso quelle poche parole che si scambiano ogni giorno viene rotta, e che si trasforma pian piano in confidenza, in progetto, in speranza. E' un duetto a distanza, con siparietti anche divertenti con perfetto equilibrio fa sentimento e ironia, ed è un crescendo di emozioni e scoperte, con la figura del marito di Ila che dal centro delle sue attenzioni scompare via via nel cono di ombra di un uomo che tradisce, che dimentica, che perde valore agli occhi di una donna che pure era disposta a tutto per riconquistare. E Saajan orna alla vita, grazie anche all'amicizia con un giovane collega, spassoso e ingenuo, che lo aiuterà a prendere coscienza che la vita è un continuo scherzo del destino, e che bisogna stare al gioco per trovare la felicità. Il finale resta sospeso, incerto, come è giusto che sia per una favola lieve eppure importante, che ci ricorda come nel fondo del nostro cuore ci sia sempre posto per il coraggio di cambiare, basta che una parola gentile o un sapore dolce sappiano toccare le corde giuste del cuore e del palato. Bravssimi gli interpreti, misurati e intesi pur nella loro "recitazione a distanza" e grande la sorpresa per questo film indiano di altissimo spessore.
The Canyons - di Paul Schrader con Lindsay Lohan, James Deen, Nolan Gerard Funk, Amanda Brooks ***
Cominciamo dallo sceneggiatore di un film che in apparenza potrebbe sembrare l'ennesima variazione sul tema dei giovani senza valori e senza dignità della dorata Los Angeles, e cioè Bret Easton Ellis, scrittore capace di rappresentare il vuoto esistenziale come pochi, e di rappresentare la superficialità come paradigma di un dolore inesprimibile perchè forse mai neanche confessato a se stessi. E infatti i giovani spaesati, infelici e senza identità che passano da un amore all'altro, da un sogno di fama e ricchezza ad un abisso di droga e falsità, sono sicuramente l'espressione superficiale di un mondo in declino,ma sono anche espressione più profonda di un malessere che non esplode ai come avveniva invece negli Anni Settanta quando fare la rivoluzione sembrava l'unica cosa giusta se si era giovani, restano confinata nel disagio, nell'abbrutimento di notti sfrenate, nell'incapacità di prendere in mano la propria vita e ribellarsi al vuoto pneumatico di sincerità e emoziona che impera. Tara, giovane aspirante attrice, vive con Christian, ricco e viziato, ma ama Ryan, che aveva lasciato anni prima quando aveva capto che il ragazzo non avrebbe mai fatto fortuna, ma con cui ha tornato ad incontrarsi visto che lui è il fidanzato della segretaria di Christian. I legami fra i vari personaggi, il viluppo di dipendenze emotive e non, la fatica di crescere e di distinguere il dolore dal piacere sono il sottotesto che si deve assolutamente leggere al di là dei corpi patinati e degli ambienti di lusso per capire la disperazione morale che impedisce perfino di chiudere una porta ed andarsene a vent'anni, quando dovrebbe essere i gesto più naturale quando si capisce di volere altro nella vita. C'è una solitudine che fa male negli sguardi di Tara, e c'è un amore senza gioia nel cuore di Ryan, c'è tutto il pathos delle grandi storie del passato, quel che c'è di diverso è lo sguardo disincantato di Bret Easton Ellis, che ci dice che per le generazioni dei ventenni non c'è scampo dall'abisso del nulla, perchè solo quello hanno conosciuto, e perchè dietro l'assenza totale di figure genitoriali o di riferimento del film c'è una fortissima denuncia non a chi è cresciuto senza ideali e valori, ma a chi l'ha permesso.
Il Passato - di Asghar Farhadi con Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Pauline Burlet ****
Bis centratissimo dopo "Una Separazione" per Asghar Farhadi che ci regala un "interno di famiglia allargata" straordinario per intensità, coraggio e verità. Ahmad arriva a Parigi, convocato dalla sua ex moglie, Marie, per firmare le carte del divorzio. Troverà una famiglia in preda alla confusione, ai sensi di colpa, alle più complesse dinamiche di amore, rancore, desiderio di andare avanti e incapacità di dimenticare. Marie ha due figlie avute da un precedente marito molto affezionate ad Ahmad, un nuovo compagno, Samir, con un figlio piccolo scontroso e rabbioso da quando la madre ha tentato il suicidio e versa in stato di coma. Non diciamo altro della trama, degli sviluppi che scena dopo scena dci mostrano come la realtà sia sempre altro da quello che crediamo, che quel puzzle che chiamiamo destino spesso è frutto di scelte, di silenzi, di atti e omissioni, e che il dolore che ci portiamo dentro deve essere metabolizzato prima o poi, altrimenti ogni progetto perde di valore, e ogni futuro rischia di infrangersi nei ricordi del passato. ognuno è chiuso nel proprio mondo di sofferenza, e pur nell'affetto e nell'amore che lega i vari personaggi manca sempre il coraggio di uscire da se stessi e fare un passo avanti verso la sofferenza degli altri. Sarà Ahmad, con la sua visione esterna e in qualce modo estranea, a fare da fil rouge per sbrogliare la matassa di colpe mai svelate, di rimorsi e rimpianti, di desideri e paure. Il tocco lieve con cui dirige gli attori Farhadi ha dell'incredibile, e il premio al festival di Cannes a Bérénice Bejo lo conferma appieno, la recitazione è sempre naturale al punto da dimenticarsi di essere in una pellicola, e il dolore che traspare così asciutto e sincero da commuovere molto più di tante lacrime versate in altro genere di film. Altissimo il valore simbolico ovviamente, per un regista che il passato non può e non vuole dimenticare venendo da un paese lacerato come l'Iran, ma altissimo anche il valore emotivo che è comune a tutte le razze, a tutte le latitudini, a tutte le età.
Justin e i Cavalieri Valorosi - di Manuel Sicilia - Animazione ***
Deliziosa animazione di produzione spagnola, con tutti gli stilemi classici della favola ma con una brillante interpretazione, moderna e scanzonata, che fa di Justin e delle sue avventure un gioiellino di freschezza e genuinità. Justin è il nipote di un grande eroe del passato, che sfidava draghi ed è stato ucciso da un suo compagno traditore e così il padre di Justin, che ha assistito alla morte cruenta di suo padre, ha proibito a Justin di indossare le armi e di vivere le avventure che il giovane vorrebbe, indirizzandolo ad una più tranquilla carriera di avvocato. Ma al cuor non si comanda e così Justin, novello Don Chisciotte con tanto di Dulcinea scontrosa e superficiale cui rendere omaggio - parte per sconfiggere i suoi mulini a veto, con una compagnia degna di lui, una giovane cameriera coraggiosa e appassionata e un mago schizofrenico che è una vera invenzione a tutto tondo. Non mancheranno draghi finti, vecchi eroi che tornano in battaglia, guerrieri spassosi e monaci saggi, sfide, sconfitte e coraggiose rivincite, come nei cartoni più classici, ma questa produzione di Antonio Banderas riesce a rimanere sempre in perfetto equilibrio tra sentimento e ironia, coinvolgendoci in un gioco che si scopre ad ogni nuova scena più appassionante. Scommessa assolutamente vinta e chissà che non dia coraggio e slancio per altre produzione europee.
Planes - di Klay Hall - Animazione **
Se qualche mese fa abbiamo conosciuto turbo, la lumaca che voleva correre lla 500 Miglia arriva ora Dusty, aereo agricolo con velleità da campione acrobatico che vuole iscriversi alla gara più massacrane per aerei duri e puri. Impresa apparentemente impossibile - soprattutto tenendo conto del fatto che Dusty non ce la fa ad andare sopra le nuvole perchè soffre di vertigini, ma si sa, la volontà nella filosofia statunitense abbatte ogni ostacolo, e così ritroviamo Dusty e i suoi amici, vecchi aerei in pensione, furgoncini e carrellini, a vivere l'avventura più emozionante che potessero immaginare, senza ovviamente dimenticare che dovranno anche affrontare copi bassi e tradimenti di aerei blasonati che non ci stanno a perdere la faccia per colpa di un provincialotto come Dusty. Divertente? Sì, abbastanza, ma mai geniale, pigro e svogliato si potrebbe dire, con battute e gag scritte a tavolino fra uno sbadiglio e l'altro, senza mai un vero guizzo di invenzione, necessario tanto più che la trama è già piuttosto scontata. Cars - di cui pure Planes è parente stretto - era decisamente un'altra cosa, e forse troppo ingenuamente gli sceneggiatori hanno creduto che bastasse trasportare l'atmosfera scanzonata e surreale delle macchinine che si cappottavano per l'emozione di vedere "una vera Ferrari" nel cielo per bissare il successo, ma l'alchimia non si è ripetuta e Planes volicchia a stento nel panorama dell'animazione, ormai affollato di capolavori di cui il nuovo prodotto Disney-Pixar purtroppo non fa parte.
Captain Phiillips - di Paul Greengrass con Tom Hanks, Catherine Keener, Max Martini, Yul Vazquez ***
Una nave che trasporta merci al largo della Somalia, un gruppo di pirati che la assalta, un capitano e il suo equipaggio che tentano di arginare la furia di uomini disposti a tutto, e lontano, lontanissimo, il mondo politico e militare che decide strategie prepara assalti e negozia con freddezze. Non c'è molto altro nel film di Greengrass e la presenza di un carismatico Tom Hanks sempre in strettissimo piano piano non è che aiuti granchè a rendere la cronaca di un episodio tragico e purtroppo reale un grande film. La trama p troppo stereotipata, i personaggi quasi caricaturali nel loro essere aderenti a stilemi millenari - i pirati brutti sporchi e cattivi anche se non hanno la benda sull'occhio - e i marinai un po' coraggiosi un po' codardi, insomma tutto il corollario del confronto cattivi buoni (dove le motivazioni dei cattivi sono puramente primarie, carnali, materiche) e buoni (dove si cerca il dialogo, dove c'è spazio anche per la pietà e la generosità). Uniche scene davvero belle quelle in sottofinale, sul volto deturpato dai pestaggi del capitano, che aspetta la morte e ritrova la vita, incredulo e spaventato, giustiziato comunque - perchè chi esce da un'esperienza del genere ne resta segnato per sempre, anche se apprendiamo dai titoli di coda che il vero capitano Phillips tornò in mare neanche un anno dopo - ma tutto sommato un film superfluo, che niente aggiunge allo stereotipo o al mito, che niente racconta cinematograficamente anche se fa il suo onesto lavoro intrattenendo con professionalità, scene ben girate, attori compunti e attenti. Peccato che manchi quel qualcosa che trasforma la cronaca in cinema.
Prisoners - di Denis Villeneuve con Hugh Jackman, Melissa Leo, Jake Gyllenhaal,
Paul Dano ****
La lunghezza di un film è un movimento programmatico e insieme un disclaimer: se il film vuole essere candidato agli Oscar non può durare meno di due ore e un quarto, e pace se a volte sforbiciando una ventina di minuti il ritmo ne guadagnerebbe, un film horror deve essere breve per definizione, una commedia raramente supera un'ora e quaranta, e i thriller... beh, i thriller d'autori possono anche arrivare a un'ora e cinquanta ma i 153 minuti di Prisoners fanno capire che siamo ben oltre il tempo limite e ben venga, perchè quello di Villeneuve tutto è fuorchè un thriller classico. O meglio lo è, con tanto di colpo di scena finale, ma contiene tanti elementi di contorno così solidi robusti, convincenti e prepotenti, che diventa di volta in volta analisi sociale, riflessione morale, indagine sulla famiglia e sguardo sull'orrore che si cela in ognuno di noi quando è spinto al limite. La vicenda di partenza è semplice, con due bambine che il giorno del ringraziamento spariscono dal cortile di casa dove stavano giocando. Le indagini partono, il freddo attanaglia i cuori e i corpi la nebbia scende sulle indagini e sull'anima di chi indaga per mestiere - il detective Loki, meticoloso quanto amareggiato, impastoiato dalla burocrazia e alla ricerca di una verità vera e non di un colpevole a tutti i costi - e di chi scava nel buio per trovare appigli - Keller il padre di una della due bambine, capace di superare ogni limite pur di ritrovare sua figlia. E camminando sul filo dell'etica i personaggi diventano di volta in volta carnefici e vittime, oltrepassano la legge, la pietas e la logica pur di sfogare quell'istinto primario che ci rende tutti incapaci di controllarci davanti al dolore puro. Gli eventi che si susseguono sono scanditi con grande cura giallistica ma non è questo che interessa al regista ciò che conta è denudare gli animi, d chi rimane a casa ad aspettare, di chi è sospettato e sconta per questo il processo mediatico prima ancora che quello reale, di dinamiche familiari e sociali disturbate quanto inevitabili di indagini che pur essendo di routine sono sempre diverse, e corrodono la fiducia nell'umanità quando portano alla scoperta di orrori indescrivibili. Non c'è pace per chi scava nelle vite degli altri, e attraverso la metafora di un giallo per altro molto intenso e ben recitato da tutto il cast Villeneuve ce lo ricorda con mano ferma e coraggio.