Gennaio 2014
Disconnect - di Henry Alex Rubin con Jason Bateman, Frank Grillo, Alexander Skarsgård, Paula Patton, Max Thieriot ****
Connessi, sconnessi, disconnessi. Siamo tutti un po' così, troppo legati a quella rete mondiale - e virtuale - che tiene unito il mondo e al contempo lo rende ancora più solitario e vulnerabile. Sono storie piccole quella raccontate nello struggente puzzle di sentimenti e social network messo in campo da Henry Alex Rubin con attori credibili e in parte, un puzzle di vite colte in medias res, con sofferenze nascoste e conflitti taciuti, con sensi di colpa e speranze che tutte si infrangeranno sullo schermo di un computer, o di un tablet, o di uno smartphone,strumento cui sempre più deleghiamo le nostre comunicazioni, e indirettamente le nostre emozioni. C'è un'adolescente timido, capelli che coprono il viso e la musica come unica compagna, preso di mira da due compagni che si fingono una ragazza interessata a lui e lo spingono a fare foto sexy che saranno poi girate tramite un qualche social a tutta la scuola, causando una tragedia le cui proporzioni crescono a dismisura, e coinvolgono i genitori dei ragazzi, a loro volta alla ricerca di un dialogo con quegli adolescenti chiusi nelle loro stanze e nel loro mondo digitale. C'è poi una coppia in crisi, che ha perso un figlio, per i quali scoprire di aver avuto la carta di credito clonata significa aprire il vaso di pandora dei loro segreti sul Web, e un viaggio verso una verità che sarà molto diversa da quella che credevano. E c'è infine una giornalista d'assalto che crede di aver trovato il suo scoop intervistando un giovane che intrattiene donne e uomini sul web con spogliarelli e prestazioni via etere, e che vive con altri ragazzi minorenni come lui, reclutati da un protettore-padre-padrone, una situazione che mutata mutandis, ricorda i ragazzi di Oliver Twist, ma che non saprà far fronte alle sincere richieste di affetto di quel ragazzo che da sbruffone via internet si trasforma in fragile adolescente nella realtà. Lo schermo di un computer sembra voler dire Rubin non ci scherma dalla vita, dalla sofferenza, anzi la amplifica perchè rende tutto ovattato e la caduta fa più male. Sono sofferenze tangibili quelle che ci presenta, c'è un pathos e un senso di fallimento reale - basti pensare al padre vedovo che ha addirittura lasciato il suo lavoro di poliziotto per stare di più col figlio e si ritrova di fronte un estraneo rancoroso che apprezza qualunque altro padre tranne lui - e lo svolgimento è lineare senza mai scivolare sull'enfasi - a parte la scena della lotta fra i due padri al rallentatore che si aggancia ad altre "scene madri" francamente evitabili. Ma resta un film coraggioso, onesto, e dolente, di quel dolore sordo che nessun nick name potrà mai cancellare.
American Hustle - L'apparenza inganna - di David O. Russell con Jennifer Lawrence, Christian Bale, Bradley Cooper, Amy Adams ****
Poker d'assi e di estro per il nuovo film del regista de "Il Lato positivo" che mette sul tavolo due truffatori in love, una moglie fuori di testa e un poliziotto strafatto di tutto ma soprattutto di sè che mettono in campo un balletto scatenato e irresistibile di umori e amori, di pena e dolore, di umanità varia e vera, che attraversa il film con un inizio grottesco e un crescendo di emozioni sincere, che avvolgono le vite sbandate e affannate dei protagonisti e di chi ruota loro intorno. Il tutto in un'atmosfera Anni Settanta a dir poco spettacolare per equilibrio fra omaggio e irriverente satira. Irving Rosenfeld un truffatore da quattro soldi, con una pettinatura a riporto così complicata da richiedere lunghe sedute allo specchio e una passione per la giovane Sydney che lo aiuta a mettere in piedi imbrogli e raggiri. Ma un agente dell'FBI, Richie Di Maso, invece di arrestarli decide di utilizzarli per incastrare politici e mafiosi, e parte così una stangata sbilenca e perennemente sull'orlo del fallimento, soprattutto quando la legittima moglie di Irving, la biondissima e apparentemente oca Rosalyn. Le mosse e le contromosse di una partita in cui il perdente è di volta in volta un nuovo bersaglio - o gli stessi protagonisti intrappolati in ruoli e doppi giochi che li snaturano e li rendono prigionieri di se stessi più che delle situazioni - sono già di per sè una ottima trama di partenza, ma ciò che stravolge il film di genere e si smarca dal grottesco pur rilanciando di tanto in tanto situazioni e toni paradossali, è la traboccante sofferenza dei protagonisti, la rabbia, la gelosia, la solitudine e la paura che li attanaglia, che li aizza, che li incattivisce o che al contrario li spinge a provare pena per coloro che dovrebbero distruggere. E' un'umanità dolente quella di Russell, un'umanità che soffre e ama, che non si sottrae e che beve il calice fino in fondo, facendo e facendosi del male, senza paura di sporcarsi le mani con la materia di cui è fatta a vita vera, e cioè quel groviglio di sentimenti che sono odio e amore, rancore e nostalgia, pietà e crudeltà. Struggente e brillante come i vestiti di paillettes che le due premier dames indossano sfidandosi a colpi di - modesti dobbiamo ammetterlo - decoltè la storia di American Hustle sarà anche accaduta realmente ma sembra nata per il cinema. E Russell, con i suoi quattro magnifici complici - diluvio di candidature e probabilmente statuette - la mette in campo com meglio non si poteva.
The Butler - Un Maggiordomo alla Casa Bianca - di Lee Daniels con Forest Whitaker, Oprah Winfrey, Jane Fonda, Liev Schreiber, Alex Pettyfer, Minka Kelly, John Cusack ***
Inappuntabile come il servizio dei maggiordomi presidenziale, corretto come le lotte politiche di rivendicazione razziale che si svolsero negli Stati Uniti dagli Anni Sessanta in poi, intimo ma rappresentativo di una nazione, attento ai sentimenti ma aperto alle sottolineature sociali, insomma fin troppo perfetto, fin quasi asettico questo ritratto di maggiordomo in un interno particolare, unico, come la casa del presidente degli Stati Uniti. Cecil Gaines è stato uno schiavo nelle piantagioni di cotone nel profondo Sud, ha visto uccidere suo padre che aveva osato rivolgere un "Ehi" al padrone che aveva appena violentato la moglie, ha fatto "carriera" diventano un "negro di casa", ma poi è scappato da quel degrado, da un mondo con troppi limiti e confini, con regole e crudeltà che a diciotto anni non poteva più sopportare. E le belle maniera imparate in casa gli consentono negli anni cinquanta di essere assunto prima in un grande albergo di Washington e poi niente meno che alla Casa Bianca dove farà carriera - la carriera che può fare un nero ovviamente, cosa che immancabilmente decennio dopo decennio Cecil rimarcherà al burocrate di turno - che è poi sempre lo stesso, che tra l'altro l'ha fatto assumere ma che non mai concepirà che i diritti dei neri siano uguali a quelli dei bianchi - e nel frattempo Cecil si sposerà, avrà due figli e li perderà entrambi, per ragioni diverse - impossibile per lui, ormai convertito ad una vita "borghese" concepire le lotte delle Black Panthers cui il figlio maggiore si unisce, e impossibile averla vinta su una guerra crudele come quella del Vietnam che si porterà via il più piccolo. In tutto questo Cecil invecchia, ritrova la moglie Gloria, per un periodo frustrata e alcolizzata - una grande Oprah Winfrey - e si accosta silenziosamente alla grande storia, vede sfilare accanto a sè Eisenhower, Kennedy con i suoi dolori e Jackie con il tailleur insanguinato, Johnson scialbo e astioso, Nixon rancoroso ai tempi del Watergate e poi Reagan con la moglie Nancy che per celebrare la carriera di Cecil inviterà lui e Gloria ad un ricevimento. Le scene finali vedono un Cecil ormai vecchio e riconciliato con il figlio assistere all'elezione di Obama, e sono forse i momenti più emozionanti del film, più autenticamente toccanti in un affresco sicuramente maestoso, sicuramente accurato e coraggioso, ma sempre troppo trattenuto e compito per colpire davvero al cuore. Anche se Forest Whitaker ce la mette davvero tutta a tratteggiare un personaggio magnifico, che però resta sempre troppo imbrigliato sotto i colletti inamidati e i guanti bianchi.
2 Giorni a New York - di Julie Delpy con Chris Rock, Julie Delpy, Vincent Gallo,
Dylan Baker *
Commedia esile e survoltata diretta da Julie Delpy, ideale seguito di "2 Giorni a Parigi" ma trapiantato nella Grande Mela dove Marion, separata con un bambino convive con il suo compagno di colore Mingus e la figlia di lui. L'arrivo del padre di Marion da Parigi, accompagnato dalla sorella di lei, psichiatra infantile e dal fidanzato di quest'ultima porterà uno scompiglio esagerato nella famigliola allargata e gli equilibri dei vari rapporti verranno messi a dura prova dalle continue scenate, dai battibecchi e dai continui imprevisti che nei due giorni del titolo si susseguono ad un ritmo a dir poco inverosimile. I toni della commedia vorrebbero essere leggeri ma pungenti, romantici ma non sdolcinati e ironici senza però dimenticare temi profondi come le difficoltà di convivenza fra culture diverse, fra stili di vita diversi, fra razze e religioni diverse. Ciò che ne esce fuori invece è un girotondo dissonante di battute sbilenche, di situazioni paradossali ed inutili, di personaggi al limite del normale (soprattutto i parenti di lei sembrano dei villici preistorici che si divertono a graffiare macchine come dei bulli ) senza peraltro risultare divertenti. Si salva il finale, tenero, e l'incontro di Marion con l'attore Vincent Gallo, scena surreale ma di un qualche pregio. Peccato per la Delpy, bellezza un po' sfiorita ma sempre di fascino che si circonda di comprimari improbabili e irritanti, e per Chris Rock relegato a sfornare battute e freddure per tenere in piedi la baracca. Forse l'aria degli Stati Uniti non giova alla regista francese, che farebbe meglio a tornare alla vecchia Europa e a ritrovare un po' di eleganza francese nel costruire una commedia romantica.