Grandi Film 1961- 1970
2001: Odissea nello Spazio - 1968 - di Stanley Kubrick, con Keir Dullea,
Gary Lockwood, William Sylvester
Il film dei film, il capolavoro di Kubrick, la fantascienza che si fa metafisica, il destino dell'uomo nella mani di una scienza non sempre controllabile. Quanti semi meravigliosi ha distribuito "2001 Odissea nello Spazio", quante riflessioni ancora oggi attualissime e potenti, quante metafore universali, quante scene memorabili. Tratto da un romanzo di Arthur C. Clark il film di Kubrick esplora l'animo umano e il destino dell'umanità con spietata lucidità e lo fa mettendo al centro della storia (e della Storia) un computer dalla voce suadente (HAL 9000 - provate a spostare ogni consonante di una lettera ed avrete IBM, giochino nascosto nel nome) che dovrà scortare Frank e David, astronauti in missione per il recupero di un misterioso monolito apparso sulla Luna. La trama, ricca di metafore e di sottotesti, è per Kubrick un pretesto per mettere a confronto la linearità di pensiero della macchina con le contorte e subdole strategie della mente umana, e i simboli quali il viaggio nello spazio e la rinascita finale di David portano ad interrogarsi a lungo su quale sia il rapporto uomo-scienza, su quale metamorfosi si debba compiere per fare un reale passo avanti nella coscienza di sè. Le scimmie che aprono il film con scene entrate nella storia del cinema per crudezza e veridicità sono anch'esse parte del percorso evolutivo (o involutivo) che porterà ad un viaggio metaforicamente senza ritorno. La musica del "Danubio Blu" che accompagna i movimenti delle astronavi nello spazio è uno fra i passaggi più eleganti, suggestivi ed evocativi di tutti i tempi e il respiro del computer, quasi umano, quasi morente, quasi cosciente, è una vetta ineguagliabile di potenza e magia. Un solo Oscar, per gli effetti visivi, ma sarebbe stato meglio per gli effetti visionari, e profetici, di una delle più belle pellicole mai girate da quando i fratelli Lumiere hanno dato inizio alla magia del cinema.
Psyco - 1960 - di Alfred Hitchcock con Janet Leight Anthony Perkins, Vera Miles, John Gavin
Nel 1960 l'inconscio fa il suo ingresso al cinema e lo fa dalla porta principale, visto che il maestro Hitchcock costruisce un personaggio che sembra uscito da un manuale di psichiatria, uno psicotico morbosamente legato alla madre, manipolatore e lucido, capace di gestire la propria schizofrenia con tratti perfino gentili ed empatici. Forse non il più bel film di Hitchcock, ma sicuramente uno di quei film in cui la tensione non scende mai, in cui l'atmosfera cupa e morbosa si fa fascino grazie ad una regia stringente ed ipnotica, e grazie anche ad alcune scene entrate nella storia del cinema, prima fra tutte l'uccisione della giovane Janet Leight, ladra in fuga, sotto la doccia del Motel Bates, ad opera di un'ombra con i capelli raccolti a crocchia, ma anche la scena della rivelazione finale, con una sedia a dondolo che non si dimentica facilmente. Anthony Perkins da volto, voce, ma soprattutto sguardo e tic ad un Norman Bates che è entrato nell'immaginario collettivo come il prototipo del pazzo, e lo fa in modo talmente magistrale da esserne schiacciato, tanto che la sua carriera da quel momento in poi è stata quasi congelata, immolata sull'altare di un personaggio che ha fatto di un film un cult e di un giallo d'autore un punto di riferimento per chiunque abbia in seguito voluto mettere in scena un omicidio. Sei nomination agli Oscar e neanche una statuetta, ma si sa, i gialli hanno sempre raccolto poca gloria nella notte degli Academy Awards.
Jules e Jim - 1962 - di Francois Truffaut con Jeanne Moreau, Oskar Werner,
Henri Serre,Vanna Urbino, Boris Bassiak
Difficile tradurre in immagini, senza diventare trasgressivi, o volgari, o anticonformisti di maniera, un amore a tre, un legame libero, spensierato e felice fra una ragazza e due amici, Jules e Jim appunto. Ma Truffaut sa volgere in poesia ogni scena e sa raccontare amori estremi con la delicatezza e la grazia di chi conosce le emozioni vere. E così la storia, ambientata agli inizi del 1900 che coinvolge Catherine (una Jeanne Moreau mai così bella, intesa e vera) Jules, francese e Jim austriaco, diventa parabola essenziale ed esistenziale, fà della libertà e della passione un manifesto dichiarato, e fà dell'amore un gioco da giocare fino in fondo, fino alle estreme conseguenze. Uno dei film più importanti della Nouvelle Vague, una pellicola che ha il coraggio di proporre una donna che sceglie, impone, decide, una donna che ama e se non è riamata sceglie la morte (il tema tornerà molti anni dopo in un altro capolavoro di Truffaut, "La donna della porta accanto") una donna che agli inizi degli Anni Sessanta era quasi inconcepibile, ma che il grande regista francese ammanta di una lievità pur nella disperazione che la rese universale. La scena della Moreau vestita da uomo con i baffi è ancora oggi di rara bellezza e originalità.
Lawrence d'Arabia - 1962 - di David Lean con Anthony Quinn, Anthony Quayle,
José Ferrer, Peter O'Toole
Un film epico, di ampio respiro e capace di evocare un'epoca, e un luogo, mitici e lontani. Siamo durante prima Guerra Mondiale e il tenente Lawrence, agente del servizio segreto britannico, diventa il capo dei guerriglieri arabi in rivolta contro i turchi fino alla conquista di Damasco, salvo poi scomparire di scena. Magistralmente diretto da David Lean in un deserto magico, misterioso ed affascinante, interpretato da un cast superbo, è uno di quei film capaci di suscitare forti emozioni, di far vivere avventure cariche di pathos e di coinvolgere lo spettatore in una cavalcata lunga 222 minuti. In questo caso gli Oscar sono la testimonianza della grandezza del film, ben sette: miglior film, regia, fotografia, colonna sonora, scenografia, montaggio e suono. Pur senza i grandi effetti speciali del cinema di oggi Lawrence d'Arabia, grazie anche alla potenza di una colonna sonora efficace e presentissima, rimane un capostipite dei film d'avventura e di battaglie.
West Side Story - 1961 - di
Jerome Robbins, Robert Wise con Natalie Wood,
George Chakiris, Richard Beymer, Russ Tamblyn - 1961
Il musical che rivoluzionò il musical. Leonard Berstein e Robert Wise nel 1957 misero in scena a Brodway questo dramma ispirato a Giulietta e Romeo di Shakespeare e la versione cinematografica del 1961, diretta dallo stesso Wise insieme a Jerome Robbins ha lo stesso sapore cupo e disperato che mai fino ad allora i musical, leggeri e rassicuranti, avevano osato avere. La lotta senza quartiere fra due bande di New York, i Jets, americani, e gli Sharks, portoricani, si svolge in una New York povera, degradata, dove il possesso di un campo di basket o di un cortile vuol dire vittoria. E' su questo sfondo che nasce l'amore fra Maria, sorella di Bernardo capo degli Sharks, giovane portoricana piena di sogni e desiderosa di integrarsi (una Natalie Wood semplicemente perfetta) e Tony, migliore amico di Riff, capo dei Jets. E' un amore impossibile, che porterà sangue e dolore, un amore che darà il via ad una guerra senza ragioni e senza niente da vincere, se non la perdita dell'innocenza e del futuro. Una storia dura, letale, senza lieto fine, ma resa impalpabile, poetica, magica dalle immense coreografie di Bernstein che inventano il linguaggio del corpo, riempiono corpi di emozioni e sentimenti, che accompagnano ogni gesto, anche il più rabbioso, con eleganza e suggestione. Le canzoni più note, "Maria", "Tonight" "America" sono intense, emozionanti, da brividi e il trionfo agli Oscar di quell'anno (10 statuette fra cui film, regia, scenografia, coreografia, costumi, montaggio, colonna sonora) è il giusto tributo ad un capolavoro assoluto che ha dato il via ad un genere nuovo di Musical, più adulto, maturo, e vero di quelli cui si era abituati fino ad allora.
Butch Cassidy - 1969 -
di George Roy Hill con Robert Redford, Paul Newman,
Katharine Ross
La coppia Redford Newman è qui al suo picco più alto di fascino, intensità di recitazione, carisma e simpatia. Interpretare due banditi del vecchio west, Butch Cassidy e Sundance Kid, mai tanto lontani dagli stereotipi dei fuorilegge cui i western ci avevano abituato, è una sfida più che vinta per i due grandi leoni del cinema americano, diretti con mano felicissima da George Roy Hill che calca sugli aspetti caratteriali dei due regalandoci dei personaggi fuori dagli schemi, anticonvenzionali, capaci di affrontare la morte con spavalderia senza risultare mai veramente spavaldi. Le scene con la maestrina di cui sono entrambi innamorati sono davvero in stato di grazia, la complicità fra i due e le battute continue fanno di Butch Cassidy una partitura allegra ma non troppo, dove le malinconie e le delusioni hanno ampio spazio di manifestarsi, senza però mai appesantire una trama che dichiaratamente vuole essere un omaggio ed insieme una rivisitazione inversa dei vecchi film western, dove si sparava tanto (e anche qui si spara senza lesinare pallottole) e si parlava poco, mentre i due antieroi di Hill parlano, litigano, si confrontano, aderendo perfettamente ad un modello molto più contemporaneo di uomo, lontano anni luce dagli eroi tutti d'un pezzo di John Wayne per esempio. E' questa contemporaneità che fa di questi due ragazzi mai cresciuti che attraversavano il Sud degli Stati Uniti progettando rapine con la leggerezza di un bambino e la caparbietà di un idealista due caratteri che entrano nella storia del cinema a pistole spianate, pistole caricate a humor, talento e bellezza.
Il Laureato - 1967 - di Mike Nichols con Anne Bancroft, Dustin Hoffman,
William Daniels, Murray Hamilton, Katharine Ross
Manifesto culturale e sociale di quegli anni, simbolo di un'epoca confusa e incerta, in bilico fra il vecchio conformismo e la nascente libertà sessuale, perfetto esempio di un mondo in caduta libera che faceva fatica ad aggrapparsi ai vecchi ideali ma che non aveva ancora trovato un nuovo modello di comportamento che giustificasse quelle trasgressioni che oggi fanno sorridere ma nel 1967, anno di uscita del film, erano decisamente spiazzanti. In questo clima si svolge la storia di
Benjamin Braddock, neolaureato inquieto e insoddisfatto, che inizia una relazione con una signora di mezz'età (una cougar diremmo oggi), la mitica Mrs Robbinson (una Anne Bancroft affascinante come sempre) salvo poi innamorarsi della adolescente figlia di lei, e dare il via ad una serie di tragici avvenimenti. L'inquietudine del giovane Benjiamin è universale, lo spaesamento di fronte alla vita che inizia, alle responsabilità, alle scelte che il padre sollecita sono tipiche di ogni epoca, il senso di colpa e il turbamento che accompagnano la relazione con la matura signora sono invece la dichiarata voglia di Nichols di contestualizzare un sentimento comune a tutti i giovani. La scena finale in Chiesa e un quasi happy end (lo sguardo dei due giovani in fuga perde di colpo la gioia e acquisisce coscienza del futuro) non smorzano il clima di pessimismo e di amarezza che pervade l'animo di Benjamin lungo tutto il film, quasi a testimoniare che diventare adulti è una strada solitaria e dolorosa, indipendentemente dalle trasgressioni e dagli eccessi (commisurati ai tempi che si vivono) che ci si voglia concedere. Sette nomination agli Oscar e premio a Mike Nichols per la regia.
L'Appartamento - 1960 - di Billy Wilder con Shirley MacLaine, Jack Lemmon,
Fred MacMurray, Ray Walston
Uno tra i capolavori di Billy Wilder, con due interpreti in assoluto stato di grazia e una sceneggiatura perfetta condita da dialoghi impeccabili. C.C. Buxter (Jack lemmon al suo meglio, capace di far passare sul suo volto mobile ogni umana emozione) un piccolo impiegato, si fa benvolere dai vertici dell'azienda per cui lavora prestando il suo appartamento ai capi della società che vogliono un luogo appartato e sicuro per le loro scappatelle sentimentali. Tutto fila liscio fin quando Fran, la ragazza di cui è innamorato, che lavora anch'essa nella società di Baxter, non andrà proprio in quell'appartamento per incontrare il suo amante, il diretto superiore di C.C. La storia finirà male e la sofferenza di Fran, una Shirley Mc Laine che sembra uscita dalla matita di un disegnatore tanto è perfetta nelle espressioni sognanti quanto in quelle disperate, sarà la molla che spingerà C.C. ad un moto di orgoglio e dignità. Una parabola amarissima eppure tenera e ricca di humor sulla solitudine, sulle illusioni perdute, sul cinismo e sull'opportunismo, sull'amore e sulla capacità di vincere le proprie piccole meschinità per diventare ciò che si desidera, un
affresco umano impagabile reso magistrale dalle interpretazioni dei due protagonisti. Cinque premi Oscar fra cui regia, film (ultimo film in bianco e nero a vincere l'Oscar prima di "The Artist" nel 2012 se non si considera "Shindler's List" che aveva ogni tanto dei tocchi di colore) e sceneggiatura, ma solo nomination per la Mc Laine e per Lemmon che avrebbero sicuramente meritato la statuetta. Una curiosità: quando nel 2000 Kevin Spacey vinse l'oscar per "American Beauty" dedicò la sua vittoria proprio all'interpretazione di C.C. Buxter data dal grande Lemmon.
Il Buio Oltre la Siepe - 1962 - di Robert Mulligan con Frank Overton, Gregory Peck, Paul Fix, Brock Peters
Tratto dal libro di Harper Lee premio Pulitzer il film di Mulligan mette in scena con raro coraggio e lucida denuncia il razzismo dilagante nel Sud degli Stati Uniti negli Anni Trenta (siamo in Alabama), mettendo il dito nella piaga di un problema che anche negli anni Sessanta in cui Mulligan girò il film (e in parte anche oggi) era ben lungi dall'essere risolto. Un giovane di colore, Tom Robinson, viene accusato di aver stuprato una ragazza bianca. Un avvocato progressista, Gregory Peck asciutto, misurato, perfetto nel ruolo, dimostra la sua innocenza ma una giuria di bianchi ignora i fatti e condanna il giovane, che scappa, finendo ucciso da una guardia. L'odio in paese a quel punto esplode, l'agricoltore che aveva denunciato il ragazzo di colore assale i due figli dell'avvocato e viene ucciso da un ritardato mentale vicino di casa dell'avvocato stesso. Dramma intenso, che scava nella psicologia dei personaggi e ne fa persone a tutto tondo, che restituisce tutto il profondo Sud dei primi anni del Novecento mettendo in scena un'atmosfera torbida e prevenuta cui però si deve avere il coraggio di opporsi come dimostra Peck con la sua schiena dritta e che ammonisce a non lasciare che l'ignoranza vinca sulla ragione, perchè altrimenti il buio non sarà solo oltre la siepe, ma anche dentro i nostri cuori. Cinque Premi Oscar fra cui Migliore Attore a Gregory Peck e sceneggiatura.
La Dolce Vita - 1960 - di Federico Fellini con Marcello Mastroianni, Anita Ekberg, Magali Noël, Yvonne Furneaux, Nadia Gray
Onirico, decadente, visionario, fedele alla sua estetica e capace di suggestioni e metafore uniche, Federico Fellini costruisce qui il grande affresco di una Roma (di una società, di un'umanità) gaudente e perduta, fallita e quasi appagata da questo fallimento, trasgressiva ma in fondo provinciale. Affida il ruolo principale ad un immenso Marcello Mastroianni, cronista ormai disilluso circa i suoi sogni di carriera che rincorre divi del cinema con il fedele Paparazzo (termine entrato nel vocabolario internazionale dopo questo film), uomo alla deriva e amante distratto, perno di un vortice in perenne disequilibrio. L'incontro con la bella svedese (la magica Anita Ekberg che fa il bagno nella Fontana di Trevi è entrato nella storia del cinema) è solo uno dei tanti episodi di un film apparentemente senza un unicuum, che colleziona episodi e dissemina echi di storie più che storie stesse, che lavora di sottrazione narrativa per gonfiare l'affabulazione, la metafora, la grande illusione di dare una lettura altra (e alta) alla realtà quotidiana. Immenso regista del sogno e dell'incubo Fellini non lesina qui le sue doti e riesce ad evocare un contemporaneo universale che tutto contiene e tutto destruttura, lasciando che una statua di Gesù fluttui sul cielo di Roma trascinata da un elicottero, povero simbolo incapace di volare da solo in una società corrotta e senza più valori. Palma d'Oro al Miglior Film al festival di Cannes e sette nomination agli Oscar (di cui una vinta per i costumi) tra cui regia e sceneggiatura di Fellini, Rondi, Pinelli e Flajano (e, anche se non risulta fra gli accrediti, Pasolini).