Febbraio 2013
Gambit - di Michael Hoffman con Colin Firth, Cameron Diaz, Alan Rickman, Stanley Tucci, Tom Courtenay ***
Leggero, leggerissimo, ma anche molto ben recitato, molto divertente e molto centrato questo remake del "Gambit" con Michael Caine cui Colin Firth rende omaggio nella montatura degli occhiali, nella pettinatura e finanche in alcune espressioni. La trama, semplice e classica in un film del genere vede Harry Dean, esperto d'arte vessato da Lionel Shaband, eccentrico miliardario per cui lavora, organizzare una truffa per far credere all'odiato capo di essere in procinto di comprare un rarissimo quadro di Monet mentre invece si tratta di una copia confezionata da un amico di Dean, il Maggiore, voce fuori campo del film e autentico e flemmatico gentleman inglese d'altri tempi. Meno flemmatica è la texana PJ Puznowky che dovrebbe interpretare l'improbabile proprietaria del quadro e che finisce con essere il classico elemento di disturbo (l'americana rozza e confusionaria nella compassata società inglese è un'idea sfruttatissima ma funziona sempre). La truffa naturalmente non va come dovrebbe e le scene centrali del film sono sostenute dal grande carisma di Firth che si aggira per buoni venti minuti all'interno del Savoy di Londra in mutande con la regalità che ben gli conosciamo (senza balbuzie stavolta) e dalla verve di Cameron Diaz, di Alan Rickman e di Stanley Tucci che caratterizzano senza arrivare al caricaturale ma enfatizzando con solido mestiere i tratti grotteschi o comici dei loro personaggi. La sceneggiatura è dei fratelli Cohen che si sono divertiti a concepire scene ben oltre l'elegantemente brillante, scivolando qua e là su alcune situazioni forse fin troppo scontate, ma che sono anche riusciti a confezionare un prodotto- sicuramente di genere - che raggiunge il suo scopo perfettamente, intrattenere divertendo, dando modo agli attori di sfoderare il proprio talento e a noi spettatori di goderne il risultato per un'ora e mezzo di puro spasso.
Upside Down - di Juan Diego Solanas con Jim Sturgess, Kirsten Dunst, Jayne Heitmeyer, Agnieshka Wnorowska ***
Un universo parallelo con due mondi perfettamente simmetrici, ognuno con la propria gravità che non permette agli abitanti del mondo di sotto di andare in quello di sopra e viceversa, e come unico collegamento il Transworld, una costruzione che collega i due mondi e in cui lavorano persone appartenenti ad entrambi per il benessere del mondo di sopra che sfrutta le risorse del mondo di sotto e costringe i loro abitanti a vivere di stenti e miseria. In questo scenario apocalittico - magnificamente fotografato in blu da Pierre Gill - vive Adam, un bambino i cui genitori sono morti in un'esplosione alla Transworld e che nel fine settimana va a trovare sua zia Becky che gli insegna i segreti delle api rosa il cui polline ha il potere di rendere vana la gravità di entrambi i mondi permettendo così agli oggetti e alle persone di muoversi liberamente nel vuoto. Ed è proprio andando a raccogliere il polline rosa su una montagna che Adam conosce Eden, una bambina del mondo opposto. La curiosità si trasforma ben presto in amicizia e con gli anni in amore, tant'è che i due si continuano ad incontrare sulla montagna galeotta fin quando non vengono scoperti, colpiti da proiettili e separati. Passati dieci anni Adam scopre casualmente che Eden è ancora viva e lavora alla Transworld e farà di tutto per rivederla non sapendo che la ragazza dai tempi del loro incidente soffre di amnesie e non si ricorda di lui. Non si può svelare oltre la trama anche se chiaramente si attiene alle regole di ogni storia d'amore cinematografica, con incursioni nel fantasy, o meglio nello sci fi, e nella metafora sociale niente affatto ridondante. La scenografia e l'impatto visivo dei due mondi, con tanto di dialoghi e confronti fisicamente "upside down" è decisamente originale e di grande fascino, la dedizione di Adam per risvegliare la sua principessa degna della tradizione fiabesca e la rappresentazione di una società oppressiva e autoritaria, sia pure un classico nel mondo della fantascienza, risulta incisiva nel porsi come ostacolo al sogno d'amore - e di libertà - di Adam ed Eden che rappresentano il desiderio di affrancarsi dai ruoli stabiliti da chi è al comando, di affermare la propria indipendenza e la possibilità, sempre e comunque, di cambiare il proprio destino. Romantico e idealista Sturgess e un po' algida la Dunst ma nel complesso la magia dell'amore che salva il mondo rimane sempre una carta vincente, soprattutto se incastonata in un universo così lontano geograficamente da noi ma così simile nei sentimenti e nelle inquietudini sociali al nostro piccolo mondo unico.
Beautiful Creatures - La Sedicesima Luna - di Richard LaGravenese con
Alice Englert, Alden Ehrenreich, Emma Thompson, Jeremy Irons, Viola Davis ***
Dopo i vampiri innamorati di "Twilight" e gli zombi malinconici di "Warm Bodies" arriva ora una dolce maga adolescente in bilico fra luce e tenebra, fra divenire, al compimento dei sedici anni, una creatura del bene o una portatrice di distruzione. Tratto dal primo dei quattro romanzi fantasy di Kami Garcia e Margaret Stohl "Beautiful Creatures" è una romantica storia d'amore inserita in un'ambientazione gotica, fantasy, e anche molto molto concreta visto che Gatiln, la cittadina del profondo Sud in cui si svolge la storia è un concentrato dei più bigotti e retrivi atteggiamenti dei "benpensanti" di tutti i tempi che si nascondono dietro la lettura della Bibbia e non hanno però nessuna pietas umana. Ed è appunto in questo meraviglioso esempio di ipocrisia e falso moralismo che vive Ethan il quale, giunto al terzo anno di liceo, e dopo aver da poco perso la madre, sogna solo di andarsene al college il più lontano possibile. Ma che cambierà idea dopo aver conosciuto Lena, appena giunta in città per trasferirsi a casa dello zio, il potente e e misterioso Macon Ravenwood, discendente dei fondatori della città. Su di lui e sulla ragazza girano voci, fioriscono pettegolezzi, chi dice che siano adoratori di Satana, chi sussurra che facciano incantesimi, chi attribuisce loro lo scatenarsi dei fulmini. La realtà è che sono sì appartenenti ad una famiglia di stirpe magica, ma che non scatenano tempeste o uragani nè tanto meno fanno incantesimi. Soprattutto Lena, che sta per compiere sedici anni e che nel giorno del suo compleanno scoprirà se la sua natura sia di seguire la luce o la tenebra. Nel frattempo si innamora di Ethan che l'aveva già incontrata nei suoi sogni ed insieme scopriranno che nel passato delle loro famiglie c'è più di un segreto, che sotto alla biblioteca della città c'è una ben più affascinante e misteriosa "biblioteca della Magia" e che un modo per scampare alle tenebre c'è, ma il prezzo da pagare è molto alto... Che la sceneggiatura abbia avuto vita facile partendo da una trama affascinante, romantica e ricca di suspance e colpi di scena non tragga in inganno, adattare la pagina per il cinema è sempre un lavoro delicato, ma in questo caso estremamente ben riuscito, perchè lo svolgersi delle scene ricche di effetti speciali, il crescere della tensione e la storia d'amore intensa, coraggiosa e tenace che lega Ethan e Lena sono sempre in perfetto equilibrio, e perchè i momenti brillanti non mancano e sono affidati ad una Emma Thompson impeccabile nell'interpretare il doppio ruolo di bigotta e strega perfida, e perchè il fascino del misterioso Macon è affidato alla classe e all'eleganza di Jermy Irons che infonde magia alla magia. Ma è soprattutto il grande amore in pericolo che catalizza l'attenzione, i sentimenti puri e spaventati di due adolescenti che si trovano a combattere contro qualcosa di più grande di loro e pur tuttavia non si arrendono, perchè se non si credesse all'amore quando si ha sedici anni il mondo, magico e reale, andrebbe perduto. I due giovani interpreti sono estremamente gradevoli, semplici, naturali e le inquietudini di Lena sono quelle tipiche di ogni corpo che si trasforma, di ogni anima che sboccia, di ogni cuore che si chiede "che sarà di me?" facendo di questa giovane maga una vera adolescente in pena, romantica e disperata, vicina a Giulietta, ad Ofelia, a qualunque ragazza che a sedici anni si innamora e non sa controllare le proprie emozioni, anche se solo una maga come lei può regalare una vera nevicata per il giorno di Natale al suo innamorato. Sceneggiatori già al lavoro sul secondo libro immaginiamo, perchè il finale più che aperto prevede ulteriori magie, sentimenti e avventure. Non solo per adolescenti.
Gangster Squad - di Ruben Fleischer con Josh Brolin, Ryan Gosling, Emma Stone, Sean Penn, Giovanni Ribisi, Nick Nolte, Mireille Enos, Anthony Mackie ***
Impossibile non riandare con la memoria a "Gli Intoccabili" di "De Palma o a "L.A. Confidential" di Hanson nell'assistere alla lotta senza quartiere fra un piccolo boss in ascesa nella Los Angeles del 1949 e la squadra di agenti che con ogni mezzo cerca di ostacolarne l'azione criminale. Manca però l'atmosfera dolente e malinconica dei due film appena citati nella pellicola di Fleischer - che schiera un cast stellare - nonostante le ambientazioni e le ricostruzioni d'epoca siano accurate e l'eco della guerra negli occhi e nel cuore dei protagonisti sia citata a più riprese. I due poli narrativi ruotano intorno a Mickey Cohen, ex pugile - un Sean Penn pesantemente truccato e un po' troppo macchiettistico - divenuto un boss del traffico di droga e il sergente John O'Mara che svolge il suo mestiere come se fosse una missione e corre ogni giorno rischi eccessivi tornando a casa dalla moglie incinta ricoperto di lividi. E' a lui che Bill Parker, superiore disincantato ma ancora combattivo, decide di affidare il compito di fermare Cohen, non arrestandolo o uccidendolo in azione, ma rovinandogli gli affari al punto da costringerlo a lasciare Los Angeles. E così O'Mara mette insieme una squadra di esperti di intercettazioni, di tiratori scelti e di amici fidati, primo fra tutti il collega Jerry Wooters che con Cohen ha un problema personale visto che è innamorato di Grace, la pupa del boss. Le prime azioni della nuova task force sono talmente fallimentari da rasentare il ridicolo, ma pian piano il gruppo prende le misure a Cohen e i risultati cominciano ad arrivare, scatenando una guerra che finirà per segnare entrambe le parti, per sempre. Non si può negare la buona volontà del regista e degli interpreti nel ricreare le atmosfere dei Noir Anni 40, e la trama si lascia seguire senza difficoltà, ma alcune scene sono straordinariamente stereotipate e altre talmente prevedibili da chiedersi se il fatto di essere ispirato ad un fatto vero non sia un limite eccessivo per il film. La recitazione dei tanti divi non brilla per originalità ma tengono bene la scena Gosling e la Stone in versione femme fatale, di nuovo insieme dopo "Crazy, Stupid Love". Molto belle le scenografie, i costumi e tutto ciò che contribuisce ad immergersi nella torbida notte californiana, e forse se non ci fossero stati gli intoccabili Kostner, De Niro e Connery avremmo apprezzato di più la gangster squad di Brolin & Co, ma alzi la mano chi non è corso con la memoria all'appartamento in penombra in cui muore Malone-Connery ne "Gli Intoccabili" quando l'inquadratura silenziosa si avvicina alla casa dove Ribisi sta facendo le intercettazioni.
Die Hard - Un Buon Giorno per Morire - di John Moore con Bruce Willis,
Jai Courtney, Cole Hauser, Amaury Nolasco **
La serie di Die Hard, arrivata al quinto capitolo, difficilmente può stupire o spiazzare lo spettatore che sa esattamente ciò che avverrà sullo schermo e ne è ben contento, quasi che ritrovare Bruce Willis alle prese con catastrofi sempre più immani sia un piacevole e rassicurante ritorno al passato. Questa volta poi i Mc Clane sono addirittura due, perchè a John si unisce il rampollo John Junior detto Jack, agente Cia in incognito che John va a salvare in Russia aiutandolo a smascherare un traffico di uranio impoverito e a confezionare inseguimenti, esplosioni e stragi, marchio di fabbrica del poliziotto newyorkese, anche se in trasferta. L'improbabile sequenza di azioni va vissuta come se si stesse assistendo ad un cartone animato, in cui Gatto Silvestro Willis si rialza tutto intero dopo essere stato schiacciato, scagliato, incendiato o precipitato, senza pretendere una qualche aderenza con la realtà ma godendosi il semplice puro spettacolo che non ha altri scopi che divertire, intrattenere e mostrare i muscoli maturi del buon Bruce che tra una mitragliata e l'altra trova anche il tempo di far pace con quel figlio ribelle con cui non parlava da tempo. Famiglia, azione, Usa contro Russia, cosa c'è di più americano di così? Forse solo il coraggio di fare un film apertamente leggero, senza vergognarsi di non inserire messaggi o metafore, senza voler a tutti i costi scendere nei meandri della mente o dell'anima, ma limitandosi ad intrattenere, a far sorridere, a tener compagnia per i novanta minuti scarsi che dura la pellicola. Un'onestà che tanti altri film simili non hanno, e che va apprezzata insieme allo sguardo assassino di Bruce Willis che non perde smalto con l'età. E visto che le ultime scene di Die Hard 5 si svolgono a Chernobyl qualora la produzione decidesse di mettere in cantiere un ulteriore seguito aspettiamoci un John Mc Clane radioattivo, con tutte le conseguenze del caso!!
Anna Karenina - di Joe Wright con Keira Knightley, Jude Law, Aaron Johnson, Michelle Dockery, Kelly MacDonald ****
IImmaginate un palcoscenico magico, dove le scene si alternano con la leggerezza di una piuma, immaginate una coreografia che coinvolge protagonisti e comparse in una danza invisibile ad occhio nudo ma percepibile nell'armonia dei gesti e dei movimenti, aggiungete una fotografia che insegue luci ed ombre con fascino antico, dei costumi sontuosi e coloratissimi musiche struggenti ed evocatrici di epoche lontane (ed infatti scenografie, costumi, luci e musiche sono in nomination agli Oscar) ed avrete l'originalissima messa in scena di una "Anna Karenina" moderna e allo stesso tempo eterna, avviluppata in un walzer di passione e perdizione come in altre precedenti celeberrime versioni (quelle con la Garbo in primis) ma anche ammantata di un nuovo carisma, ipnotico ed elegante, che la reinventa e la rivitalizza. Del resto che Joe Wright fosse a suo agio con le trasposizioni cinematografiche di grandi libri lo aveva già dimostrato con "Espiazione" di Mc Ewan, ma qui va oltre immaginando un palcoscenico, sociale ed emotivo, in cui far muovere i suoi personaggi, così noti da poter intimidire anche i più grandi registi. La storia d'amore che nasce improvvisa e incontrollabile fra Anna, moglie del ministro Karenin - un controllatissimo e toccante Jude Law - e il conte Vronsky, è di quelle che sconvolgono non solo i cuori dei protagonisti ma anche le famiglie - Vronsky dovrebbe sposare la giovane Kitty, sorella della cognata di Anna - e la società, che non perdonerà ad Anna di aver scelto di andare a vivere con l'amante e di aver avuto una figlia da lui. Wright accompagna il crescendo di dolore ed isolamento di Anna con scene potenti magistralmente interpretate da una Keira Knightley semplicemente perfetta nei panni di Anna, ma quello che più colpisce è la capacità del regista di costruire le scene come fossero quadri in movimento, capaci di vivere di luce propria, come alcune scene di ballo in cui i passi di danza di Anna e Aleksei al loro passaggio nella sala danno vita alle altre coppie, o la scena della corsa dei cavalli, allestita in un teatro raccolto, come se fosse una recita nella recita, con il rumore del ventaglio di Anna che diventa lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli, o come la scena finale, girata in uno sterminato campo d'erba che si scopre essere il fojer di un teatro. Finzione nella finzione quindi, ma anche passione e tensione, con le lunghe parti del romanzo di Tolstoj dedicate alle riflessioni di Levin sulle società rurale ridotte a pochi quadri d'insieme che bastano però a dare una precisa immagine della Russia al tempo degli Zar. Sceneggiata dallo stesso Wright con Tom Stoppard - e si sente la sua mano "shakespeariana" - "Anna Karenina" riesce nella titanica impresa di raccontare un'epoca, una passione e una società senza mai indulgere in intellettuali psicologismi - l'approfondimento emotivo dei personaggi è affidato ad una frase, ad un gesto, ad uno sguardo - e senza ricorrere a scene madri ricattatorie - la morte di Anna avviene quasi fuori campo - lasciando che sia l'eleganza, la grazia e la simmetria di gesti, sguardi e silenzi a costruire un autentico capolavoro cinematografico.
The Sessions - di Ben Lewin con John Hawkes, Helen Hunt, William H. Macy,
Moon Bloodgood ***
Mano ferma nel trattare un materiale sempre pericoloso come l'handicap, perennemente a rischio di scivolare nel pietistico o nel retorico, interpreti in stato di grazia - Helen Hunt candidata all'Oscar - e una sceneggiatura lineare che lascia però ampio spazio alle emozioni spontanee, semplici, immediate fanno di "The sessions" ("The surrogate" in originale, tradotto, se così si può dire, in italiano con un titolo sempre in inglese ma diverso, mah!) un film limpido, coraggioso e mai venato di volgarità pur trattando di sesso, parlando di sesso, mostrando sesso. Il sesso che Mark O'Brian, poeta, scrittore e giornalista, che ha contratto la polio a sei anni e negli Anni Ottanta vive in un polmone d'acciaio quasi tutta la sua giornata, non ha mai conosciuto, e nonostante la sua profonda fede cattolica che gli fa considerare un rapporto fuori dal matrimonio come un peccato, vuole sperimentare prima di morire. La confessione con Padre Brendan, prete intelligente e comprensivo lo convince che Dio non avrà niente in contrario se Mark conoscerà l'amore carnale al di fuori del matrimonio e così inizia la ricerca della donna che lo aiuterà a superare paure fisiche e soprattutto psicologiche. La scelta cade su una terapeuta del sesso, Cheryl Cohen Greene che in sei sedute dovrà insegnare a Mark ad accettare il proprio corpo, a non avere sensi di colpa e a ricevere e dare piacere liberandosi da legacci mentali e pregiudizi, insegnamenti ben più profondi di quelli "tecnici" che Mark si aspetta, insegnamenti che portano i due a stringere un rapporto emotivo ed umano pericoloso per entrambi, ma che oltre al dolore della separazione lascerà ai due un ricordo struggente e a Mark la possibilità di innamorarsi di nuovo, cosa che avverrà qualche anno dopo. Al funerale di Mark viene letta dalla sua compagna la poesia che lui aveva dedicato a Cheryl, in un muto scambio di sguardi ed emozioni che legano le due donne ad un uomo che nonostante l'handicap aveva una vitalità, un senso dell'umorismo e una profondità rare. La storia è quella del vero Mark O'Brian, e la capacità di Lewin di dirigere gli attori verso un traguardo fedele alla realtà senza mai forzare la mano è fortemente aiutata dalla naturalezza con cui i tre attori principali tengono la scena, Helen Hunt spogliandosi e recitando nuda con una spontaneità che toglie al suo personaggio ogni venatura macchiettistica, Macey regalando al suo padre Brendan un'umanità e un'empatia sincere e non legate al suo ruolo sacerdotale e soprattutto John Hawkes che fa di Mark un uomo e non un personaggio, fa del suo handicap un bagaglio e non un fardello, recitando con il solo sguardo e con la sola voce.
Promised Land - di Gus Van Sant con Matt Damon, Frances McDormand, Hal Holbrook,
John Krasinski, Frances McDormand, Rosemarie DeWitt ***
Sceneggiato da Matt Damon e diretto da Gus Van Sant "Promised Land" pur essendo un film rigoroso e coraggioso e pur affrontando tematiche scottanti rimane lievemente distaccato dal cuore del narrato e manca in alcuni passaggi di carisma e personalità. Steve Butler giovane in carriera ma originario dell'Iowa - tant'è che per ricordarlo indossa i vecchi scarponi del nonno agricoltore - insieme alla collega Sue deve recarsi per conto della Global, la società per cui lavora, a Mc Kinley, zona agricola ricca di fattorie e allevamenti, per convincere gli abitanti a concedere le loro terre per un progetto di trivellazioni allo scopo di trovare gas naturale. Soldi ne arriveranno molti agli abitanti della piccola cittadina, ma i rischi ambientali connaturati allo sfruttamento dei terreni rendono gli abitanti perplessi e così quello che doveva essere un lavoretto da sbrigare in due giorni diventa una estenuante lotta con coloro che si oppongono al progetto, rappresentati da Frank Yates, un vecchio ingegnere del Mit in pensione e dal giovane ambientalista Dustin Noble che arriva in città con le foto di animali morti in altre zone del paese dove è stato fatto un accordo con la Global, conquista gli abitanti cantando Springsteen al karaoke e fa la corte ad Alice, la maestra del paese che interessa anche Steve. La lotta si fa aspra e i giochi si scoprono più sporchi di quello che si crede, fino ad un colpo di scena finale che redistribuisce i ruoli di buoni e cattivi, perchè la realtà sempre distante dai bianchi e neri predefiniti. La mano di Van Sant nel tratteggiare una società rurale in pesantissima crisi economica è ferma e l'amarezza del dover scegliere fra la propria dignità e la possibilità di offrire una sicurezza economica alla propria famiglia è tangibile nell'incertezza e nel disagio che serpeggia fra gli abitanti, ma manca nei personaggi quella scintilla che li trasformi in anime infiammate, che li trascini in un vortice di sentimenti e che apra allo svolgersi di una trama avvincente oltre che corretta. Matt Damon è perfettamente in bilico fra rampantismo e scrupoli di coscienza, senza mai conquistare realmente la platea, più incisiva Frances Mc Dormand e di grande intensità la partecipazione del grande vecchio Hal Holbrook, pacato e rassegnato al contrario del giovane ambientalista tutto slancio e simpatia, ma nel complesso la sensazione di lentezza non abbandona gran parte della pellicola anche se si ritagliano uno spazio intenso, all'interno del plot, alcune scene di forte impatto, come il pranzo a casa di Frank o il discorso di Steve nella palestra della scuola in sottofinale. Sicuramente non è il Van Sant migliore, e sicuramente Matt Damon come sceneggiatore di denuncia deve ancora farsi le ossa, e la rivelazione che le grandi compagnie giochino sporco non è tematica proprio originale ma alcuni confronti e alcuni scorci dell'America rurale e della realtà contemporanea fatta di necessità più che di principii sono note amare che colpiscono duro.
Warm Bodies - di Jonathan Levine con Nicholas Hoult, Teresa Palmer, Analeigh Tipton, John Malkovich **
Premettendo che il film si rivolge principalmente al pubblico degli adolescenti e quindi si attiene agli stilemi e alle regole del film di genere teen non si può negare che un certo fascino malinconico attraversi la pellicola al di là degli immancabili interludi romantici, dei soliloqui ironici e degli scontri generazionali. Siamo in un futuro apocalittico in cui gran parte della popolazione è ormai ridotta alla condizione di zombie, costretta a mangiare altri esseri umani e a cibarsi anche del cervello per non trasformarli a loro volta in zombie, avendo in cambio i ricordi di chi muore, mentre i propri ricordi personali sono ormai andati perduti per sempre. In questo scenario R, giovane zombie, senza passato e senza futuro, si aggira sperduto cercando un perchè alla propria condizione fin quando non incontra un gruppo di giovani umani e fra loro July, adolescente figlia del comandante Grey, capo della resistenza, e prova un sentimento a lui sconosciuto, ma che lo porta a salvarla. Le emozioni impacciate di r sono quelle di ogni adolescente, zombie o non zombie, la difficoltà di parola tipica della razza metà uomini metà morti è qui sinonimo della impacciata timidezza che coglie ogni giovane di fronte al primo amore e la trasformazione che grazie alle emozioni R compie è il viaggio iniziatico che ogni teenager deve affrontare per crescere. La lenta rinascita di un gruppo di zombie è affrontata da R e dai suoi compagni con stupore, incredulità, paura di cambiare, ma si trasforma ben presto in una rivendicazione forte e felice culminata da una ferita sanguinante che riporta R alla vita e all'amore. Ingenuità se ne possono trovare a iosa nella pellicola diretta da Levine, ma forse non sono neanche ingenuità, sono percorsi ben conosciuti che si deve tracciare se si vuole rivolgersi ai giovani e nel farlo il regista ha la grazia di disseminare una dolente malinconia, una struggente solitudine, un lento faticoso evolversi che accomuna questi sperduti zombie ad qualunque adolescente impaurito. La storia d'amore è certo necessaria ma la freschezza e la delicatezza di R sono decisamente la nota più intonata, incastonata in scene d'azione in cui gli zombie combattono prima con gli umani e poi con gli zombie ormai irrecuperabili ridotti a scheletri e in banali confronti padre figlia in cui l'adulto deve essere ottuso e la giovane lungimirante, con tanto di abbraccio pacificatore finale. Un film comunque superiore alla gran parte dei teen movie in circolazione, forte di un disagio e di un'inquietudine molto molto umana.
Broken City - di Allen Hughes con Mark Wahlberg, Russell Crowe, Catherine Zeta-Jones, Kyle Chandler **
Non c'è genere cinematografico tanto frequentato quanto quello dei film mediocri, costruiti con mestiere ed interpretati con professionalità, che si lasciano guardare ma non emozionano nè sorprendono, e Broken City purtroppo è il prototipo della specie. In una New York alla vigilia delle elezioni il sindaco Nicholas Hostetler chiede al detective Billy Taggart, ex agente costretto a lasciare la polizia dopo essere stato accusato di aver ucciso uno stupratore, di indagare sulla propria moglie per avere le prove del suo tradimento. Billy inizia ad indagare ma naturalmente c'è molto di più di un adulterio in ballo, corruzione politica, legami segreti fra imprenditori ed amministratori pubblici, omicidi e raggiri, oltre naturalmente a ricatti e rese dei conti condite da colpi di scena a ripetizione. La definizione di thriller per il film di Hughes è decisamente ridondante perchè è vero che l'impianto narrativo è costruito con millimetrica attenzione agli stilemi del genere, ma la banalità della trama appiattisce ogni tentativo di originalità. Quanti politici corrotti abbiamo visto al cinema - ben più incisivi di un Russel Crowe pigro e svogliato, tra l'altro doppiato nella versione italiana non dal suo solito doppiatore Luca Ward ma da Claudio Sorrentino (bravissimo per carità ma il cambio di doppiaggio è sempre sintomo di una distribuzione poco convinta) - quanti detective ex alcolisti che nel procedere della trama perdono la donna che avevano faticosamente conquistato, ricadono nell'alcool e alla fine si redimono immolandosi e trascinando a fondo anche il marciume della città, e quante femme fatale ci hanno ammaliato ben più dell'algida Catherine Zeta-Jones che è bella e poco più e comunque appare in pochissime scene come Crowe del resto (sarebbe ora di finirla di lanciare in promozione i grossi nomi del cast quando poi si limitano a recitare dei cameos di pochi minuti). Il film come dicevamo si lascia vedere, ma niente di tutto ciò che racconta sorprende, nè la recitazione di Wahlberg aiuta più di tanto perchè il suo statico e ruvido detective è solo una pallida copia di ben altri investigatori cinematografici - senza neanche arrivare a scomodare Bogart - e scoprire che la politica fa affari sporchi con l'alta finanza e con gli imprenditori non ci fa sussultare sulla sedia per la sorpresa, nonostante i tentativi di attualizzare la trama con storie omosessuali, speculazioni edilizie e mutui capestro.
Noi Siamo Infinito - "The Perks of Being a Wallflower" - di Stephen Chbosky con Logan Lerman, Emma Watson, Nina Dobrev, Paul Rudd ***
Adattare un libro per il grande schermo è sempre un azzardo, farlo partendo da un proprio romanzo ancora di più ma Chbosky riesce a rimanere sincero, coraggioso, pungente e malinconico senza indulgere in autocelebrazioni o in sentimentalismi fini a se stessi. La storia è semplice e proprio per questo universale, Charlie è al primo anno di liceo e viene da mesi di disagio psichico che lo hanno portato a sentire il bisogno di scrivere lettere ad un amico immaginario - o forse ad un amico che si è suicidato mesi prima - per raccontargli il proprio spaesamento, l'isolamento dai compagni di scuola, la sensazione di inquietudine e di paura che lo attanaglia ogni giorno senza un motivo, l'adolescenza in una parola. In un liceo frequentato da bulli e superficiali ragazzotti Charlie riesce a diventare amico di Patrick, studente eccentrico ed omosessuale dell'ultimo anno e della sua sorellastra Sam, di cui si innamora. Con loro conoscerà altri ragazzi "fuori dal coro", che mettono in scena il "Rocky Horror Picture Show", che sfidano i professori e che non si vergognano della propria diversità pur soffrendone, e con loro imparerà ad accettarsi e troverà il coraggio per affacciarsi alla vita, scrivendo un'ultima lettera al suo amico in cui dichiara "scusami se non avrò più tempo per scriverti, potrei essere troppo occupato a partecipare", frase che rivela a se stesso e tutti noi che la felicità è sempre nascosta dietro la fatica del crescere e che solo attraverso i pugni presi - non solo metaforici - si può imparare ad andare fieri delle proprie fragilità. Un episodio rimosso dalla sua infanzia e riemerso quasi per caso sarà l'ultimo ostacolo per riappropriarsi del proprio futuro, finalmente fuori dal tunnel. Metaforico e allo stesso tempo lineare nel seguire le piccole avventure quotidiane, le delusioni sentimentali, le frustrazioni e le scoperte emotive degli adolescenti "Noi siamo infinito", frase che Charlie pronuncia in finale di film ascoltando "Heros" di David Bowie è una pellicola amara come l'adolescenza e dolce come i sentimenti che la accompagnano, mette in scena le inquietudini e i dubbi di Charlie con tenerezza e verità, non tacendo i buchi neri, ma lasciando che la sincerità - e la freschezza - delle emozioni travolga i protagonisti e gli spettatori con la più completa libertà, senza calcare la mano con artifici registici o forzature recitative, accompagnando le lacrime ed i sorrisi con grande delicatezza ed eleganza. Tra i giovani attori spicca Emma Watson, non più Hermione, ma giovane musa inquieta, vincitrice per questo ruolo del Premio come Miglior Attrice in un film drammatico al People's Choice Awards.
Blue Valentine - di Derek Cianfrance con Michelle Williams, Ryan Gosling, Mike Vogel, John Doman ***
Quando si può dire che un amore è finito? Quando la consapevolezza del fallimento può superare i sentimenti che ancora ci legano al passato? Quando il dolore della perdita diventa accettabile? E' tutto in queste semplici domande - e nelle impossibili risposte il bellissimo e doloroso film di Cianfrance che a distanza di tre anni dalla distribuzione internazionale - e alla nomination agli Oscar per la Williams - esce anche in Italia. Dean e Cindy sono sposati, hanno una figlia, e si stanno faticosamente allontanando. A loro insaputa talvolta, loro malgrado, a dispetto dei ricordi e dell'affetto che ancora li lega, in uno spazio temporale - ed emotivo - affollato di flashback che ci fanno assistere ai loro primi incontri, all'innamoramento, alla nascita di Frankie, ai problemi economici e di lavoro, ma soprattutto ci raccontano in modo straordinariamente naturale - e per questo tanto più struggente - del loro lento andare alla deriva, due continenti che crescendo si separano, ognuno incapace di raggiungere l'altro, pur desiderandolo ancora. La parte centrale del film, in cui i due tentano un'ultima riconciliazione in un albergo freddo e anonimo, è il cuore ferito del film, e del loro amore, incapace di superare il dolore, e incapace anche di lasciarsi alle spalle quel sentimento che li ha uniti. Si soffre nel vedere Dean commettere errori su errori nel tentativo disperato di non perdere la moglie, e vedere Cindy irrigidirsi per paura di soffrire, e ci si accorge che quegli sguardi appartengono a tutti coloro che hanno amato, e che nella sommessa fatica quotidiana dell'allontanarsi c'è un pathos assoluto, uno strappo autentico, che si sente nello stomaco e nel cuore. La scelta di Cianfrance di rimanere incollato agli sguardi, ai gesti e ai silenzi dei due protagonisti - magistrali per intensità e per sincerità Gosling e la Williams - è ciò che fa di "Blue Valentine" un film intenso e autentico, calibrato sul dolore vero, quello che spezza e che non lascia neanche la forza di reagire. Lascia un senso di frustrazione e di sofferenza inaudita la scena finale, si vorrebbe quasi essere di fronte ad uno di quei film ruffiani in cui un improbabile lieto fine viene garantito per contratto, perchè l'amore di Dean e Cindy meriterebbe un'altra chance, ma la vita vera è altra, ed è tutta nel corpo ripiegato di Dean mentre saluta la figlia e nello sguardo disperato di Cindy mentre la abbraccia, e nei rimpianti che avranno, e che avremo per loro, e con loro lasciando la sala con un groppo in gola e la consapevolezza che il cinema indipendente ha ancora e sempre un coraggio, una poesia e una bellezza che le grandi majors non hanno e non possono avere.
Re della Terra Selvaggia (Beasts of the Southern Wild) - di Benh Zeitlin con Quvenzhané Wallis, Dwight Henry, Levy Easterly ****
Esordio alla regia premiatissimo - tra cui Camera d'Oro a Cannes 2012 e Premio per il Miglior Film drammatico al Sundance - la pellicola sceneggiata dallo stesso regista insieme a Lucy Alibar, autrice dell'opera teatrale da cui è tratta, è un'originalissimo misto fra cinema magico, realtà più cruda e poesia infantile. L'azione si svolge in Lousiana, in un bayou - un misto di foresta e palude tipico di quella zona - dove in casupole degradate vive un gruppo eterogeneo di sbandati, fra cui la piccola Hushpuppy e suo padre Wink. I due hanno un legame conflittuale eppure di profondo affetto, vivono in due casupole affiancate per mantenere la propria indipendenza ma si dedicano l'uno all'altra con una tenerezza infinita. Hushpuppy è anche la voce narrante del film e ci racconta delle sue fantasie sull'universo di cui sente il cuore pulsante nelle creature viventi, e della sua ferma convinzione di essere la rappresentante di una specie che gli studiosi futuri studieranno come "una hushpuppy". La realtà però è profondamente diversa, gli uragani minacciano l'ecosistema, Wink si ammala e Hushpuppy resta da sola nella casupola e si prepara il pranzo da sola accendendo il gas con un lanciafiamme, naturalmente dopo aver indossato un casco protettivo. La sensazione di sperdimento della bambina però dura poco, perchè il padre le ha insegnato come sopravvivere acchiappando i pesci a mani nude e rompendo il guscio dei granchi, e lei si sente forte, quasi invincibile, tanto che quando la polizia forzatamente sgombera la zona organizza la fuga di tutti gli abitanti di Buthtub (vasca da bagno) il quartiere dove vivono. Man mano che la malattia di Wink avanza la realtà si fa più cupa però e il viaggio scaramantico, quasi magico, che la bambina compie per salvarlo tornando con una porzione di pesce gatto fritto ha un abisso di tenerezza, poesia e disperazione. E le creature mitologiche che accompagnano le fantasie di Hushpuppy e che si inchinano a lei alla fine del film sono il chiaro bisogno di oltrepassare il tangibile, il terreno, il fisico, per elevarsi in quell'universo corale in cui "una hushpuppy" lascerà il segno. Misterioso, criptico eppure lineare, ipnotico nel suo girare intorno ad un universo atemporale in cui non c'è quotidianità fatta di lavoro, telefonini o strade affollate, il film di Zeitlin è esemplare nel concentrare sguardo emotivo e macchina da presa su una interprete straordinaria che dà voce, corpo e sguardo ad una specie davvero rara, quella dei bambini cresciuti troppo in fretta, adulti nonostante, eppure capaci di conservare quel cuore magico che solo la fantasia dei più piccoli sa inventare. Un film che spiazza quanto incanta, e che ha il coraggio di fare cinema con una materia talmente ruvida che solo la voce vellutata e incantata di Hushpuppy poteva addolcire. Strameritata nomination come migliore attrice per la piccola interprete di Hushpuppy, intensa come un'attrice consumata e spontanea come una vera bambina.
Zero Dark Thirty - di Kathryn Bigelow con Jessica Chastain, Jason Clarke, Taylor Kinney, James Gandolfini, Scott Adkins, Chris Pratt, Mark Strong ****
Che Kathryn Bigelow non sia intimidita da progetti spinosi lo dimostra il suo precedente "The Hurt Locker", ma questa volta con "Zero Dark Thiry" (le "ore piccole" della notte, quelle in cui si sferrano gli attacchi a sorpresa in ambito militare) va oltre e nel rendere conto dei dieci anni di indagini per individuare ed uccidere Osama Bin Laden confeziona un film che è sì cronaca, ma è anche, e profondamente, cinema, con una protagonista femminile che si muove a disagio ma coraggiosamente nell'orrore dello spionaggio e della tortura e non perde mai di vista il proprio obiettivo, opponendo il suo istinto alle statistiche e alle percentuali di Washington, e lavorando con tenacia e dedizione contro l'ottusa ostinazione di alcuni superiori. Maya - l'intensa, superba Jessica Chastain, sempre struccata e mai tanto bella, candidata favoritissima all'Oscar per la Miglior Interpretazione Femminile - è una giovane agente della Cia inviata in Pakistan per seguire le indagini dell'Intelligence in seguito all'attentato dell'11 Settembre. La caccia a Bin Laden è priorità assoluta e nessun metodo è bandito, compresa la tortura dei prigionieri cui Maya assiste inorridita ma senza opporsi, consapevole del suo ruolo e dei limiti che la Storia impone agli esseri umani. Passeranno dieci anni prima che una flebile traccia, caparbiamente inseguita da Maya, porti uno spiraglio nel muro di omertà, violenza, tradimenti e perdite che è divenuta la lotta ad Al Qaeda. E si arriva così alla notte del 2 Maggio 2011 in cui le squadre speciali dei Navy Seals faranno irruzione in una casa blindatissima in Pakistan e uccideranno Bin Laden in una lunghissima sequenza (circa quaranta minuti), girata quasi interamente al buio, di rara intensità e bellezza. Il finale in sordina, solitario e senza enfasi, con una solitaria lacrima ad accompagnare il solitario rientro in patria di Maya, dà la misura del rigore del film mai spettacolare ma sempre spettacolarmente equilibrato, misurato, compendio di umana frustrazione e legittima fiducia nel proprio lavoro. Le scene che non si dimenticano sono tante, l'impatto forte di alcuni confronti, la preparazione della "battaglia" da parte dei soldati, il telefono muto di Maya mentre una sua collega viene uccisa, e la scelta della Bigelow di concentrarsi sull'indagine senza mai alzare lo sguardo dal'universo "lavoro" rende la pellicola un labirinto claustrofobico da cui si può uscire solo trovando la strada giusta, niente scorciatoie - fuor di metafora niente scene che allentino la tensione, niente storie d'amore, niente battute, nessun momento spensierato o privato - scelta coraggiosa e vincente nel costruire un tunnel dove la velocità accelera man mano che ci si avvicina all'uscita, come il battito del cuore, come l'emozione che a sorpresa un film tanto rigoroso riesce ad evocare. Lontani i tempi in cui Kathryn Bigelow veniva definita "la moglie di James Cameron" si conferma una tra le registe più sensibili, più lucide e più appassionate del panorama statunitense.
Zambezia - di Wayne Thornley - Animazione ***
Coloratissima sorpresa sudafricana "Zambezia" è un trionfo visivo di suoni luci e variopinte piume che coinvolge e diverte con una trama classica quanto originale. Siamo in Africa, e Kai, giovane falco, vive isolato con il padre Tendai che cerca così di proteggerlo dalle insidie del mondo. Ma Kai vuole varcare i confini del suo ristretto universo, conoscere specie diverse, vivere la propria vita e così quando viene a sapere che esiste un luogo, Zambezia, dove vivono migliaia di uccelli, e soprattutto quando scopre che il padre non solo la conosce ma vi ha abitato, scappa per raggiungerla. E troverà un immenso baobab vicino alle cascate Vittoria - spettacolarmente ricostruite in animazione 3D - con costruzioni a forma di uccelli, una festa di primavera in procinto di essere celebrata ma soprattutto tantissimi uccelli con cui fare amicizia. l suo sogno è diventare uno dei membri degli Hurricans, la pattuglia di protezione di Zambezia e con l'aiuto dello stravagante amico Ezzie tenterà di essere arruolato. Nel frattempo una minaccia incombe sulla comunità, l'iguana Budzo si è alleato con i marabù, estromessi dalla comunità degli uccelli, per raggiungere Zambezia e divorare tutte le uova. Dopo varie peripezie e aver appreso la vera storia dei suoi genitori Kai salverà l'isola facendo comprendere a tutti l'importanza di collaborare per un fine comune, senza personalismi o pregiudizi, conquistando anche la bellissima Zoe e facendo pace con Tendai, giunto anche lui a Zambezia per aiutare il figlio. Delizioso esperimento di animazione in 3D il sudafricano "Zambezia" entra dalla porta principale nella categoria dei cartoni animati più classici, creando un mondo magico e personaggi ben delineati, con una personalità definita, con principi, ideali, memorie, delusioni e speranze. Sono proprio lo spessore psicologico e il vissuto dei protagonisti - uniti al meraviglioso scenario naturale in cui si svolge l'azione - a rendere Kai ed i suoi amici un gruppo eterogeneo di esseri senzienti, capaci di emozioni e sentimenti, credibili e molto umani pur indossando variopinte piume. Delizioso anche l'accompagnamento musicale, presente in modo simpatico e mai invadente. Tra le voci originali che hanno partecipato al doppiaggio Samuel L. Jackon nella parte di Tendai e Leonard Nimoy nella parte di Sekhuru, capo spirituale di Zambezia e vecchio amico di Tendai.