Film Candidati all'Oscar come Miglior Film
Vincitore: Argo
Argo - di Ben Affleck con Bryan Cranston, Ben Affleck, John Goodman, Alan Arkin, Michael Cassidy, Taylor Schilling ***
Solido film d'azione, perfetta ricostruzione di un'epoca, intensa denuncia storica. Argo è un concentrato dei migliori stilemi di questi generi, e anche di molti altri, perchè non manca la suspence nei momenti topici, non manca la battuta ad effetto dei fool shakesperiani resi magistralmente da due gigioni come John Goodman e Alan Arkin, non manca l'emozione liberatoria nel classico finale da "arrivano i nostri" - poco conta che non siano eserciti a cavallo a salvare i protagonisti ma una prenotazione aerea - resta la sensazione di film saldamente ancorato a quel classico impianto narrativo che da sempre sorregge i migliori film statunitensi che raccontano con orgoglio la loro capacità operativa. L'azione si svolge in Iran, 1979, subito dopo la fuga dello Scia Pahlavi negli Stati Uniti. Khomeyni sale al potere, la popolazione insorge e prende d'assalto l'ambasciata statunitense a Teheran sequestrando più di sessanta persone fra impiegati ed ospiti. Solo sei diplomatici riusciranno a fuggire e a rifugiarsi temporaneamente a casa dell'ambasciatore canadese. Come riportarli a casa è la domanda che tormenta ministri e statisti, finchè non si decide di coinvolgere la Cia e in particolare l'agente Tony Mendez, esperto di situazioni critiche. L'idea che Mendez proporrà agli scettici politici è tanto strampalata che finisce per essere accettata: inventare la realizzazione di un film di fantascienza - Argo appunto - per giustificare l'entrata e soprattutto l'uscita di cittadini occidentali da Teheran. Un regista disincantato e un Premio Oscar per gli effetti speciali saranno il trait d'union fra Hollywood e la Cia per rendere l'idea più credibile possibile. Mendez va a Teheran, fa imparare ai sei diplomatici le parti che dovranno interpretare - registi, produttori, locations manager e operatori di ripresa che non sanno neanche tenere in mano un esposimetro - e in un crescendo di colpi di scena e di tensione degni di un thriller riuscirà a far rientrare i sei in patria, salvo dover restituire la medaglia al valore che gli verrà assegnata perchè l'operazione verrà secretata e gli Stati Uniti non figureranno come partecipanti all'azione, lasciando che siano i canadesi a prendersi tutto il merito, per non rischiare di mettere in pericolo i rimanenti ostaggi che verranno rilasciati solo dopo 444 giorni di prigionia. Sarà solo con la presidenza Clnton che i fatti verranno resi noti a livello inernazionale. Storia più cinematografica non si poteva trovare per costruire un film che raccontasse la storia ma anche il cinema, che svelasse gli intrighi politici ma anche la passione degli uomini che agiscono nel silenzio e nel buio dello spionaggio, che facesse spettacolo con personaggi quasi surreali per l'entusiasmo con cui partecipano ad un'azione del genere come se fosse un gioco - o un vero film . Attori perfettamente in parte, con Ben Affleck nel doppio ruolo di regista ed attore che regala al suo Tony Mendez una misura e un sangue freddo che non nascondono le emozioni, i dubbi e le passioni che lo agitano e sa dirigere con mano ferma il resto del cast costruendo una girandola di azioni ed emozioni degne di un regista di esperienza ben superiore alla sua. Un film vecchio stile si potrebbe dire, capace di coniugare lo spettacolo con l'impegno, la tensione con la riflessione, l'attenzione alla storia con la cura dei personaggi.
Il Lato Positivo - Silver Linings Playbook - di David O. Russell con Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Jackie Weaver - Sentimentale - Usa - 2012 (Uscita in Italia 7 Marzo 2013) ***
Due cuori - folli - e il bisogno di vivere nonostante il disagio psicologico, l'amore quasi come una sfida e una minaccia, il dramma che come un cielo in primavera si apre improvvisamente e fa intravedere il sereno, l'equilibrio magico di alcune pellicole americane che non hanno paura di sterzare dagli ospedali psichiatrici alle sale da ballo, riuscendo a commuovere senza spingere sul pedale del sentimentalismo bieco, ma regalando emozioni sincere. "Il lato positivo" è un concentrato di stili e di generi, con partenza cupa e dolente perchè il protagonista Pat ha passato gli ultimi otto mesi in un istituto psichiatrico per aver massacrato di botte l'amante della moglie. Ha problemi a controllare la rabbia, è affetto da disturbo bipolare e ha un'ossessione per l'ex moglie Nikki che vuole a tutti i costi riconquistare. In queste condizioni torna a casa dai genitori che assistono alle sue scenate maniacali notturne con dolore e disagio, cercando di aiutarlo ma trovandosi impreparati ad arginare un fiume di dolore così tangibile e incrollabile. Corre Pat, corre per dimenticare la scena che ha mandato in frantumi la sua vita corre per riconquistare la forma fisica e tornare a corteggiare Nikki, corre per scappare dalla paura di tornare a vivere, paura che si concretizza nella conoscenza con Tiffany, sorella di un'amica, rimasta vedova da poco, arrabbiata con il mondo e con se stessa, reduce anche lei da un percorso psichiatrico dopo che aveva tentato di superare la morte del marito con ripetute avventure sessuali. Si incontrano e si scontrano Pat e Tiffany, lui trincerato dietro il suo mantra "Io sono sposato", lei nascosta dietro la rabbia che riserva a tutto e tutti. Fanno un patto però: lei consegnerà a Nikki una lettera di Pat se lui la aiuterà a partecipare ad una gara di ballo. E così inizia una fase di conoscenza più sincera, in cui interagiscono fratelli, padri, amici dell'ospedale psichiatrico e psichiatri tifosi di football, in una sarabanda divertente e romantica che si conclude con una girandola di passi di danza, lettere false e lettere vere e una vita che torna a vivere, con i dolori e le gioie di ogni vita, finalmente libera dal passato. Lieve in alcuni passaggi familiari, dolente e sincero nel maneggiare la tematica del disagio psichico senza retorica, romantico venato di brillante nei duetti Pat-Tiffany (nella sala da ballo si accorgono di essersi presi per mano e uno "accusa" l'altra di averlo fatto per primo, incapaci di manifestare i propri sentimenti anche a se stessi tanto l'amore è stato devastante per loro fino a quel momento) il film di Russell ha i tempi giusti, gli interpreti perfetti, - candidati all'Oscar sia Brdley Cooper che la bellissima Jennifer Lawrence - gioca a carte scoperte con i sentimenti e non ha paura di iniziare con un pugno nello stomaco per poi finire con una carezza mostrando un equilibrio di emozioni e timbri recitativi che solo pochi film hanno. Due parole a parte merita Robert De Niro - candidato agli Oscar dopo miriade di film inutili - che ha per gran parte del film un ruolo caricaturale ma che in due tre scene tira fuori sguardi e gesti che ci ricordano il grande attore che è.
Zero Dark Thirty - di Kathryn Bigelow con Jessica Chastain, Jason Clarke, Taylor Kinney, James Gandolfini, Scott Adkins, Chris Pratt, Mark Strong ****
Che Kathryn Bigelow non sia intimidita da progetti spinosi lo dimostra il suo precedente "The Hurt Locker", ma questa volta con "Zero Dark Thiry" (le "ore piccole" della notte, quelle in cui si sferrano gli attacchi a sorpresa in ambito militare) va oltre e nel rendere conto dei dieci anni di indagini per individuare ed uccidere Osama Bin Laden confeziona un film che è sì cronaca, ma è anche, e profondamente, cinema, con una protagonista femminile che si muove a disagio ma coraggiosamente nell'orrore dello spionaggio e della tortura e non perde mai di vista il proprio obiettivo, opponendo il suo istinto alle statistiche e alle percentuali di Washington, e lavorando con tenacia e dedizione contro l'ottusa ostinazione di alcuni superiori. Maya - l'intensa, superba Jessica Chastain, sempre struccata e mai tanto bella, candidata favoritissima all'Oscar per la Miglior Interpretazione Femminile - è una giovane agente della Cia inviata in Pakistan per seguire le indagini dell'Intelligence in seguito all'attentato dell'11 Settembre. La caccia a Bin Laden è priorità assoluta e nessun metodo è bandito, compresa la tortura dei prigionieri cui Maya assiste inorridita ma senza opporsi, consapevole del suo ruolo e dei limiti che la Storia impone agli esseri umani. Passeranno dieci anni prima che una flebile traccia, caparbiamente inseguita da Maya, porti uno spiraglio nel muro di omertà, violenza, tradimenti e perdite che è divenuta la lotta ad Al Qaeda. E si arriva così alla notte del 2 Maggio 2011 in cui le squadre speciali dei Navy Seals faranno irruzione in una casa blindatissima in Pakistan e uccideranno Bin Laden in una lunghissima sequenza (circa quaranta minuti), girata quasi interamente al buio, di rara intensità e bellezza. Il finale in sordina, solitario e senza enfasi, con una solitaria lacrima ad accompagnare il solitario rientro in patria di Maya, dà la misura del rigore del film mai spettacolare ma sempre spettacolarmente equilibrato, misurato, compendio di umana frustrazione e legittima fiducia nel proprio lavoro. Le scene che non si dimenticano sono tante, l'impatto forte di alcuni confronti, la preparazione della "battaglia" da parte dei soldati, il telefono muto di Maya mentre una sua collega viene uccisa, e la scelta della Bigelow di concentrarsi sull'indagine senza mai alzare lo sguardo dal'universo "lavoro" rende la pellicola un labirinto claustrofobico da cui si può uscire solo trovando la strada giusta, niente scorciatoie - fuor di metafora niente scene che allentino la tensione, niente storie d'amore, niente battute, nessun momento spensierato o privato - scelta coraggiosa e vincente nel costruire un tunnel dove la velocità accelera man mano che ci si avvicina all'uscita, come il battito del cuore, come l'emozione che a sorpresa un film tanto rigoroso riesce ad evocare. Lontani i tempi in cui Kathryn Bigelow veniva definita "la moglie di James Cameron" si conferma una tra le registe più sensibili, più lucide e più appassionate del panorama statunitense.
Re della Terra Selvaggia (Beasts of the Southern Wild) - di Benh Zeitlin con Quvenzhané Wallis, Dwight Henry, Levy Easterly ****
Esordio alla regia premiatissimo - tra cui Camera d'Oro a Cannes 2012 e Premio per il Miglior Film drammatico al Sundance - la pellicola sceneggiata dallo stesso regista insieme a Lucy Alibar, autrice dell'opera teatrale da cui è tratta, è un'originalissimo misto fra cinema magico, realtà più cruda e poesia infantile. L'azione si svolge in Lousiana, in un bayou - un misto di foresta e palude tipico di quella zona - dove in casupole degradate vive un gruppo eterogeneo di sbandati, fra cui la piccola Hushpuppy e suo padre Wink. I due hanno un legame conflittuale eppure di profondo affetto, vivono in due casupole affiancate per mantenere la propria indipendenza ma si dedicano l'uno all'altra con una tenerezza infinita. Hushpuppy è anche la voce narrante del film e ci racconta delle sue fantasie sull'universo di cui sente il cuore pulsante nelle creature viventi, e della sua ferma convinzione di essere la rappresentante di una specie che gli studiosi futuri studieranno come "una hushpuppy". La realtà però è profondamente diversa, gli uragani minacciano l'ecosistema, Wink si ammala e Hushpuppy resta da sola nella casupola e si prepara il pranzo da sola accendendo il gas con un lanciafiamme, naturalmente dopo aver indossato un casco protettivo. La sensazione di sperdimento della bambina però dura poco, perchè il padre le ha insegnato come sopravvivere acchiappando i pesci a mani nude e rompendo il guscio dei granchi, e lei si sente forte, quasi invincibile, tanto che quando la polizia forzatamente sgombera la zona organizza la fuga di tutti gli abitanti di Buthtub (vasca da bagno) il quartiere dove vivono. Man mano che la malattia di Wink avanza la realtà si fa più cupa però e il viaggio scaramantico, quasi magico, che la bambina compie per salvarlo tornando con una porzione di pesce gatto fritto ha un abisso di tenerezza, poesia e disperazione. E le creature mitologiche che accompagnano le fantasie di Hushpuppy e che si inchinano a lei alla fine del film sono il chiaro bisogno di oltrepassare il tangibile, il terreno, il fisico, per elevarsi in quell'universo corale in cui "una hushpuppy" lascerà il segno. Misterioso, criptico eppure lineare, ipnotico nel suo girare intorno ad un universo atemporale in cui non c'è quotidianità fatta di lavoro, telefonini o strade affollate, il film di Zeitlin è esemplare nel concentrare sguardo emotivo e macchina da presa su una interprete straordinaria che dà voce, corpo e sguardo ad una specie davvero rara, quella dei bambini cresciuti troppo in fretta, adulti nonostante, eppure capaci di conservare quel cuore magico che solo la fantasia dei più piccoli sa inventare. Un film che spiazza quanto incanta, e che ha il coraggio di fare cinema con una materia talmente ruvida che solo la voce vellutata e incantata di Hushpuppy poteva addolcire. Strameritata nomination come migliore attrice per la piccola interprete di Hushpuppy, intensa come un'attrice consumata e spontanea come una vera bambina.
Django Unchained - di Quentin Tarantino con Jamie Foxx, Leonardo Di Caprio,
Samuel L. Jackson, Christoph Waltz, Franco Nero, Don Johnson ****
Rilettura, omaggio, rielaborazione colta e divertita, parodia travolgente e critica sociale, Tarantino nel suo personalissimo western porta tutto il suo bagaglio culturale, tutto il suo genio creativo, tutto il divertimento di chi ama fare e guardare cinema allo stato puro e tutto il desiderio di dare vita - ridare vita - ad un genere che non è solo western, che non è solo epico, non è solo di denuncia, non è solo d'avventura, non è solo romantico e non è solo buddy buddy. Perchè Tarantino non è solo regista, è anche grandissimo sceneggiatore (e infatti puntualmente è arrivato il Golden Globe per la sceneggiatura) e quindi porta i suoi dilatatissimi dialoghi in un contesto palesemente d'azione, ed è anche un cultore del passato, e quindi porta quel gusto old style di titoli rosso fuoco Anni 70, di musiche evocative a dir poco, di sguardi di ghiaccio e pistole di fuoco che nelle sue mani diventano materia nuova plasmata dalla sua arte. La scena si apre su una fila di schiavi condotti in catene nella notte. Da lontano arriva un uomo su un carretto sormontato da un dente, tale dottor King Schultz (un perfetto e carismatico Christoph Waltz appena premiato con il Golden Globe per questo ruolo), pesante accento tedesco (se potete godetevi il film in originale perchè i tanti accenti sono una chicca in più) e aria pacata e signorile, che non esita a far fuoco con una freddezza ed una precisione impressionante però, pur di liberare uno schiavo che può aiutarlo a catturare tre banditi. Perchè il mite dottore in realtà è un cacciatore di taglie spietato e meticoloso, e il nero Django è l'unico che conosce il volto dei fratelli Brittle., su cui pende una sstanziosa taglia. E così comincia un sodalizio umano e professionale fra i due, tanto più che Schultz promette a Django di aiutarlo a ritrovare la moglie Broomhilda, schiava in qualche piantagione del Sud. Col passare dei mesi Django apprende a sparare, a filosofeggiare, a vestire come un damerino del Settecento e più di tutto ad uccidere chi lo merita. Quando i due finalmente troveranno Broomhilda a Candyland, la tenuta di cui è proprietario Calvin Candie (un a dir poco strepitoso, diabolico e psicopatico Leo di Caprio) ci sarà una lunghissima, sanguinosissima e appassionatissima resa dei conti. Cinema allo stato puro quello di Tarantino, cinema d'evasione, perchè le battute sono tanto glaciali quanto fulminanti, cinema d'impegno, perchè la condizione degli schiavi è sottolineata con serietà e senso morale, cinema pulp come ci si aspetta dal re del pulp, con litri di sangue, pallottole che attraversano almeno tre corpi e lo stesso Tarantino - in una celebrativa partecipazione - che fa scintille grazie alla dinamite, ma soprattutto cinema di sostanza, con i dialoghi tarantiniani, con i personaggi tarantiniani - lo schiavo Stephen su tutti, ambiguo, sospettoso, maestoso nello sguardo torvo di Samuel L. Jackson - e la capacità di far sembrare 165 minuti un battito di ciglia, perchè il film vola talmente alto e talmente libero e talmente elegante che si desidera accompagnare Django ancora per un po' sul suo cammino di uomo cosciente di sè e del suo potere, libero e fiero, ma ancora capace di un gesto d'affetto per il suo amico Schultz in sottofinale. Immenso Tarantino che sfracella corpi, ci delizia con dialoghi degni di Beckett, ci ricorda l'orrore della schiavitù con poche crude scene spesso lasciate fuori campo come lo sbranamento da parte dei cani di uno schiavo fuggiasco, ma che sa con due o tre pennellate schive parlare d'amore e di amicizia come pochi altri.
Lincoln - di Steven Spielberg con Daniel Day-Lewis, Tommy Lee Jones, Sally Field, Lee Pace, Joseph Gordon-Levitt ***
Stilisticamente impeccabile, tecnicamente magistrale - luci, scene, costumi e fotografia da Oscar - politicamente corretto e misurato, se fosse un documentario della History Channel il "Linclon" di Spielberg sarebbe un capolavoro, ma la magia del cinema dov'è? Nell'epopea che racconta la ratifica del XIII Emendamento che nel 1865 abolirà la schiavitù dei neri manca la scintilla pulsante che accende il cuore dei grandi capolavori nonostante la recitazione impeccabile di Day Lewis, della Field e di Tommy Lee Jones e nonostante la regia attenta e meticolosa di Spielberg. La scelta di concentrare l'azione in un pugno di mesi sulla carta si prospetta interessante (la sceneggiatura è tratta da "Team of Rivals" di Kushner) per non appesantire la biografia di Lincoln con anni ed anni di avvenimenti, ma nonostante questo le dispute parlamentari e gli interminabili approfondimenti sui dettagli del trattato appesantiscono la prima parte del film oltre misura, la guerra resta sullo sfondo e tristemente apprendiamo che la firma della pace fu solo una pedina di scambio sul tavolo delle trattative per arrivare ad avere la maggioranza il giorno della votazione, maggioranza ottenuta con i peggiori voti di scambio, con corruzione, con minacce e con sotterfugi, ma si sa, la Storia non si fa con le mani pulite. Lincoln è carismatico sì, ma fin troppo ieratico, perso dietro i suoi pensieri e intento a raccontare le sue astruse storie (che fosse un fan di Tarantino e dei suoi dialoghi strampalati ma ben più divertenti?) il Thaddeus Stevens di Tommy Lee Jones è paradossale e sopra le righe - fortuna per noi perchè ci regala qualche sorriso - ma tende al macchiettistico, Sally Field regala l'unica scena di cinema vero, quando si inginocchia davanti al marito confessando tutto il suo dolore e strappando al presidente l'unico guizzo di umanità che Spilberg gli concede (troppo poco noi italiani conosciamo della storia americana per sapere se davvero il carattere dell'uomo che "ha fatto l'America" fosse così controllato) e tutto il cast fa il suo lavoro con precisione e mestiere, ma nulla più, non si sussulta, non si palpita, non ci si emoziona e non ci si commuove, nè quando l'emendamento viene approvato, nè quando Lincoln viene ucciso, e neanche quando i generali degli eserciti del Nord e del Sud si incontrano alla fine della guerra. E invece sono scene che dovrebbero far venire i brividi in un film di Spielberg, perchè di brividi emozioni e lacrime ce ne ha regalate tante nei suoi precedenti capolavori, ma è come se nelle due ore e mezzo che dura il film (e si sentono tutte alla fine, mentre per esempio le due ore e tre quarti di "Django" scappano via fin troppo veloci) il regista di "E.T." e di "Shindler's List" volesse metterci di fronte ad un minuzioso trattato di storia, dove diligentemente apprendiamo che anche i grandi uomini devono scendere a compromessi per ottenere grandi vittorie che cambieranno il futuro di una nazione, dove scopriamo che i deputati sono disposti a vendere il proprio voto in cambio di un qualche favore, che la politica è sporca e che la guerra fa soffrire milioni di famiglie - cose talmente lapalissiane da essere trascurabili in una ricostruzione filmica - mentre noi avremmo voluto assistere ad un grande capolavoro cinematografico, epico, retorico forse, ma che ci facesse provare quel brivido che invece rimane frustrato nell'occhio dello spettatore, appagato da tanta perfezione tecnica ma deluso dall'impostazione documentaristica di un film candidato a ben 12 Oscar.
Les Miserables - di Tom Hooper con Hugh Jackman, Anne Hathaway, Russell Crowe, Amanda Seyfried, Helena Boham Carter, Sacha Baron Cohen, Eddie Redmayne *****
Un romanzo fra i più significativi della letteratura mondiale, un musical che da trent'anni entusiasma il pubblico, una storia che sembra fatta apposta per il grande cinema sembrerebbero motivi sufficienti a dare vita ad un capolavoro, ma il film di Tom Hooper brilla di luce propria creando una magia rara, plasmando scena dopo scena personaggi immortali ed immergendoli in un'epoca di sofferenza e miseria che se nella pagina di Hugo incombeva come una nube nera qui esplode come il cuore di una nazione. La scelta di aderire al musical anche nella parti recitate, che quindi risultano cantate - e da qui il consiglio di vedere il film in originale o al massimo con i sottotitoli per godere della messa in scena e della bravura degli interpreti - rende l'opera ancora più palpitante ed emozionante. La storia è ambientata in Francia, nel 1815, e segue le vicende di Jean Valjean che dopo 19 anni di prigione per aver rubato del pane si trova in libertà ma impossibilitato a ritrovare la propria dignità perchè perennemente rifiutato per il proprio passato. Il suo alter ego è Javert, guardia del carcere e sua ombra anche quando, dopo aver ricevuto un gesto caritatevole da padre Myriel che nasconde un suo furto, Valjean cambia e si dedica a fare il bene della comunità, diventando sindaco di Montreuil con il nome di Madeleine. Qui incontrerà Fantine, costretta a prostituirsi per mantenere la figlia Cosette, e poco prima della morte di lei le promette di prendersi cura della bambina, e per far questo fugge ancora dal proprio passato, inseguito dall'ossessione di Javert. Gli anni passano, i moti rivoluzionari degli studenti agitano Parigi e Cosette di innamora di Marius, giovane manifestante, amato anche da Eponine, figlia dei due locandieri che avevano cresciuto Cosette. Sarà Valjean a salvarlo dalla battaglia e a riunire i due giovani prima di morire riconciliato con se stesso. Sorte diversa avrà la sua nemesi Javert, che dopo essere stato catturato dai rivoltosi e liberato proprio da Valjean, non riuscirà ad accettare la fine del proprio odio, al contrario di Valjean che muore dicendo "sono un uomo che ha imparato a non odiare". La storia è potente, emozionante e coinvolgente, ma la grandiosità della musica, sia negli assoli sia nei duetti (che a volte diventano dialoghi amorosi e a tre o quattro con picchi di intensità magistrale) alza la temperatura emotiva, e porta sullo schermo le voci dolenti dei poveri, la redenzione di Valjean, l'ossessione di Javert, la passione di Cosette e la disperazione di Fantine con un crescendo visivo e sonoro che lascia senza fiato. Impossibile non rimanere incantati davanti alle scene corali, teatrali nell'impostazione ma totalmente cinematografiche nella realizzazione, impossibile non partecipare al crescente sussulto popolare e al dramma tutto intimo di un'uomo divorato dai sensi di colpa, assolutamente incantevoli le parti brillanti affidate a Thénardier e alla moglie (interpretati in modo semplicemente strepitoso da Helena Boham Carter e Sacha Baron Cohen) due fool shakesperiani colorati e surreali che irrompono nel dramma con tempi comici perfetti. E indimenticabili rimangono le canzoni, l'assolo di Fantine, l'accorata preghiera di Valjean, la disperata presa di coscienza di Javert, interpretate con coraggio, intensità e vitalità da tre interpreti in stato di grazia, una Anne Hathaway essenziale e scarnificata, uno Hugh Jackman tormentato e coraggioso e un Russel Crowe impeccabile nel tratteggiare un uomo ancorato alle regole e schiavo del dovere. Tra i giovani la parte di Eponine, e la sua canzone d'amore, sono una gemma di dolore sincero e puro, che tocca nel profondo. Finale arioso, lirico, poetico e corale, magnifico come tutto il film candidato ad otto meritatissimi Premi Oscar.
Vita di Pi - di Ang Lee con Gérard Depardieu, Irrfan Khan, Tabu, Suraj Sharma ***
Il poliedrico Ang Lee, capace di passare con elegante disinvoltura dai romanzi di Jane Austen ai romantici omosessuali di Brokeback Mountain al fumettistico Hulk, ci regala per questo Natale l'epica pura, infiocchettata di sentimenti, legata stretta con la magia del 3D e della computer graphic e scintillante di riflessioni filosofiche e religiose. La storia di Pi - Piscine Molitor in origine, ma abbreviato per evitare le prese in giro dei compagni di scuola - parte da lontano, da un'India quasi fiabesca, colorata e magica, in cui si cresce nel mito di uno zio campione di nuoto e la realtà dello zoo gestito dal padre. Pi è un'anima che sboccia, studia, impara, è curioso di tutto ciò che non conosce e la sua mente aperta gli permette di essere affascinato da ogni religione, da ogni scienza, da ogni filosofia. Ma anche dagli animali dello zoo, in particolare da una tigre, Richard Parker, nome astruso quanto il suo, frutto di uno scambio di documenti con chi l'ha venduta allo zoo, che Pi tenta di avvicinare scatenando l'ira del padre che gli ricorda con una scena brutale quale sia la reale natura degli animali. Ma la vera svolta nella vita di Pi, che nel frattempo si è innamorato, è il trasferimento in Canada, voluto dal padre per assicurare un futuro migliore alla famiglia. Malinconico per aver dovuto abbandonare la ragazza che ama e la sua terra Pi affronta la traversata in mare con il suo spirito indomito che lo porta ad entusiasmarsi per una tempesta e a volerla vedere dalla plancia della nave. Sarà la sua salvezza perchè di lì a poco tutti gli altri passeggeri saranno sommersi dalle acque, mentre lui riuscirà a salvarsi su una delle barche di salvataggio. Ma con lui riescono a scendere sulla barca anche alcuni degli animali dello zoo, una zebra, il suo amico orango, una iena e la feroce tigre Richard Parker. Di lì a poco Pi e la tigre resteranno gli unici vivi e da quel momento inizia un viaggio fisico nell'Oceano, un viaggio iniziatico dentro sè stessi per trovare la forza di sopravvivere e un viaggio di confronto con l'altro, in questo caso misterioso ed ostile, ma anche ricco di fascino per un ragazzo come Pi. La lunga avventura che i due condividono è naturalmente intessuta di qualche luogo comune e molta spettacolarità, di scene davvero degne del 3D e di riflessioni intimistiche d'autore, ma ciò che resta dopo che i due avranno finalmente raggiunto la terraferma è la scelta coraggiosa ed adulta di Lee di non antropomorfizzare l'animale selvaggio facendogli compiere quell'unico gesto che Pi si aspetta, un cenno, uno sguardo, qualcosa che li leghi per sempre. E' tutta in questa scelta la grandezza di "Vita di Pi", affresco sontuoso e monumentale, compendio di tutte le grandi storie d'avventura da Moby Dick a Titanic a Robinson Crusoe, divertimento spettacolare ed emozionante, con un protagonista che ricorda il Jamal Malik del Milionaire, mai domo, mai prono, mai appagato, e una meravigliosa tigre che ci si dimentica sia stata creata al computer per quanto è bella e palpitante. "Nel grande oceano ho trovato Gesù" racconta Pi al giornalista che lo intervista, e noi nel grande oceano, con Pi e Richard Parker abbiamo trovato lo spettacolo puro, che si permette svariati piani di lettura, metaforici e non, e che appaga la voglia di avventura di chiunque sappia ancora guardare al cinema come ad una scatola magica che ci trasporta, occhialini 3D inclusi, nell'altrove materico e metafisico.
Amour - di Michael Haneke con Emmanuelle Riva, Jean-Louis Trintignant, Isabelle Huppert, William Shimell ****
A pochi minuti dall'inizio del film Georges, il personaggio interpretato da Jean-Louis Trintignant racconta che quando era un ragazzino andò al cinema e vide un film che lo emozionò a tal punto da farlo piangere. Tanti decenni dopo confessa di non ricordare più la trama del film, ma di risentire ancora le stesse emozioni di allora. Ecco, a distanza di tempo si potrà anche dimenticare qualche dettaglio del nuovo film di Michael Haneke, Palma d'oro al Festival di Cannes - ma di sicuro rimarranno le emozioni forti, crudeli, viscerali che colpiscono durante la proiezione. Georges e Anne sono invecchiati insieme e conducono una vita tranquilla e borghese, fra un concerto e un libro da condividere. Quando Anne ha una prima ischemia transitoria il futuro dei due anziani coniugi si fa più incerto e la successiva paresi che la costringe sulla sedia a rotelle è un passaggio che i due cercano di affrontare con coraggio e forza, aiutandosi a superare i momenti di ovvio imbarazzo e dolore. Le prospettive si annullano, il corpo e le sue esigenze prendono il sopravvento e il peggiorare della malattia, unitamente alla volontà di Anne di non sopravvivere a se stessa, costringono Georges ad un atto d'amore estremo e totalizzante. La messa in scena è talmente aderente alla realtà da sembrare quasi documentaristica, ma ciò che interessa maggiormente ad Haneke è raccontare il pudore dei sentimenti, l'inadeguatezza di fronte all'orrore della malattia, il bisogno di dare un senso all'abisso che si avvicina. La figlia di Georges ed Anne, una sempre intensa Isabelle Huppert, un giorno va a visitare la madre e trova la porta della camera da letto chiusa a chiave. Ne chiede ovviamente ragione al padre e la risposata di lui è raggelante e tenerissima allo stesso tempo, perchè dopo aver raccontato alla figlia le miserie e le sofferenze fisiche e mentali che Anne subisce ogni giorno conclude con la frase "Non c'è niente da vedere in tutto questo", quasi volesse proteggere quella donna, tanto bella e tanto amata, dalla pietà e dalla compassione, sia pure della sua stessa figlia, perchè laddove non c'è più dignità non c'è più vita, e solo un grande amore può avere un'evoluzione tanto coraggiosa. Gli sguardi che i due protagonisti - magnifici per sobrietà, fragilità e potenza espressiva Trintingnant ed Emmanuelle Riva - si scambiano sono sguardi stanchi, vecchi, pieni di paura e di angoscia, ma anche di dignità e di forza, pronti a resistere, ma anche a lasciar andare. Perchè, sembra insegnarci Haneke, la vita è fatta proprio di questo, di resistere e lasciar andare, di amare e agire, di incontrarsi, amarsi e andare via insieme. Prima che sia la vita a toglierci anche l'ultimo brandello di libertà e di dignità.